2.11.14

Chateaubriand, un inviato molto speciale (Cesare Garboli)

In occasione della prima traduzione integrale dei Mémoires d'outre-tombe di Chateaubriand (Einaudi, 1995), “la Repubblica” pubblicò un ampio articolo del prefatore, Cesare Garboli, che riassumeva alcuni punti di vista su uno scrittore che il quotidiano proclamava “il grande assente nella cultura italiana del Novecento”. Sperando di fare cosa utile stesso a me e a qualcun altro lo ripropongo qui. (S.L.L.)
René de Chateaubriand
Ricordo bene la mia prima lettura dei Memoires d'outre-tombe. Avevo passato da poco i trent'anni. Una lettura gelosa, segreta, simile a quelle che si fanno nell'adolescenza, quando ci si abbandona ai libri e si chiede loro con una specie di oblio di noi stessi tutto ciò che non vediamo e non troviamo nel mondo. Di tutte le letture che ho fatto nella mia vita, poche sono state una sorpresa più entusiasmante dei racconti d'infanzia di Chateaubriand nel castello di Combourg. Ancora oggi mi sembra così strano che quel castello gotico mi fosse così famigliare. Lo avevo abitato in qualche vita precedente? Non c'era quasi bisogno di leggere, tutto mi aspettava, i passi paterni avanti e indietro nelle tenebre, la campana della cena, i capelli alla cinese e il collier de fer di Lucile, il divano rosso davanti al camino, la finestra della torre, i corvi, il torrente di parole che esplode tra madre e figli non appena il padre si ritira. L'intimazione, la divinazione di Lucile, rivolta non al futuro del fratello ma a un passato immaginario: "Tu devrais peindre tout cela".
Combourg era una strana promessa. Non reincarnava i miei ricordi, incarnava i miei sogni, ma li incarnava e li prolungava in retrospettiva, me li restituiva nel momento in cui non esistevano più. Li spingeva nell' infinito. E' stato un giornalista oggi troppo dimenticato, Alfred Nettement (il solo che abbia difeso Balzac in un famoso processo), a dire intorno alla prima parte dei Memoires d'outre-tombe la parola giusta: "il règne dans cette vaste composition je ne sais quoi d' infini". Che cosa si può predicare dell' infinito? Niente, ma se si tratta di un effetto letterario, si può tentare di studiarne la formazione.
Spostiamoci in un punto dei Mémoires che Nettement non poteva conoscere. Quando Nettement pronunciò il suo mot juste, era il 1834. A quel tempo le parti intermedie dei Mémoires d'outre-tombe erano ancora frammentarie, il manoscritto comprendeva solo la prima e la quarta parte, le estremità, le "ali" dell'edificio, la giovinezza e le solitarie ambascerie a Praga a nome della duchessa di Berry. Spostiamoci a Gand, alla vigilia di Waterloo. Chateaubriand è al seguito di Luigi XVIII, è ministro dell'Interno a interim. E' solo, Mme de Chateaubriand è andata en touriste a visitare Ostenda. Una città che risveglia dei ricordi: "J'avais descendu exilé et mourant ces memes canaux". Riemergono gli anni dell'assedio di Thionville; la prima emigrazione, l'Inghilterra, gli amori durante l'esilio. La Storia si ripete. Si forma subito un pensiero di vanità e di morte, ma accompagnato da una riflessione meno tòpica, per così dire, meno abituale.
"Nessuno come me si è creato una società reale evocando delle ombre; al punto che la vita dei miei ricordi assorbe il sentimento della mia vita reale. Perfino le persone di cui non mi sono mai occupato, una volta che muoiono, invadono la mia memoria: si direbbe che nessuno può diventarmi fraterno se non è passato attraverso la tomba, il che mi porta a credere di essere un morto. Dove gli altri trovano una separazione eterna, io trovo un eterno ricongiungimento; se uno dei miei amici lascia questa terra, è come se entrasse in casa mia; non mi abbandona più".
Si possono riconoscere in questo passo molti dei fiori cimiteriali di cui Chateaubriand fa sempre così largo consumo. Ma l'urna che li contiene non è la solita. Non è la solita messinscena dell'ubi sunt ("Ce chateau, ces jardins, que sont-ils devenus?"). Il tema primario non è qui la morte, che ne è solo lo sviluppo, ma il disturbo reciproco, l'invadenza reciproca, a corrente alternata, di vita reale e vita immaginaria. Questa reciprocità non è mistica, ma drammatica. Il pensiero della morte e della vanità delle cose, servizievole e solerte lacché, interviene solo a placare il conflitto e a fornirgli la soluzione più a portata di mano.
Immaginare e agire, azione e contemplazione sono due forze in concorrenza che presidiano a turno la vita di Chateaubriand e la occupano nella sua totalità, per intero; se c'è l' una non c'è l'altra, e ciascuna, ritirandosi, lascia alla contemplazione dell'altra solo le proprie rovine. Sono due forze sterili, ma entrambe di grandissima intensità, e di libido e di estensione infinita. L' urto dei sogni, delle chimere, delle larve dell' immaginazione contro il muro o la vanità delle cose reali copre tutta l' area del romanticismo, ma Chateaubriand, come tutti i pionieri, ne è stato il protomartire, il testimone primitivo e cieco; arriva sul continente sconosciuto prima di tutti, mette il piede su tutti i punti giusti, ma si orienta al buio, non ha le carte, non conosce le strade, non sa amministrare le sue scoperte e non sa dove costruirsi una casa. La forza del suo immaginario è infinita; molto più grande di tutte le Atala, di tutti i René e di tutti i Martyrs, ma è anche un' energia che si perde. Per dare credito all'immaginario ci vuole l'autore di Salammbo. A volte sembra che Chateaubriand si accorga che la sua tortura non nasce dalla vanità delle cose ma dal contrario, dalla vanità dei fantasmi.
Era questa l' emozione che mi dava la lettura dei Mémoires d' outre-tombe. Me ne vergognavo quasi fosse un piacere perverso. Che cosa amavo in quello scrittore così reazionario, vanitoso, codino, menagramo, un bugiardo, un pavone? Che cosa c'era in quel castello di Combourg? Ci voleva ben poco a capire che cosa c'era: la fonte di tutto il romanzo moderno. Leggevo Proust e pensavo ai Mémoires d'outre-tombe; leggevo i romanzieri di avventure esotiche e marinare e sentivo l' odore di mare di Saint-Malo e del Voyage en Amerique. Sentivo la presenza del romanzo; era dappertutto, in ogni rigo dei Mémoires, ma invisibile come la voce dell' oceano, senza corpo e senza forma come il nascere e il dissolversi delle nuvole. Poco a poco, cominciai a dar credito a Chateaubriand, e a guardarlo con occhio sempre più incuriosito. Cominciai a remare non senza fatica nell'arcipelago di tutte le sue opere non letterarie, aiutandomi con la vecchia edizione Pourrat (non quella in 36 volumi, purtroppo, che Chateaubriand si teneva in casa a rue du Bac, ma l' altra, in 22, di quattro anni prima). Seguivo le piste che mi venivano indicate dai Mémoires, rileggevo i libri che avevo letto e perlustravo la foresta pressoché impraticabile degli studi storici e degli scritti politici. E mentre sognavo di tradurre i Mémoires d'outre-tombe e di farli conoscere mi dicevo che Chateaubriand aveva inaugurato il tipo dello scrittore dall' io sistematicamente autoreferenziale; non sapeva scrivere un solo rigo senza fare delle proprie emozioni la sua bussola. Non appena ha la penna in mano, qualunque sia l'interesse letterario che lo tiene impegnato - saggistico, narrativo, romanzesco, polemico, politico, storico - quest'uomo ha bisogno di dare a se stesso, per prima cosa, le proprie coordinate: dove si trova, in quale punto del tempo e dello spazio. "Qui suis-je?": è un tempo e un luogo, come "Longtemps, je me suis couché de bonne heure" - il meccanismo scatta da sé. Esso verrà enfatizzato dallo Chateaubriand più tardo, e servirà da principio architettonico dei Mémoires d' outre-tombe. Ma è un meccanismo che ha una lunga preistoria.
Chateaubriand chiama in causa se stesso per orientarsi. Parte sempre da una situazione attuale, dalla propria emozione nel momento stesso in cui la riferisce. Un po' più complicato di una comune vocazione diaristica, questo meccanismo presuppone una sindrome da étranger, da spettatore del mondo i cui sintomi girano come una costellazione intorno al dandysmo esistenziale e negativo di Rene. Il bisogno di oggettivarsi produce uno sdoppiamento, o, viceversa, l'essere sempre altrove impone a una coscienza separata di riappropriarsi del mondo nella maniera più spiccia, semplicemente prendendo posizione. In ogni caso, colui che scrive tenderà a proiettarsi in una terra di nessuno, lungo una linea di confine che lo unisca e lo separi dal mondo, e a venire al proscenio. Tenderà a diventare, come ogni scrittore di diarii, o di memorie, in forma più o meno pronunciata, il personaggio della propria rappresentazione. Se si tratta di fiction, il meccanismo soffre e rimane sotto pelle, ma non tanto che la voce e il timbro del narratore non ce ne diano notizia.
Questo fenomeno si fa ancora più interessante se si associa la sindrome dell'étranger a un istinto professionale che fino ai primi dell'Ottocento non aveva mai raggiunto i livelli ai quali si è espresso con Chateaubriand. Tra le infinite cose inventate da Chateaubriand c'è anche tutto o quasi il giornalismo moderno. Nella sua attività di scrittore, che tanto impressionava i contemporanei, Chateaubriand ha praticato da maestro tutte le forme di giornalismo che abbiamo oggi sotto gli occhi. E' stato, come usa dire, un editorialista principe, un fondista capace di far cadere i governi, un polemista civile, un corsivista, un reporter, uno scrittore di viaggi, ecc. ecc. ma è stato, soprattutto, un grandissimo inviato; troppo avant la lettre, troppo in anticipo perché la straordinaria professionalità del suo talento fosse decifrabile dai contemporanei, quanto più ne restavano oscuramente sedotti. Tanta novità è rimasta nascosta e irriconoscibile anche in seguito, perché confusa con gli stereotipi dello scrittore di memorie e di viaggio. Ma il lettore che ha sotto gli occhi questa prima traduzione integrale dei Mémoires d'outre-tombe non farà molta fatica ad accorgersi della tecnica di montaggio, di assemblaggio con la quale Chateaubriand riesce a mascherare, articolandoli su piani e stili diversi, i suoi "servizi dall'interno e dall'estero": dalla Francia, dalla Germania, dalla guerra, dai corridoi della politica e della diplomazia, dalla Boemia, da Londra, da Roma, da Valchiusa, dall'Oriente, dalla Grecia.
Non si tratta di servizi improvvisati e occasionali, ma di un metodo. La ritirata di Russia è un capolavoro di reportage, scritto da un inviato speciale che non ha partecipato alla tragedia ma l'ha vissuta divinandola sui documenti, come e meglio che se fosse stato là; l'assassinio del duca di Enghien ci viene raccontato come un giallo-inchiesta costruito al modo in cui oggi si fabbricano innumerevoli libri sul "caso" e l' "affaire"; il servizio dagli Stati Uniti che conclude il viaggio di esplorazione tra i pellirosse, anticipa in due o tre paginette sintetiche tutto ciò che sui nostri giornali si leggeva ieri e ancora si legge oggi sui problemi di crescita e di democrazia del popolo americano. La citazione dotta, l'aneddoto, la nota di colore, il richiamo erudito, la curiosità linguistica cuociono insieme al cibo più sostanzioso sprigionando intorno un aroma di raro, un odore di antichità (molti di questi odori Chateaubriand li attingeva al grande magazzino della Biographie Michaud, avvincente e dottissimo feuilleton di tutta l'Histoire de France, fonte esaltante di ogni "meraviglioso storico").
Quando si frequenta un grande scrittore, niente può essere invitante come lasciarsi contagiare dalla sua "aura". Un bisogno irresistibile d'identificazione ci porta a ripercorrere tutti i passi di chi ha saputo esprimersi, e a frugare nei più piccoli particolari del suo entroterra biografico e psicologico, alla ricerca di non si sa quale segreto, o magari di una pietra filosofale. Il nostro io è così labile, che si lascia espropriare volentieri da ciò che ama. Soltanto un moralista potrebbe stupirsi di questo fenomeno. Il romanticismo ha insegnato alla letteratura come si surroga nei romanzi la vita; e viceversa, ha dato alle nostre passioni di che nutrirsi di qualche inferno o paradiso vicario. Ma è strano come Chateaubriand, che si situa alle origini, per così dire, leggendarie del rapporto poi sempre più inestricabile tra i fatti della vita e la loro metafora, abbia interpretato questo fenomeno nel modo più sorprendente, e ne sia stato sotto certi aspetti un critico intransigente e severo. Non esiste in Chateaubriand la psicologia. Esiste, pronunciatissimo, un io sistematicamente autoreferenziale, che si mostra col tempo sempre più insensibile ai fatti dell' anima, alle autoanalisi, alle confessioni, alle indagini del profondo.
A metà circa della seconda parte dei Mémoires d'outre-tombe, accingendosi a raccontare il processo e la fucilazione del duca d' Enghien, Chateaubriand ha un momento di esitazione e di riflessione. Prende tempo, sa che quella morte è l'episodio che ha deciso della sua vita. Sa che è stato un delitto compiuto con la ferocia frettolosa con cui si sgozzano e si seppelliscono le vittime scomode - di notte, al più presto, per non farne sentire i gridi. Sa anche che è stato il sacrificio di una vittima consacrata. Ogni dittatura ha il suo sangue, intimo o estraneo, Mussolini il suo Matteotti, Hitler il suo Rohm, e Napoleone il duca d'Enghien (per una ragione che ignoriamo, il sangue versato ha l'effetto di un lasciapassare).
Dopo trentaquattro anni che cosa si prova a rimestare in quell'episodio? E' autunno, gli uccelli migratori sono in viaggio, l'inquietudine e le nuvole spingerebbero a fuggire e a cambiare di clima. Per ingannare l'ansia, l'autore dei Mémoires corre a Chantilly. E' là che Louis-Antoine-Henry de Bourbon, duca d'Enghien, ha visto la luce. A Chantilly il cielo è ancora più coperto che a Parigi. Volano delle cornacchie. La pioggia sorprende il visitatore durante una passeggiata. Racconterà la morte del duca d'Enghien sotto la pioggia, in una locanda "à la vue des ruines de Chantilly".
"Ai tempi di René, avrei trovato chissà quanti misteri della vita nel ruscello della Thève: libera la sua corsa tra le madreselve e i muschi; le canne lo velano; muore in quegli stagni alimentati dalla sua giovinezza, morendo senza tregua e senza tregua rinascendo; le sue onde mi incantavano quando portavo in me il deserto coi fantasmi che mi sorridevano, nonostante la loro malinconia, e che io colmavo di fiori". I "mystères de la vie", gli affari del cuore, i fatti del profondo sono una malattia da cui si guarisce, da cui si deve guarire. Si può assumere questo giorno di ottobre del 1838 (o 1837) come una piccola allegoria, un contrasto, il dibattito tra due posizioni letterarie. Insensibilmente, tenacemente, la Storia ha rosicchiato tutte le provviste della psicologia, e alla fine l'ha uccisa. L'anima può essere anche una corazza. Chateaubriand è il contrario di Rousseau. Le profondità e i problemi dell'io non lo interessano, il gusto dell'introspezione dopo un po' lo annoia, le confessioni si fanno a Dio e si risparmiano al prossimo. Paradossalmente, ma non tanto, è stato il cattolicesimo a insegnare a Chateaubriand come si fa a dare poca, pochissima importanza ai fatti dell' anima. "L' ame supérieure n' est pas celle qui pardonne; c' est celle qui n' a pas besoin de pardon": massima forse poco cristiana e molto aristocratica e magari molto bretone, ma nella quale c' è tutto Chateaubriand. Con tanti spurghi dai sottosuoli, che almeno qualcuno ci regali i ricordi di un Super-io. Che cosa sono, e che cosa rappresentano, nella storia del genere letterario a cui appartengono di diritto, i Mémoires d'outre-tombe?
Che posto occupano i ricordi di Chateaubriand nell' infinita galleria dei grandi o minori protagonisti della storia di Francia che hanno affidato alla penna il racconto di avvenimenti vissuti in prima persona? Esiste una continuità, tra i Mémoires d'outre-tombe e un genere letterario di tradizione aristocratica e mondana, un genere codificato che ha il suo grande, drammatico momento nei memorialisti della Fronda? Una delle sorprese dei Mémoires d'outre-tombe è il loro basso grado di narratività, bassissimo e sconcertante se messo a confronto con la loro tonalità di partenza. Nei ricordi di Chateaubriand l'io non si racconta; si manifesta, entra in scena e mangia tutto il mondo. I Mémoires d'outre-tombe si direbbero una personificazione, quello che in termini retorici (non psicologici) si chiama "prosopopea". Un autore s' identifica coi fatti storici del proprio paese e li interpreta, chiaroscurando gli avvenimenti con accorgimenti esteriori e raccordi drammatici tra l' io e quel che succede. Tutto è fermo, sincronico rispetto a chi dice io. Molto più della voce di un sognatore si sente il bureau, il gabinetto del ministro, il viavai dei dispacci, un rumore di voci e di folla che arrivano da fuori per spegnersi nella solitudine di un edificio dai vuoti e innumerevoli corridoi, un castello dai balconi gelati e irreali, e dalle guglie perdute nella nebbia. Un'epopea? Un filmato? Un documentario montato artificialmente attraverso date posticce e colpi di teatro preordinati "diaristicamente" (i famosi "prologhi")? Una raccolta di testi "pour servir à l'histoire de France"? Un timbro, un certificato d' esistenza per sottrarsi a un inevitabile destino di vanità? Uno specchio dove guardarsi e sentirsi reale? Una lagna sul passato che fugge?
Si sa che cosa succede quando si legge un libro sopraffatti da emozioni diverse. Ci sforziamo di padroneggiare studiando tutte le distanze possibili dall'oggetto che abbiamo davanti. Cambiamo di posizione, prendiamo e abbandoniamo il libro, lo puntiamo, lo miriamo, lo affrontiamo, shooting, per così dire, sparando come fanno i fotografi per estrarre l'anima dal modello. Ma davanti ai Mémoires d'outre-tombe mi sono sempre arreso. Una catasta di documenti sommerge una vita che grida disperazione, ma vuole restare sepolta. Chateaubriand non ha modelli e non si appoggia alla tradizione. Tutti i memorialisti francesi che lo precedono scrivono "dentro" la Francia, viaggiano insieme alla storia del loro paese e ne attraversano i fatti ora pacifici ora accidentati senza mai sospettare che esista un limite, un confine oltre il quale la corrente possa smettere a un tratto di trascinarli. Nasce da questa meravigliosa e naturale identità con la propria terra quel maestoso ron-ron di gente che racconta come russando, anche nei momenti più drammatici - stile nel quale è regina, per il suo scarso interesse personale nelle grandi vicende che racconta, Mme de Motteville. La Francia di cui ci racconta Chateaubriand ha ben poco di questo fiume sei e settecentesco di cui non si vedono le sponde. La Francia dei Mémoires d'outre-tombe ha davanti a sé una di quelle pareti immaginate dai cosmografi medievali per rappresentare la fine del mondo, il confine dove il sole si tuffa e precipitano le acque dell' Oceano. Chateaubriand è passato tre volte vicino a questa parete: durante la Rivoluzione, al tramonto dell'Impero, e per tutti i lunghi diciotto anni durante i quali ha scritto i Mémoires aspettando di veder crollare il regno di Louis Philippe. La parete non è dunque solo metaforica. A quale regime ha dato vita la Monarchia di Luglio?
"Ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi è qualcosa di indefinibile che non è né repubblica né monarchia, non è legittimismo né il suo contrario, una semicosa che è tutto e niente, che non vive e non muore; una usurpazione senza usurpatore, una giornata senza vigilia né domani".
Con queste idee, non c'è da meravigliarsi se l'autore dei Mémoires ha finito per convivere per vent'anni, tutto il tempo che è durata la sua vecchiaia, con una Francia sognata e immaginaria, un po' madre e un po' figlia, tracciandone la geografia, fissandone i confini legittimi, e facendola coincidere con le proprie rigide e mutevoli idee di "republicain par nature, monarchiste par raison, et bourbonniste par honneur". Nella Francia dei "fils de Saint Louis" c'è posto per Napoleone? O anche Napoleone è un intruso? Per un buon quarto, i Mémoires d'outre-tombe si dedicano a sciogliere questo interrogativo. Più brucianti e drammatiche, perché strettamente intrecciate a vicende politiche di fresca data, le sommesse domande che l'autore dei Mémoires sembra rivolgere ai propri sogni legittimisti e alla fedeltà verso i Borboni. Questa lunga, contrastata storia piena di amarezze, antipatie, malintesi, ha un epilogo non si sa più derisorio o pietoso, che occupa quasi interamente la sconcertante quarta parte dei Mémoires. Per la sua pronunciata configurazione diaristica, e per un certo gusto dell'assurdo combinato con le innumerevoli variazioni funerarie, la "quatrième partie" dei Mémoires viene oggi particolarmente frequentata dalla critica, e rischia, nell'ordine dei valori, di soppiantare la prima. E' costruita per contrappunto, sul rispondersi di due figure che si oppongono ma evitano di guardarsi. Da una parte, il grande scenario in rovina della legittimità, il re in esilio, il castello semivuoto di Praga; dall'altra il diario di viaggio, le futili e insignificanti apparenze del mondo che ignora la Storia: una ragazza dalle gambe nude, una viaggiatrice abusiva dalla gobba inquietante, uno spettacolo di paese, una rondine, un servizio funebre (non può mancare), e la propria stanza d'albergo minuziosamente inventariata; microscopici fenomeni di vita minimalista, registrati da uno sguardo incuriosito, ma gelato e impassibile. Usati in funzione simbolica, si affacciano al proscenio più esigenti, forse più importanti e non meno vani di una battaglia o di un consiglio dei ministri.
Il paradosso dei Mémoires d'outre-tombe è che una costruzione fondata sulla Storia erode strada facendo il suo fondamento: se siamo fatti di tenebra e di sogno, se il destino individuale è una vanità, che cosa saranno i destini collettivi? La Storia è immaginaria, "tant peu de réalité est dans l'homme".
Se c' è una conclusione da trarre dai Mémoires d'outre-tombe, è che la Storia altro non è che i nostri stessi sogni. La Storia è un'emozione, un'estensione della propria vita intima. Chateaubriand ha inventato la Storia, solo che la sua invenzione è durata il tempo di scrivere delle memorie. Dalla Restaurazione alla Monarchia di luglio, quale mutamento culturale! Per Chateaubriand la Storia è lui stesso, senza soluzione di continuità con la Francia dei secoli passati. Per Michelet, la Storia è già quello che è per noi: il Passato, e il regno dei libri.


“la Repubblica” 24 novembre 1995  

Nessun commento:

statistiche