17.11.14

Accidenti, che giornalista! Umberto Eco legge "Il Milione" di Marco Polo

In occasione della realizzazione di un Marco Polo televisivo per la regia di Giuliano Montaldo (ottima produzione di una tv ancora attenta a far cultura), Umberto Eco scrisse per "L'Espresso", queste paginette sul Milione, di notevole acume critico. (S.L.L.)
Marco Polo sulla Grande Muraglia. L'attore Ken Marshall nello sceneggiato RAI (1982)
Mentre scrivo non so ancora nulla del Marco Polo televisivo, non so se sarà fedele al Milione o se ne trarrà spunto per una libera ricreazione del personaggio. Si suppone che gli sceneggiati televisivi da un grande libro ne incoraggino la lettura, ed eccomi a verificare la legge, persino in anticipo: mi sono riletto Il Milione. Poi mi sono chiesto quanti, dopo aver visto le puntate televisive andranno ad acquistarlo in edizione economica, e che piaceri potranno trarne. La lingua della versione toscana detta "Ottimo" (come si sa Polo dettò le sue memorie in prigione a Rustichello da Pisa e questi scriveva in francese, ma il testo originale è del 1298 e la versione toscana è del 1309) non è alla portata del lettore comune, anche se si legge senza troppe difficoltà, e le parole incomprensibili fanno atmosfera. Ma, a prescindere da quanto ne racconterà la televisione, come si deve leggere Il Milione, ovvero la versione di quel Libro di Monsieur Marco Polo, cittadino veneziano, soprannominato Milione, dove son descritte le meraviglie del mondo?
La domanda che mi sorgeva rileggendolo non è come possono intenderlo i lettori di oggi, ma come l'abbiano inteso i lettori di allora. E capire cosa potesse rappresentare allora forse ci può aiutare a suggerire come andrebbe letto oggi. Perché (e anticipo la mia conclusione) Il Milione si inserisce, e neppure ultimo, in una serie di racconti enciclopedici che descrivono le terre ignote e più o meno leggendarie, quasi sempre scritti da autori che non si erano mai mossi da casa loro, e racconta quasi le stesse cose, ma da giornalista, ovvero da inviato speciale.
Due secoli prima dell'invenzione della stampa, tre o quattro prima del trionfo degli "avvisi" e delle "gazzette", il libro di Marco Polo anticipa un genere. Salvo che il genere era talmente in anticipo che non era facile accettarlo. Faccio subito un esempio. Alquanto posteriore alla stesura del Milione eccone un bel manoscritto francese, ora conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi, ed ecco la miniatura che illustra il capitolo 157, dove Polo descrive il reame di Coilu, che poi si trova sulla costa del Malabar. In quel capitolo si racconta di una popolazione che raccoglie il pepe e (nella versione toscana) i "mirabolani emblici", che non so bene se siano delle specie di prugne o altro genere di frutti ricchi di tannino. E come rappresenta il miniatore gli abitanti del Malabar? Ecco, uno è un Blemma, e cioè uno di quei favolosi esseri senza testa con la bocca sullo stomaco, l'altro è uno Sciapode, che sta sdraiato all' ombra del suo unico piede, e il terzo un Monocolo. Esattamente quanto il lettore del manoscritto si attendeva di trovare in quella regione, che poi è l'India, regno del leggendario Prete Gianni, o Presto Giovanni come lo chiama Polo. Il bello è che nel testo di Polo questi tre mostri non sono affatto menzionati. Polo dice che gli abitanti di Coilu sono neri, vanno in giro nudi, e che la zona (e pensate che bel partito poteva trame il miniatore) è ricca di leoni neri, pappagalli bianchi dal becco rosso, e pavoni. Inoltre Polo, con la bella freddezza che lo contraddistingue quando riporta di costumi un poco inusuali per i buoni cristiani, annota che costoro hanno scarso senso della moralità e sposano indifferentemente la cugina, la matrigna o la moglie del fratello.
Perché il miniatore si permette di inserire questi tre esseri, che non esistono nell'universo del Milione (e a conti fatti non esistono neppure in quello delle nostre scienze naturali ed umane), contro ogni evidenza testuale? Perché lui, come i suoi lettori, ai tempi di Polo e anche oltre, fidando in una catena ininterrotta di dottissime enciclopedie che ragguardavano sulle meraviglie del mondo, sapeva che dovevano esserci. Il mercante Marco Polo era semplicemente uno sfacciato che si permetteva non di raccontare come le cose dovevano essere ma (e son parole sue o di Rustichello) di « divisare delle provincie e dei paesi ov'egli fu ». Testimone oculare. Pare un mestiere facile, ma a quei tempi non lo era affatto. Per l'inviato speciale non c'era una definizione sindacale.
Chi era, allora, il compilatore di enciclopedie storiche e geografiche? Un signore che sedendo a tavolino si basava sui testi venerabili di Plinio, di Solino, di Isidoro di Siviglia, e via via sulle varie enciclopedie del dodicesimo secolo, lo Speculum Mundi di Vincenzo di Beauvais, o il Trésor di Brunetto Latini. E in questi testi i vari paesi, veri o leggendari che fossero, erano abitati da animali fantasiosissimi, e da esseri stranissimi, le cui caratteristiche non erano però affatto arbitrarie. Questi esseri avevano giusto le caratteristiche che servivano a trasformarli in esempi viventi, in leggibili allegorie: così il patriarca di questi trattatelli enciclopedici, il Fisiologo, apparso tra II e III secolo della nostra era, raccontava che il Leone aveva l'abitudine di cancellare con la coda le sue impronte per depistare i cacciatori, ma questa caratteristica era "necessaria" perché il leone potesse funzionare come simbolo del potere di Cristo, che cancella i nostri peccati. E diceva che la fenice ogni cinquecento anni arrivava a Eliopoli e si consumava sul fuoco dell' altare, per risorgere (come è noto) tre giorni dopo dalle proprie ceneri; e questa proprietà era "necessaria" perché la fenice fosse simbolo del Salvatore. E in tal senso il leone era tanto "vero" quanto la fenice.
Proprio il mese scorso Il Saggiatore ha pubblicato un'edizione del Trattato delle cose più meravigliose e più notabili che si trovano al mondo di un autore incerto noto come John Mandeville. Mandeville, è sicuro, non si è mai mosso da casa sua, e scrive quasi sessantanni dopo Polo. Ma per Mandeville raccontare di geografia significa ancora raccontare di esseri che devono esserci, non che ci sono, anche se da alcune sue pagine si può pensare che tra le sue fonti ci fossero anche le pagine del testimone oculare Marco Polo. Non è che Mandeville dica sempre e solo panzane: per esempio parla del camaleonte come di una bestia che cambia colore, però aggiunge che è simile a una capra. Ora è interessante paragonare la Sumatra, la Cina meridionale, l'India di Mandeville con quelle di Polo. C'è un nucleo che rimane in gran parte identico, salvo che Mandeville popola queste contrade di animali e mostri umanoidi che ha trovato sui libri precedenti. Polo, no.
Intendiamoci. Polo era un mercante, e non era uomo di molte letture. D'altra parte inizia il suo viaggio a diciassette anni e torna che ne ha quarantuno e nel giro di tre anni va subito a combattere, finisce prigioniero di guerra e detta le sue memorie. Di cose europee non deve averne lette molte, caso mai le leggende che racconta, e le panzane che ha l'aria di bere, le ha udite nel Catai. Ma in qualche modo la cultura delle enciclopedie medievali lo aveva toccato (tra l'altro, molte delle informazioni delle enciclopedie medievali provengono, per lunghi tragitti storici, dal leggendario orientale). E il bello di Messer Marco Polo è che, a modo proprio, è uomo del suo tempo e non riesce a sottrarsi all'influenza che gli insegnano cosa dovrebbe vedere.
La pagina più significativa è quella sugli unicorni, che gli appaiono a Giava. Ora, che gli unicorni ci siano, un uomo del medioevo non lo mette in discussione. Tra parentesi, a leggere quel trattato onnicomprensivo che è The Lore of the Unicorn di Odell Shepard (1930), di persone che hanno visto e descritto l'unicorno ce ne sono state anche molto tempo dopo Marco Polo. Per esempio il viaggiatore elisabettiano Edward Webbe; o Vincent Le Blanc, che nel 1567 ne vede tre, nel serraglio del Sultano, in India, e addirittura all'Escuriale di Madrid; il missionario gesuita Lobo nel Seicento (tradotto da Samuel Johnson) che lo vede in Abissinia; e poi John Belle nel 1713; per finire, ma non definitivamente, nientemeno che col dottor Livingstone. Che l'unicorno esistesse lo aveva detto il Fisiologo, che aveva dato origine, in Europa, alla leggenda che per catturarlo si dovesse esporre nella foresta una vergine immacolata, e come diceva, ancora trent' anni prima di Marco Polo, Brunetto Latini, «quando l'unicorno vede la fanciulla, la sua natura gli dae che, incontamente ch'egli la vede, si ne va da lei, e pone giuso tutta la sua fierezza... ».
Poteva Marco Polo non cercare unicorni? Li cerca, e li trova. Voglio dire, non può evitare di guardare alle cose con gli occhi della cultura. Ma una volta che ha guardato, e visto, in base alla cultura passata, ecco che si mette a riflettere da inviato speciale, e cioè come colui che non solo fornisce informazioni nuove ma anche critica e rinnova i cliché del falso esotismo. Perché gli unicorni che lui vede sono di fatto dei rinoceronti, un poco diversi da quei caprioli graziosi e bianchi, col cornetto a spirale, che appaiono sullo stemma della corona inglese.
Polo è spietato: gli unicorni hanno « pelo di bufali e piedi come leonfanti », il corno è nero e grosso, la lingua è spinosa, la testa sembra un cinghiale e, in definitiva, « ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch'ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contrario ». Come dire: non mandatele ragazzine, che ve le incorna a testa bassa. Triste, ma è così.
L'altra cosa che colpisce in Polo, in questo dire le cose come stanno, è che il suo libro è dominato dalla curiosità, ma mai da una forsennata meraviglia, e men che mai dallo sgomento. Racconta come un antropologo moderno, se c'è una civiltà in cui si usa dare la moglie ai forestieri, ed anzi i mariti ne provano gusto, lo racconta, e amen. Ne ha viste (ma viste, non sentite dire) tante che non si stupisce più di niente. Quindi il mondo di cui parla non è incredibile, anche se è stupefacente: è, semplicemente, e proprio per questo lui ne racconta. Certo, sente voci misteriose nel deserto di Lop, ma provate a cavalcare per settimane e settimane nel deserto. Certo, prende per buona tutta la storia dell'impero di Prete Gianni, ma c'era in giro tanto di lettera diplomatica (seppure falsa, oggi lo sappiamo) mandata cent'anni prima all'imperatore di Bisanzio. Prende i coccodrilli per serpentoni con le sole zampe anteriori, ma non dovete pretendere che ci andasse troppo vicino. Mi sa che trova più antropofagi di quelli che vi fossero, ma alla fin fine viaggiava raccogliendo testimonianze in terre in cui si parlavano lingue che lui doveva imparare a fatica. Però trova il petrolio, e il carbon fossile, e ne parla in modo molto corretto.
Tra visioni influenzate dalla tradizione, da cui si scioglie a fatica, come stropicciandosi gli occhi, ne ha altre in cui sembra antitradizionale persino a noi. Probabilmente per lui gli uomini o son bianchi, o son neri, ma è certo che non gli passa per la testa l'idea di una razza gialla. Gli abitanti di Cipan-gu (che è il Giappone) hanno la pelle bianca, e il Gran Can, che è un mongolo, «hae lo suo viso bianco e vermiglio come rosa». Il bello è che forse ha ragione lui, perché anche se le enciclopedie (oggi) parlano ancora di pelle giallastra, quando noi guardiamo bene un cinese o un giapponese, ci accorgiamo che non è giallo come il feroce Ming imperatore di Mongo, ma al massimo non è bianco e rosso come un tirolese. Che poi il Gran Can fosse proprio rosa e vermiglio, beh, forse si truccava, o forse Polo lo guardava con occhi affettuosi, abbagliato dalle sue vesti e dai suoi gioielli.
Talora pare proprio che inventi leggende come i suoi predecessori e come i suoi successori, come quando ci parla del moscado, profumo squisito che si trova sotto l'ombelico, in una "postema" o ascesso di un animale simile a una gatta. Eppure, andate a controllare su di un'enciclopedia: l'animale c'è, in Asia, e si chiama "moscus moschiferus", una specie di cervo, che ha i denti proprio come Polo li descrive, e che nel derma della parte addominale, sul davanti dell'apertura prepuziale, secerne un muschio dal profumo penetrantissimo. E inoltre è la versione toscana che lo fa simile a «una gatta», perché nell'originale francese si dice giustamente che è simile a una gazzella. Polo si guardava intorno, e registrava con tanta freddezza mercantile che noi crediamo che racconti panzane, con la grinta dell'impunito.
A differenza di ogni enciclopedista medievale, non allegorizza e non moralizza, registra per coloro che lo seguiranno lungo quelle Vie, che sono vie commerciali. In un certo senso è smagato e realista come Machiavelli, e parla da tecnico a dei tecnici.
Il suo mondo ha reagito alla provocazione, leggendolo come se fosse uno dei suoi predecessori fantasiosi, e così temo che faremo noi, magari influenzati da termini araldici come "lionfante" o "salamandra". Ma la salamandra di cui parla è un tessuto fatto d'amianto, che egli ben descrive, non l'animale del bestiario che vive e si crogiola nel fuoco. « E queste sono le salamandre, e l'altre sono favole”.


L'ESPRESSO - 28 NOVEMBRE 1982  

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