27.11.14

La canzone francese. Breve storia (Giovanni Vacca)

Edith Piaf
Quella che siamo soliti chiamare «canzone francese», quella di Edith Piaf e di Juliette Gréco, di Trenet e di Brassens, è il prodotto di una cesura storica: essa nasce, tra gli anni 30 e gli anni 60 del secolo scorso, come canzone «moderna» (interna cioè alle dinamiche produttive dell'industria culturale), sul dissolvimento e la defunzionalizzazione di un repertorio «popolaresco» urbano prevalentemente diffuso a Parigi.
È soprattutto nella periferia parigina, dunque, che è rintracciabile la presenza di un tipo di canzone «urbana» legata al tempo libero di una classe operaia fordista in formazione, una classe che da un lato vive, quindi, di balli di fine settimana, al suono della fisarmonica e al ritmo della valse musette, dall'altro conserva tratti culturali da vecchia società contadina (e quindi, per restare nel nostro ambito, utilizza la musica in senso «funzionale», mantenendo in uso forme come ninne nanne, canti di lavoro, canti rituali, ecc.).
In città esistevano, invece, diverse tradizioni: una tradizione di canzone «letteraria», partita dai caveaux settecenteschi , le cantine dei primi cabaret (ne rimane traccia nell'opera di Pierre De Béranger, forse il primo chansonnier, attivo nella prima metà dell'Ottocento); una di tipo «artigianale», prodotta dalle goguettes, associazioni di operai e artigiani del nascente movimento socialista (a cui si può aggiungere la canzone «militante» legata all'esperienza della Comune di Parigi, e dalla quale venne fuori L'internationale); una «satirico-cronachistica», proveniente dalla strada e venduta su fogli volanti (detti canard e anche petits formats) nei pressi del Pont-Neuf.
Tutti questi repertori erano diffusi prima dell'avvento della industrializzazione nella musica ed erano costruiti su modalità espressive e contenutistiche molto diverse da quelle della canzone francese moderna, a cominciare dalla consuetudine di adattare testi diversi alla medesima melodia di autore anonimo. Punto di contatto tra la vecchia e la nuova canzone può essere considerato Aristide Bruant, il cantante immortalato da Toulouse-Lautrec in una celebre serie di ritratti.
Bruant si esibisce nei café-chantant e registra, intorno al 1910, gran parte del suo repertorio: può essere considerato perciò, a tutti gli effetti, un artista «moderno», che si serve dei canali dell'industria dello spettacolo. Eppure Bruant è oggi di difficile ascolto, risultando monocorde e ripetitivo: le sue canzoni, composte su melodie molto semplici, sillabiche e prive di modulazioni, consistono in una serie di strofe senza ritornello, spesso su ritmi di marcia, con una «chiusa» finale di «cadenza» che ne svela il carattere corale, funzionale al canto collettivo in ambienti piccoli. Bruant insomma, pur moderno, mantiene i tratti della «vecchia» canzone, e anche l'interpretazione «straniata» e rauca, e i contenuti dei testi dei brani lo confermano, rifacendosi tanto alla satira antiborghese quanto alla vita dei faubourgs, le periferie parigine, con i loro drammi, i loro codici di vita e i loro «eroi», le vecchie figure della marginalità sociale che l'artista trasfigura romanticamente.
La canzone propriamente «moderna» che seguirà, ha, invece, tutt'altre caratteristiche: la musica è maggiormente sviluppata (soprattutto in senso melodico e ritmico), i testi si fanno più effimeri, vengono «interpretati» (e, quindi, «sottolineati» dal gesto e dalla mimica) e, soprattutto, la sua durata è più breve perché deve essere incisa su disco. È inoltre provvista di «ritornello», che in un'epoca di «percezione distratta», quale quella della modernità compiuta, funge da formula mnemonica, punto di ancoraggio al prodotto di consumo.
È questa la canzone di Fréhel, e successivamente di Maurice Chevalier e di Mistinguett, connotata, anche linguisticamente, dalla parlata popolare dei faubourgs. Intanto Parigi ha cambiato faccia ormai da tempo: ci sono stati gli sventramenti e la ristrutturazione urbanistica dei boulevards, voluta dal prefetto Haussmann, che ha cancellato il centro storico e incorporato le periferie omologandone le specificità culturali; la nostalgia trova perciò ampio spazio nelle canzoni, anche in rapporto all'emigrazione, insieme all'esaltazione acritica della «ville plus belle du monde», la Parigi del divertimento e della vita notturna.
E anche quando i contenuti dei testi restano improntati a tematiche «sociali» (è il caso di Edith Piaf, ad esempio) essi vengono neutralizzati dal linguaggio che viene utilizzato e da un descrittivismo che tende al bozzetto e al patetismo. È tenendo conto di tutto questo, che si può cogliere la «rivoluzione operata dagli chansonniers»: Brel, Brassens, Vian e, soprattutto, Ferré. Con la formazione di un nuovo pubblico, un'intellighenzia critica e consapevole (e soprattutto dotata di notevole potere d'acquisto), e in un'implicita strategia di compromesso con l'industria della musica (massima libertà espressiva in cambio di consistenti vendite), nasce dunque, negli anni '50, la «chanson éngagée», destinata a ridisegnare interamente l'oggetto- canzone facendone un modello per l'Europa intera, soprattutto per l'Italia.
Il «padre» della moderna canzone francese è Charles Trenet. Se nella sua produzione non mancano riferimenti alla vita «faubourienne», Trenet inaugura in realtà un linguaggio nuovo e ironico, fatto di non-sense, di malizia, di gioia di vivere: in debito con «le fou chantant», come verrà definito, saranno quasi tutti quelli che verranno. La figura dello «chansonnier» vero e proprio nasce nell'immediato secondo dopoguerra, in pieno esistenzialismo, con Léo Ferré e, subito dopo, con Boris Vian, Georges Brassens, Jacques Brel (senza dimenticare Jean Ferrat e, soprattutto due «disimpegnati» come Charles Aznavour e Gilbert Bécaud).
La prima novità è che essi cantano direttamente le loro composizioni, senza passare necessariamente per la mediazione dell'interprete (e sono quindi chanteurs-compositeurs-interprètes). Affiancati da poeti «di professione», come Prévert, Eluard, Aragon, che scrivono anch'essi occasionalmente testi di canzoni (per Juliette Gréco, ad esempio, all'epoca «musa» dell'esistenzialismo), gli chansonniers rompono definitivamente con la prima canzone moderna, futile o nostalgica, dando grande importanza ai testi e legandoli alle tematiche dell'attualità politica, o comunque utilizzandoli in chiave contestativa verso i valori della borghesia, nel quadro di una società che stava rapidamente cambiando e che di lì apoco avrebbe vissuto i moti giovanili del 68.
La forma della canzone, e la sua durata, rimarranno inizialmente le stesse, ma con l'avvento del formato del long playing fu possibile, lo fece soprattutto Léo Ferré, dilatare i tempi dei brani e sperimentare nuove possibilità espressive. Anche il linguaggio fu aperto a inedite suggestioni: il turpiloquio, che aveva già fatto parte della canzone francese, e l'argot, il gergo parigino, furono recuperati, ma la parola cruda della strada e del sottoproletariato fu usata con una forza mai conosciuta prima, con riferimenti diretti al sesso, alla morte, alla violenza.
Musicalmente gli chansonniers presentavano un panorama estremamente composito, utilizzando (dalle canzoni per voce e chitarra di Brassens, apparentemente monotone ma in realtà ricche di riferimenti ai più disparati generi, compreso il rock and roll, alle grandi orchestrazioni di Ferré) sia i ritmi della canzone popolaresca che quelli provenienti da altre tradizioni. 
La canzone francese, per come l'abbiamo intravista, «muore», o meglio si esaurisce, con l'avvento della musica rock, che sacrifica la parola al suono amplificato, sostituisce «la voce urlata» al canto e richiede, in generale, testi più stringati e immediati: nonostante qualche felice connubio (lo straordinario Ferré con gli Zoo, ascoltabile anche in una bellissima versione in italiano), essa richiedeva tutt'altro tipo di ascolto e di contesto, e quelli che sono stati indicati come gli ultimi suoi rappresentanti (Renaud, Francis Lalanne, Bernard Lavilliers, ad esempio), pur bravi, sono già altra cosa.

Alias - il manifesto, 9 luglio 2004

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