9.10.14

Gli inediti del giovane Alvaro. A colloquio con Vito Teti (Luigi Pandolfi)

Corrado Alvaro da giovane
Un paese ed altri scritti giovanili (1911-1916) è una raccolta di scritti inediti di Corrado Alvaro appena pubblicata da Donzelli. Ne parliamo con il curatore del volume a cui va anche il merito della scoperta dei preziosi testi. Il professor Vito Teti è ordinario di etnologia presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di antropologie e letterature del Mediterraneo.Tra gli intellettuali meridionalisti più accreditati, Teti si è occupato negli anni di percorsi della costruzione identitaria, di antropologia dei luoghi e dell’abbandono, del rapporto tra antropologia e letteratura. Per conto della Rai ha realizzato reportage fotografici e numerosi documentari etnografici.

Dunque, professor Teti, le è toccato di scoprire degli inediti di Corrado Alvaro, che oggi compongono un’antologia da lei stesso curata e pubblicata da Donzelli. Com’è avvenuto?
Le scoperte d’inediti e manoscritti sconosciuti, anche quelli lasciati dai grandi scrittori, hanno, insieme, qualcosa di casuale e, insieme, di misterioso e di magico. Hanno un destino simile a quello delle opere pubblicate: sfuggono alle intenzioni del loro autore. Provo a riassumere quello che dovrebbe costituire un lungo racconto. Il 21 aprile 1940 Corrado Alvaro riceve in Campidoglio un riconoscimento dall’Accademia d’Italia. È la consacrazione anche “ufficiale” di uno scrittore che aveva ormai conquistato grande riconoscimento della critica e l’apprezzamento del pubblico. La lettura dei giornali, che riportano l’evento, scatena in Domenico Lico, in quel periodo farmacista ad Isca sullo Ionio, «un’onda di ricordi, vivi e piacevoli». Lico era nato a S. Costantino Calabro nel 1893, due anni prima di Alvaro, da una famiglia proprietaria di terre e benestante. È tra i banchi del liceo Galluppi di Catanzaro – siamo negli anni compresi tra il 1911 e il 1914 – che i due si conoscono e stringono una forte e intensa amicizia; sono questi, anche, gli anni che vedono il primissimo avvicinamento di Alvaro alla letteratura. Lico, come ricorda nella Biografia su Alvaro, era tenuto in grande considerazione dal padre di Alvaro, che non a caso lo sceglie come padrino di battesimo del figlio Massimo nato nell’aprile 1914.
Per Lico il giornale in cui legge del riconoscimento ufficiale ad Alvaro agisce come una sorta di madeleine proustiana: gli scatena il ricordo di altri giornali, altri scritti, altre opere. Guarda con un nuovo sguardo le innumerevoli carte di Alvaro, amorevolmente conservate, quasi immaginando che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe potuto tirarli fuori per la loro qualità letteraria. Lico comincia a pensare a un libro, nel quale vuole raccontare il periodo al liceo Galluppi di Catanzaro e la vita di soldato e di poeta di Alvaro. Inizia a mettere assieme e raccogliere manoscritti e lettere dell’amico Alvaro in suo possesso o di altri compagni del periodo catanzarese. Lico, tra l’altro, entra in possesso delle lettere che Alvaro invia dal fronte a Giuseppe Foderaro, amico conosciuto ai tempi del Ginnasio a Catanzaro, dove era entrato in contatto con le famiglia più in vista dell’ambiente borghese cittadino.
Con lavoro certosino, con frenesia, raccoglie in pochi mesi le lettere che Alvaro invia dal fronte e poi durante il periodo di degenza, spinto dalla volontà di ricostruire le vicissitudini che lo scrittore vive dopo la partenza dalla Calabria. Recupera le lettere inviate da Alvaro, durante la guerra, ad Ottavia Puccini, nipote del conte Manfredi, deputato al Parlamento, che aveva conosciuto a Firenze durante il suo soggiorno quale allievo ufficiale.
Per varie ragioni, che ricordo nel libro, non da ultima la perplessità di Alvaro su questa iniziativa dell’amico di un tempo, questi materiali e una biografia su Alvaro non vedranno mai la luce. Nel 1945 Lico lascia Isca e torna a San Costantino, dove muore nel 1955, un anno prima di Alvaro. Gli «innumerevoli stracci» sono consegnati da Domenico Lico ai figli Raffaele, Rita (che vive ed abita a Stefanaconi) e Vittoria. Raffaele, nato nel 1924 e morto nel 1980, medico cardiologo, porta le carte del padre nella vicina Vibo in cui si era trasferito. Da Teresa Coppola ha quattro figli Domenico (1957), Gaetano (1958), Cesare (1960), Dorotea (1962), che si spostano in varie parti d’Italia. La scelta di professioni liberali (medici, impiegati ecc.) e la dispersione degli eredi di Lico, con ogni probabilità, contribuiscono a che carte e documenti raccolti da Domenico restino sostanzialmente chiusi in un cassetti. Gaetano Lico, prima di spostarsi da Vibo, nel 2008 consegna il tutto a Gilberto Floriani, direttore del Sistema Bibliotecario Vibonese, con la preghiera (suggellata da una scrittura d’impegno), di custodire, guardare, verificare l’importanza di quelle carte e il loro possibile uso e se valesse la pena diffonderle o pubblicarle. È a questo punto che, grazie a Floriani che mi coinvolge come studioso e conoscitore di Alvaro, oltre che come Direttore del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Unical, che comincia per me un’avventura umana, culturale e del tutto inattesa, impensata, che ho vissuto quasi come il compiersi di un destino e come il destinatario di segreti e memorie che andavano custodite e salvaguardate. Mi ero molto occupato di Alvaro e avevo avuto in mano altri suoi manoscritti, ma quando, però, ho incominciato ad osservare, sfiorare, leggere scritti giovanili, prime prove di autore, bozze di racconti, poesie, un dramma compiuto, il racconto e quando sono apparse, carte di cui nulla si sapeva, né si immaginava l’esistenza, miracolosamente, e quasi per caso, salvate, mi è stato difficile non pensare a una sorta di sorpresa, di dono, a un qualche segreto che mi veniva affidato, per via misteriosa, dallo «scrittore dei segreti». Una parte dei documenti viene, oggi – grazie, anche, al sostegno di Mario Bozzo, presidente della Fondazione Carical di Cosenza – pubblicata in questo volume che permette un importante approdo al mondo letterario giovanile dello scrittore calabrese. Un’iniziativa culturale ed editoriale che ha visto dunque il dialogo e la collaborazione tra studiosi, ricercatori, istituzioni culturali, una fondazione bancaria, un editore tutti calabresi e che mostrano, pertanto, come anche in questa terra di frammentazioni e di divisioni sia possibile operare assieme per dare un’altra immagine di una regione capace di parlare al mondo esterno con i suoi autori più importanti, con le sue narrazioni culturali alte, ariose, europee, lontane da quei localismi e da quelle retoriche che concorrono a marginalizzare la regione più di quanto non facciano frettolosi osservatori esterni.

Di che materiale si tratta?
Siamo in presenza di un numero notevole di carte, manoscritti, appunti, lettere, poesie, racconti, immagini di Alvaro e anche di tanti scritti di Lico sul compagno di un tempo, di lettere inviate ad Alvaro dalla Puccini, dai familiari, dagli amici. Lo scrittore stesso, quando incontra Lico a Isca nel 1941, si sorprende della tante carte, rinvenute dall’amico, se ne ricorda appena e sembra non dargli molta importanza. Era stato lui a consegnare a Lico le poesie e le prove di racconto che non erano uscite solo perché qualche rivista locale si era rifiutata di pubblicarle e perché Alvaro e compagni non avevano fondi per stampare un volume a cui avevano pensato. Alvaro aveva poi scritto a molti editori nazionali ed aveva fatto delle letture pubbliche di poesie. Molte poesie non le aveva pubblicate per paura del giudizio del padre e le aveva salvato grazie alla madre e agli amici cui le consegnava.
I tanti interventi, le correzioni, le diverse versioni mostrano che il giovane Alvaro non considerava irrilevanti tali pubblicazioni. Un materiale costituito da copie di lavoro sulle quali Alvaro interviene a cassare, modificare, ritoccare. Consapevole della propria vocazione letteraria, il giovanissimo Alvaro si avvicina al mondo della letteratura, correggendo, cancellando, rielaborando.
L’opera pubblicata da Donzelli raccoglie un corpo di scritti giovanili inediti di Corrado Alvaro, risalenti al periodo 1911-1916: cinquanta componimenti poetici (composti tra il 1912 e il 1915, che vengono commentati da Pasquale Tuscano, uno dei maggiori studiosi di Alvaro e profondo conoscitore della storia letteraria e culturale italiana e calabrese), cinque racconti brevi (datati, verosimilmente, tra il 1912 e il 1914: Giovedì di passione a San Luca, Raggio di sole, Matrimonio in quattro, Verbo di modo finito e Chi non sa vivere), il dramma Odio per amore (scritto tra il 1911 e il 1912), e un racconto lungo – che dà il nome alla pubblicazione – intitolato Un paese.
Scritto da un giovanissimo Alvaro tra il 1911 e il 1912 (prima ancora del libretto su Polsi) è Odio per amore che vuole essere la celebrazione dell’odio che, con forza, corrode gli ultimi barlumi di amore, in una società in cui l’onore domina i destini degli uomini e in cui i personaggi si muovono in preda a deliri di follia che, alla fine, annientano qualsiasi speranza di rinascita. Il dramma che doveva essere «corretto a ferro e fuoco», non è stato rappresentato perché una compagnia teatrale che si esibiva a Catanzaro aveva preteso una somma cospicua per dei giovani studenti abbastanza squattrinati. Alvaro manda all’amico anche numeri di riviste («La Riviera Ligure»), dove aveva pubblicato.
Nel racconto Verbo di modo finito – Racconto a Maria, ad esempio, Alvaro si immedesima in Guido Albarosa e Maria non è che la Signorina Maria F., che come si ricorderà, turba il giovane in occasione della sua prima conferenza. Alvaro scrive di questa novella: «Pensata il 13 gennaio 1914 – scritta e corretta il 27 febbraio ore 12 -2 a. m. e 8-11 a.m. mandata alla “Scena Illustrata” il 1 Marzo 1913». La distrazione o la concentrazione del pensiero, scrive Lico, faceva perdere ad Alvaro la nozione del tempo. A questa vicenda giovanile Alvaro s’ispira per scrivere L’amata alla finestra.
Il testo più significativo e importante è il racconto: Un Paese. Tentativo di romanzo qualificato da Alvaro come il primo tentativo di Gente in Aspromonte fatto a Livorno nel giugno 1916 (consegnato all’amico Domenico Lico nel 1940), tra un’operazione chirurgica e l’altra, dopo le ferite riportate in combattimento nella prima grande guerra. In un periodo di disagio e di attesa, in piena guerra in Alvaro premevano dunque le memorie del mondo di origine e l’idea e nascevano le pagine di quella che sarebbe diventata la sua opera più nota, più studiata e più celebrata.
Un paese si rivela una felice anticipazione di tante tematiche e atmosfere dove – come scrivo nell’introduzione al volume – «per l’appunto il paese diventa il protagonista, il microcosmo, il centro, l’axis mundi, il punto di partenza da cui Alvaro non si allontana mai nelle sue opere […]. Il paese còlto nella sua varietà e nella sua fissità, nella sua mobilità e nelle sue leggende. Il paese «caldo e denso come una mandra» di Gente in Aspromonte o il «paese abbandonato» che si «sfascia rapidamente» con la chiesa spalancata e l’altare spoglio. Il paese caldo, dove i pastori tornano con le bestie e si siedono al fuoco o il paese che d’inverno diventa tutto un torrente torbido e scende a valle». Un microcosmo, quello raccontato in Un paese, che in Gente in Aspromonte lascia il posto ad un respiro più ampio, contagiato dagli stilemi letterari contemporanei.
L’incipit di Un paese mostra con puntualità come Alvaro stia parlando del suo paese, di S. Luca: «Il comune di Santa Venere non si legge in nessuna carta geografica: nessuno si è accorto di lui appisolato com’è sulla schiena di Aspromonte». Subito appaiono il mare lontano e il fiume Bonamico, che, insieme alla montagna, caratterizzano la memoria e la scrittura di Alvaro. Protagonista del racconto è il maestro Antonio, che s’innamora della giovane figlia del segretario comunale, che si oppone al matrimonio per invidie e pretese tipiche dei benestanti. Il segretario osserva con diffidenza ed animosità il giovane. «Se lo ricordava ragazzo e mal vestito. E come gli volevano bene le donne del paese! Poi, una mattina, lo vide salire la montagna, per il sentiero che fanno i muli che vanno all’altro versante, con un paio di scarpe di vacchetta, nuove e imbullettate, sulle spalle, e un vestitino meno lacero». Il maestro Antonio andava a Bagnara, attraversando le montagne, per studiare da uno zio prete e da lì sarebbe tornato con un titolo di studio e pieno di ambizione, con la voglia di riscatto e di rivalsa, e anche con il desiderio di fare un buon matrimonio e assicurare così studio i figli in qualche città. Il maestro Antonio è richiesto e apprezzato per la sua cultura e bravura nel parlare, per la sua capacità di organizzare e animare le feste e i riti della comunità, dai pochi notabili del paese e dalle donne. Aveva fama di seduttore. Egli, per il Natale, «cantava il Gloria con tutta l’anima e tanta bravura» e, durante il rito del maiale, tiene testa, con la sue conoscenze letterarie, al parroco del paese.
Al parroco il maestro Antonio, che conosce bene le dinamiche sociali e politiche del paese, si rivolge perché interceda presso il padre di Antonuzza, che alla fine, in occasione di una campagna elettorale, descritta da Alvaro con grande ironia, acconsente, mal volentieri, al matrimonio. Non è difficile capire che egli sta raccontando la storia del padre, della madre, del nonno, che si oppone al matrimonio, quasi con le stesse immagini e le stesse parole che poi torneranno in Memoria e vita, dove scrive: «Al nostro paese non c’era scuola: un vecchio abate impartiva un po’ d’istruzione ai ragazzi privilegiati. Mio padre valicò dunque l’Aspromonte a piedi, scalzo, con le scarpe appese pei lacci alla spalla per non consumarle, e per mettersele nuove quando avrebbe fatto il suo ingresso nel paese marino […]Da allora fece un patto con l’avvenire: che quanti figli avesse li avrebbe fatti studiare sul serio, e mantenne il suo proposito».
In Memoria e vita, Alvaro ricorda con affetto e ammirazione il padre: la «sua considerazione e attenzione verso tutte le cose, sensibile, pronta, fantasiosa» da cui «proveniva forse in lui quello speciale ingegno per cui era all’occorrenza buon falegname, viticultore, muratore, apiaio, ogni mestiere che si metteva a fare», come anche cantare nelle grandi occorrenze. «Una ne faceva e cento ne pensava. Era ordinatissimo ed economo» e aveva «un viso antico, colore di terracotta, gli occhi castani mobili e intelligenti, piuttosto maliziosi». La prima vittoria del padre fu il matrimonio con una ragazza borghese, la madre sedicenne, figlia di un uomo forte e testardo, di cui aveva sentito parlare con timore e con cui il padre non era più in rapporto. In Memoria e vita Alvaro parla della madre sedicenne, al momento della sua nascita, dei riti del Natale, che vedevano protagonista il padre, che suonava l’organo, i litigi del padre con il nonno. Sono immagini e motivi già delineati in Un paese ed è probabile pertanto che Alvaro riprenda questo racconto giovanile proprio per scrivere il celebre ricordo del padre, all’indomani della sua morte nel 1941. Brillano, a volte con l’intensità e la tenuta di un lampo, a volte con l’intensità di un diluvio, i riferimenti al torrente Bonamico; lo zampognaro; in parte, l’arciprete donnaiolo; il maestro elementare e le sue vanità letterarie; donna Antonuzza e il basilico; il medico condotto; il segretario comunale; la festa della macellazione del maiale con l’ interminabile “mangiata”, calata, con tutta la dimensione umoristica, in un amplissimo, convulso periodo come il Bonamico in piena.
La descrizione della vigilia di Natale, quella del pranzo del maiale, le riunioni e le diatribe politiche, le competizioni e gli imbrogli elettorali sono squarci in cui il narratore rivela uno sguardo di antropologo ed etnografo, tanto è puntuale nella narrazione di scene di vita quotidiana e festiva. Quelle che possono apparire delle caricature, frutto di uno sguardo ironico, sono descrizioni che restituiscono il senso di una realtà: l’esagerazione, l’ironia, le esasperazioni non sono un’invenzione, ma fanno parte di quel mondo di origine che Alvaro aveva conosciuto, ascoltato, sentito da bambino e che probabilmente gli tornava in mente mentre era ferito e a Livorno, e da quel mondo si sentiva lontano e a quel mondo voleva tornare.

Cosa c’è in questi scritti che possa integrare la nostra conoscenza del noto scrittore?
Contribuiscono a conoscere meglio il cammino di uno scrittore, le sue prime prove, le sue aperture, le prime delusioni e i primi successi, ma anche a ricostruire un ambiente culturale periferico che però sapeva aprirsi e anche per conoscere la vita di una città di provincia vivace e vitale. Le carte del Fondo Lico consentono di individuare meglio le modalità giovanili di approccio alla composizione letteraria e il processo redazionale che conduce alla maturazione del testo.
Forniscono altri documenti letterari preziosi, anche attraverso le corrispondenze epistolari (esistono altri epistolari di Alvaro ben curati e pregevoli), vicende rilevanti per meglio conoscere Alvaro uomo e letterato. Sembra possibile ancora ampliare le conoscenze sulla sua formazione di scrittore e ripensare, anche con un approccio antropologico, i legami tra la produzione letteraria e l’ambiente sociale, culturale e familiare di provenienza. Questi «stracci» sono ulteriori, parziali, tracce per ripensare, in maniera più approfondita, il formarsi di quelle memorie di un mondo sommerso che costituiscono il progetto di una vita di scrittore e di capire i percorsi per cui la letteratura è vita e la vita diventa letteratura, senza confondere però vita, memoria, autobiografia, poesia.
Un discorso, a parte, meritano gli scritti su Alvaro. Lico probabilmente porta a termine la Biografia su Alvaro, con in appendice lettere e documenti (188 fogli manoscritti densi e fitti e viene suddivisa in sette capitoli) tra la fine del 1940 e i primi mesi del 1941, anche se poi ci tornerà più volte con aggiunte, correzioni e precisazioni. Il racconto della formazione giovanile e della creazione delle prime opere di Corrado Alvaro, che si scopre «poeta» nel suo paese d’origine e nella sua famiglia, e che questa scoperta (suscitata, incoraggiata, alimentata dal padre) che comincia ad affiorare, tra paure e delusioni, sensi di colpa ed entusiasmo, applicazione e passione, nel Collegio gesuita di Mandragone e al Liceo Galluppi di Catanzaro, dove pure Alvaro scopre quanto sia duro e faticoso cambiare condizione sociale attraverso lo studio e fa esperienze anche umilianti per il suo essere giovane libero, geniale, ribelle.
Il racconto della fuga dalla Calabria, dell’arrivo a Roma e poi a Firenze, dei mesi che precedono la guerra, dei mesi al fronte, del ferimento, del primo dopoguerra, ripensato attraverso lettere che Alvaro scambia con amici, familiari e con una «madrina di guerra», la giovane contessa Ottavia Puccini, conosciuta a Firenze.

Nell’introduzione al volume lei ha scritto: «L’ombra di Alvaro mi accompagna da sempre, a volte mi ossessiona e mi sovrasta, benevola». Ne vuole parlare?
Corrado Alvaro è uno degli scrittori che più amo e che, forse, meglio conosco. Alvaro è stato saggista, giornalista, scrittore, memorialista, autore di teatro, raffinato traduttore (fin da quando studiava a Catanzaro), conoscitore delle lingue e del mondo classico, delle lingue e delle letterature europee, viaggiatore curioso, autore di note di viaggio (in Turchia, in Russia, in Francia, in Italia, nel Sud, in Calabria) indimenticabili e attuali. È stato responsabile di pagine culturali, collaboratore de “La Stampa” e de “Il Corriere della Sera” (di riviste, altri giornali) con importanti impegni nel mondo editoriale, nel cinema, nella radio. Alvaro spazia dalla critica cinematografica a quella letteraria, dagli articoli di scienza e quelli di costume, dai commenti alla vita politica e sociale all’interesse per le grandi questioni che affrontava il mondo separato in blocchi, l’uscita dall’Italia dalla guerra e anche il passaggio dalla tradizione alla modernità, dalla civiltà agro-pastorale alla civiltà delle macchine. Certamente è lo scrittore che ha colto, narrato e interpretato l’antropologia profonda della Calabria, segnalandone contrasti, bellezze, miti, tortuosità, asprezze. Le sue analisi e riflessioni sociali e politiche sono talmente puntuali e penetranti da essere punto di riferimento per storici e studiosi dell’Italia tra le due guerre. Ogni definizione della poetica e dello stile di Alvaro rischia di apparire riduttivo. Il suo realismo, il suo riferimento al mito, il dialogo con i classici, l’apertura alla letteratura europea ne fanno un autore unico. La sua vocazione è quella di indagare la cultura regionale quando incontra la grande tradizione italiana ed europea. Non a caso dedica pagine fondamentali a Campanella e cerca gli autori della sua regione che hanno dato un apporto alla cultura moderna. Tradizione e modernità non sono termini inconciliabili, ma dialettici, inseparabili.
Credo sia stato unico nella sua capacità di restare fedele e ancorato a un luogo e insieme nelle facilità di aprirsi al mondo, alla cultura esterna, a sprovincializzare sia le culture regionali che quella nazionale, che egli non vede separate. La sua scrittura, come ho mostrato in tanti miei saggi, è densamente e profondamente antropologica. Ho considerato fin da giovanissimo, quando ero ancora al liceo, un “maestro” di stile e di scrittura e, nel tempo, sempre più punto di riferimento per “comprendere” la Calabria, la società italiana, il passaggio dalla civiltà contadina alla modernità. Un «maestro» di etica: Alvaro è stato uno «scrittore morale».
Aggiungo che ho avuto una certa frequentazione con il figlio Massimo, di cui custodisco una lettera a me inviata in cui mi racconta del rapporto di Alvaro con l’acqua, e che sono stato profondamente legato a Don Massimo e adesso ai suoi nipoti. Ho visto nel corso degli anni e delle mie ricerche, molti fogli manoscritti e dattiloscritti di Alvaro: nella casa di don Massimo, fratello dello scrittore, con cui ho avuto una lunga frequentazione, culturale e amicale, e presso la famiglia di suo nipote Mario Saccà (figlio di Maria, sorella di Alvaro) e a Roma nella casa del figlio Massimo, grazie alla cui disponibilità e generosità, ho avuto modo di curare e fare pubblicare (dalla Monteleone editore di Vibo Valentia), in una collana da me diretta, I libri di cento pagine. Sintesi del pensiero umano”(1993), una raccolta di articoli pubblicati in vari periodi su «La Stampa», e Viaggio in Turchia (1995; ed. or. 1932), con una bella e intensa presentazione di Mario Fortunato. Per queste ragioni si può immaginare l’emozione e lo stupore, la commozione e la sorpresa che mi hanno assalito quando mi sono trovato davanti poesie, racconti, lettere, fotografie del giovane Alvaro, manoscritti, con la sua grafia inconfondibile, a volte leggibile, altre volte veloce, con le sue correzioni e i suoi interventi sui testi, che apportava nelle primissime prove di autore, a conferma che scrittore era nato e tale si era sentito da giovanissimo, non lasciando nulla al caso, e cercando sempre quella che lui considerava la perfezione.

Alvaro e la Calabria. Che rapporto è?
Un legame intenso, profondo, controverso, sofferto, dolente, mai interrotto. Alvaro vive pochi anni nel suo paese e in Calabria, vi tornerà di rado e malvolentieri, anche per le invidie e le ostilità paesane nei confronti del padre, ma da quel suo universo non si staccherà mai. Uno dei temi portanti della poetica di Alvaro è l’amore viscerale per il suo paese, che racconta in pagine stupende, in Gente in Aspromonte, in Calabria e in tanti altri scritti e racconti. S. Luca, il paese d’origine, Polsi, il Santuario nell’Aspromonte, dove si svolge la festa della Madonna della Montagna, assunto a metafora dell’erranza, dei viaggi, delle ansie, dei desideri dei ceti popolari calabresi: è questo il «mondo sommerso» di Alvaro che sembra avere, nonostante le tensioni e i movimenti che lo attraversano, la saldezza, la forza e la compattezza dello shetetl di Roth e di altri scrittori ebreo-orientali. Mentre viveva a Berlino ebbe, come ricorda un altro grande scrittore calabrese, Saverio Strati, contatti personali con Benjamin, con Brecht, e lesse le opere dei grandi scrittori di lingua tedesca, da Kafka a Roberto Walsen, da Doblin a Joseph Roth, dai fratelli Mann e Hermann Hesse.
Odio e amore, lontananza e distanza, comprensione e fuga. Luogo della memoria e dell’impossibile ritorno, della nostalgia che consuma e logora e che, qualche volta, acquieta. Come l’acqua che è elemento puro di distruzione. Non è concessa una doppia appartenenza, una doppia identità, ma una personalità lacerata, frantumata, come tante schegge, che deve trovare un senso del vivere e dell’abitare in un mondo anche ospitale che comunque ci sembrerà sempre ostile, e che impedisce ogni reale ritorno, una volta che lo si è abbandonato, nel paese dei padri, che è diventato lontano ed estraneo già al momento della partenza. Quel mondo perduto, per sempre, dove non potrà tornare, perché ogni ritorno è impossibile, sarà narrato da Alvaro con pietas e grande rispetto, come un mondo dell’innocenza e dell’infanzia, dove tutto è accaduto, ma anche segnalandone le asprezze e le angustie. Alvaro ritorna e riprende motivi, immagini, figure del mondo di origine, del paesaggio infantile e della giovinezza. In fondo egli sembra scrivere, da postazioni diverse, la sua “biografia”, quanto è accaduto, per sempre, nell’infanzia e questo lo vediamo soprattutto nel rapporto con il padre e con il paese. Metafore e simboli della cultura di origine ritornano nelle sue opere, anche in quelle più lontane, apparentemente, dal suo universo di appartenenza. Mi sono soffermato altrove sul motivo dell’acqua (come elemento di distruzione e di salvezza, di purificazione e di comunione), del cibo, dei pellegrini come figure erranti. E come se Alvaro osservasse il mondo in cui è caduto con i sensi, la percezioni, le immagini del mondo di origine.

Si può parlare di un’eredità di Corrado Alvaro?
L’«eredità di Alvaro intellettuale, letteraria, culturale è enorme, attuale, esaltante, preziosa, come mostrano molti autori, saggisti, critici, intellettuali italiani e calabresi. Non sempre però, questa eredità viene riconosciuta nella sua verità e con le sue scomodità, assunta criticamente, considerata come fonte di consapevolezza e di responsabilità, ripensata come un testamento morale, di memoria e di speranza. Alvaro, in Calabria, è più citato che letto e pensato. Non si fa molto – anche se ci sono però rispettabili e apprezzabili iniziative da parte di istituzioni, editori, biblioteche, università, singoli studiosi che andrebbero puntualmente ricordate- perché sia riconosciuto nella sua ricchezza, complessità, originalità, nella sua modernità che egli viveva sempre in rapporto con la tradizione, nel suo essere ancorato al mondo di origine e impegnato, non senza fatica e dolore, a navigare in mare aperto. Alle parole e alle dichiarazioni che ascoltiamo durante rituali convegni e celebrazioni non seguono mai i fatti, le iniziative adeguate e coerenti, l’impegno culturale e concreto degli enti pubblici, del mondo della scuola e della politica, dell’Università e degli intellettuali per fare conoscere Alvaro e quegli scrittori meridionali e calabresi che hanno saputo e sanno parlare anche all’Italia e all’Europa.

Calabria on web, 7 ottobre 2014

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