23.11.14

Un profilo di Leo Ferré (Giovanni Vacca)

Il profilo che segue del grande chansonnier francese era, in un vecchio “alias”, premessa a una lunga intervista che l'etnomusicologo napoletano Giovanni Vacca aveva fatto a Ferré nel 1990 e che il supplemento culturale del “manifesto” riprendeva.  Posterò anche l'intervista, assai bella. (S.L.L.)

Léo Ferré è morto il 14 luglio 1993. È stato un artista necessariamente bifronte, capace di attingere alle fonti più insondabili della sua ispirazione artistica e, allo stesso tempo, «stare» nell'industria della musica. Due mondi, dunque, o meglio una specie di «Ferré contro Ferré».
Ferré nasce a Monaco nel 1916. In una giovinezza divisa tra l'Italia e la Francia scopre il pianoforte, da autodidatta, cominciando a musicare i versi di Paul Verlaine. Alla fine degli anni 40 si esibisce nei cabaret parigini, lavorando anche in radio. In quegli anni compone le sue prime canzoni, spesso di contenuto ribelle e anticonformista. Negli anni '60 scrive brani di grande successo e mette in musica i grandi poeti francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Aragon). Il 68 lo trova perfettamente a suo agio, avendone egli già anticipato in musica lo spirito libertario e antiistituzionale. Continuerà a comporre fino alla morte, attraversando praticamente tutti i generi, dalla canzone all'opera, dirigendo spesso l'orchestra sinfonica.
Ferré ha portato nella canzone moderna molte cose: l'ha annodata alla poesia colta e nello stesso tempo ha recuperato la forza della parola di strada; ne ha svecchiato i contenuti, da un lato iniettandovi il malessere derivante dalle contraddizioni dell'allora incipiente società di massa (il suo periodo d'oro va dagli anni 50 a tutti gli anni 70 del secolo passato) e dall'altro reinventandola come canzone «politica», legata ai grandi temi dell'attualità del suo tempo; l'ha portata sulla scena con una teatralità impressionante, che gli veniva da anni di formazione nei locali notturni parigini; l'ha usata come punto di partenza per scrivere opere teatrali, composizioni sinfoniche, e poi saggi e perfino un romanzo (non era così comune all'epoca, come lo è oggi, che un autore di canzoni scrivesse anche romanzi).
Eppure Ferré rimane in fondo, e consapevolmente lo rivendica nell'intervista che pubblichiamo, un poeta romantico, tardoromantico, in una società che obbliga il romantico, che essa stessa ha prodotto, a fare i conti con i suoi meccanismi assolutamente «anti-romantici»; da qui, tutte le sue, salutari, contraddizioni.

Senso dell'esilio
«Il senso dell'esilio e della solitudine fu l'esperienza cruciale della nuova generazione, che ne ebbe così determinata in modo durevole tutta la visione del mondo. Tale senso di solitudine assunse innumerevoli forme, e trovò la sua espressione in tutta una serie di tentativi di evasione dei quali il ritorno al passato fu il più tipico. La fuga nell'utopia e nella favola, nell'inconscio e nell'immaginario, nel sinistro e nel misterioso, il volgersi all'infanzia e alla natura, al sogno e alla follia (...)»: così lo storico Arnold Hauser parlava della generazione romantica, e chi conosce bene l'opera di Ferré può ritrovare in queste parole addirittura i titoli di alcune tra le sue più belle composizioni (La Folie, La solitude, L'enfance, L'imaginaire, Monsieur mon passé).
Le sue canzoni più propriamente politiche sono dunque funzionali soprattutto alla manifestazione di
un vitalismo esasperato, un'insubordinazione totale, «cosmica», «contro ogni Dio e ogni padrone»: le sue polemiche prese di posizione, infatti, pur essendo molto più dirette e circostanziate di quelle di Brassens, per non parlare di quelle di Brel, e pur straordinariamente efficaci dal punto di vista espressivo, si esauriscono nella denuncia (Yen a marre) o nell'utopia (L'age d'ôr), senza mai tradursi, e forse per fortuna, in reale «appoggio» politico a questa o a quella causa.
Difficilmente Ferré potrà avere degli eredi: la sua scrittura irregolare e violenta, soprattutto la scrittura-flusso degli anni della maturità (si pensi a brani come Il n'y a plus rien o Le chien), è il punto di approdo nell'arte di massa (la «canzonetta» che egli non ha mai rinnegato: «Non sono che un artista di varietà», diceva) della tradizione poetica romantico-simbolista che ha avuto soprattutto in Baudelaire e Rimbaud i suoi massimi esponenti. La potenza visionaria di questa tradizione, quella del «poeta-veggente», cantore dell'immaginario e dell'inquietudine della modernità, delle sue «corrispondenze» (lo ha fatto, in parte, anche il primo Dylan), è stata interamente riassorbita e disseminata nelle infinite potenzialità elettroniche di composizione, produzione e riproduzione dell'immagine visiva stessa e nella sua proliferazione illimitata, preponderante all'interno dei linguaggi frammentati e immediati dell'infosfera. La sua aggressività e la sua violenza verbale («lo stile dell'invettiva», come egli stesso lo definiva) ha poco spazio in un'epoca «politically correct», anche tra gli autori più «engagés», e si può forse ritrovare, paradossalmente, in linguaggi musicali che non vengono dalla tradizione della canzone d'autore (si veda, ad esempio, il rap militante).
Ferré è stato dunque unico, in grado, come nessun altro, di stare fuori e dentro la storia, fuori e dentro la cultura pop; testimone scomodo e contraddittorio di un'«epoca epica» in cui, per dirla ancora con le sue parole, «l'immobilità disturba il secolo». Della sua vasta produzione discografica consigliamo:
Les fleurs du mal (Charles Baudelaire 1857 - Léo Ferré 1957,Odéon)
Les chansons d'Aragon (1961, Barclay))
Verlaine et Rimbaud (1964, Barclay)
Léo Ferré 1969 récital en public au Bobino (1969, Barclay)
Amour -Anarchie (1970, due volumi, Barclay)
La chanson du mail-aimé (su testo di Guillaume Apollinaire, 1972, Barclay)
Léo Ferré in italiano (Traduzioni di E. Medail, 1972, Barclay)
Il n'y a plus rien (1973, Barclay)
La musica mi prende come l'amore (traduzioni di G. Armellini, 1977, La mémoire et la mer)
Léo Ferré au T.L.P. Dejazet (1988, Epm)
Ferré/Rimbaud: Une saison en enfer (1991, Epm)


“alias – il manifesto”, 10 luglio 2004

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