14.11.14

Egon Schiele in carcere. Un diario (Claudio Gulli)

Un autoritratto di Egon Schiele (1914)
Romanzare la vicenda di un artista incarcerato è sempre pericoloso. Si rischia di mitizzare, aggiungendo dettagli pittoreschi - la solita luce filtra dalle sbarre, la muffa alle pareti, il corpo scheletrisce. La condanna alla solitudine ci appare ancor più deleteria per chi ha bisogno per eccellenza di plein air e libertà. Perciò, diventa credibile che un pittore ventiduenne, nel suo Diario dal carcere (Skira, con una postfazione di F. Ammiraglio, pp. 54, € 14,00), alterni inni alla vita a pagine disperate.
Per molto tempo, su questa pubblicazione postuma del 1922, a cura di Arthur Roessler, amico e mecenate di Schiele, nessuno aveva espresso riserve, nonostante non siano mai emersi gli autografi. Oggi i dubbi sull'autenticità sono abbastanza solidi: alcuni propendono per il falso, altri sostengono che sia stato redatto a partire da testimonianze orali del pittore, scomparso nel 1918.
«Il destino volle che una ragazza provasse simpatia per me, arrivando fino al punto di entrarmi in casa di sua volontà. - La cacciai via. - Ma la sera dopo ritornò e non se andò. Non c'era nessuno delle vicinanze che potesse venire a prenderla. - E se avessi chiamato qualcuno avrei dovuto temere una tragedia. - Allora la tenni con me e scrissi ai suoi genitori - Venne a prenderla il padre. - Si convinsero che era intatta, e tuttavia la faccenda finì in tribunale» (lettera di Schiele a Franz Hauer, 1914). Questo è l'unico accenno, in tutto l'epistolario, all'incresciosa vicenda di Neulengbach, che causò al pittore ventiquattro giorni di carcere. Il padre della quattordicenne è un alto dirigente del Ministero della Marina. Nel Diario, invece, il racconto si carica di perquisizioni della polizia e di sequestri nello studio, di capi d'accusa infamanti come pornografia e corruzione di minori, di un disegno bruciato durante l'ultima seduta del processo. L'episodio è talmente succulento che si ha buon gioco nel confondere mito e storia.
Quando l'arte arriva a ferire i sentimenti di un'epoca, i suoi stessi criteri estetici stessi, la società corre ai ripari, sia edificando miti consumabili, sia con la censura (le braghe alla Sistina). Lo scandalo non è generato solo dalla scelta di un tema: l'etichetta infatti rimane quella ufficiale, «nudo di donna», quella prediletta della pittura europea dal Rinascimento alle accademie di fine Ottocento. Stilisticamente, non c'è più niente in comune fra la tradizione e quest'uomo che sceglie di stuprare con lo sguardo le modelle e la sua stessa immagine.
Un nudo di Egon Schiele (1914)
Eppure non è facile spiegarsi come sia possibile apprezzare oggi quel che un tempo i nostri simili potevano ritenere oltraggioso. A Milano, nelle sale di Palazzo Reale, fino a poco tempo fa, disegni e dipinti di Schiele potevano essere osservati pacificamente, come se si trattasse di un qualsiasi artista d'avanguardia ormai canonizzato. È bastato quel Roessler per poter consumare un mito, un altro eroe rassicurante? Il pubblico non è mai uno solo: certamente, gli strumenti culturali della borghesia viennese non sono quelli nostri, e ipotizzare che il gusto sia cambiato è ovvio. Ma la distanza storica, il fatto stesso che qualcuno abbia giudicato prima di noi, ci colloca in una posizione particolare. Non soltanto le provocazioni alla morale, dopo un secolo, perdono di intensità. Basterebbe sapere che qualcuno ha osato bruciare i disegni di un artista per stimolare in noi una reazione di solidarietà. La nostra identità di secondo pubblico ci autorizza a formulare un apprezzamento diverso, ci esorta a schierarci dalla sua parte per dar prova di discontinuità con gli austeri austroungarici. O magari è solo un fenomeno di buone maniere, e quindi, nei sussulti iniziali davanti all'immagine, ancora vorremmo che certi disegni di donne 'scorticate' venissero dati alle fiamme? e poi prevarrebbe quella specie di coscienza estetica democratica che ci induce ad accettare ogni forma di espressione? L'iconoclasta esprime un giudizio assai prezioso: si distrugge ciò che è insopportabile, se all'arte si assegna ancora un valore.
Ma va aggiunto che l'espressionismo rappresenta un punto di non-ritorno. Il sentimento di armonia che ogni generazione punta a stabilire con la natura, sotto i colpi dei colori più stridenti e delle linee più vertiginose, è messo in crisi. L'uomo comune, direbbe Artaud, non può sopportare tutto questo. Perciò l'emarginazione dell'espressionismo è stata una necessità sociale prima che estetica. La scissione fra l'artista e il suo pubblico avviene seduta stante: se il primo propone una tale visione della realtà, il secondo reagisce emarginandolo. Da questo ricatto più subito che cercato, sgorga la vena più libera, che spesso è sconfinata nella follia. E se riprendiamo il grande padre di questa stagione, Van Gogh, scoviamo anche l'altro polo di questo processo: la costrizione al suicidio, la seconda pira, dopo il carcere, su cui si getta il corpo dell'artista per ripararsi dalle sue frecce. Questo per precisare come potrebbero funzionare i rapporti tra arte e società in modo meno comodo di quello, oggi invalso, secondo cui è sempre l'artista che, superomisticamente, sceglie la libertà (ecco, compare il bohémien).
Se le cose non stanno più come un tempo (l'ultimo dei «suicidi espressionisti» è Kirchner, poi irrompe di nuovo la guerra, un'altra generazione si forma, c'è chi in carcere addirittura scopre di essere artista), o la nostra società ha smesso di essere repressiva (e non si direbbe) o i nostri artisti hanno smesso di essere scomodi. Infine, chissà se è ancora possibile guardare a Schiele con occhi più o meno vergini. Se insomma, dopo aver passato mentalmente in rassegna i poliziotti e i borghesi di ieri, i visitatori estasiati o compiaciuti di oggi, si possa ritornare ancora a quegli acquerelli dove aleggia l'idea stessa dei vent'anni, il senso del noi-oggi, una scoppiante fermezza di sguardi. Un artista che riproduce se stesso in ogni volto e la donna l'ha resa un prototipo-manichino, non a sua immagine ma a sua disposizione, in un patetico darsi di nudità fragilissime. Un degradarsi insomma, dell'uomo, a linee prime che non sono chiamate né alla costruzione né all'astrazione. Giusto una sagoma, e poi minime, infinite variazioni, per spiegare che fra volti paesaggi alberi fiumi non c'è poi molta differenza. La natura diventa una cellula che sparge se stessa ovunque, diramandosi, restringendosi senza spiegazioni. Il corpo: la cosa proibita che si cerca in tutti i modi di possedere, attorno a cui sempre si è costretti a ruotare.


“alias-il manifesto”, 3 luglio 2010

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