7.10.14

Da Laborintus a Rebus. L'atto di scrittura oggi, per me (Edoardo Sanguineti, 1985)

Fra il 13 e il 15 dicembre 1985 si svolse a Roma tra il Centro culturale francese e Villa Medici un Colloquio francese italiano, promosso da due prestigiose riviste: la “Quinzaine litteraire” e “Alfabeta”. Gran parte del suo svolgimento era basato sulla alternanza sistematica di un letterato francese e un letterato italiano che intervenivano sul tema Io parlo di un certo mio libro. Non tutti si attennero ad esso: non lo fece Fortini, che, impossibilitato a intervenire, mandò il suo testo (lo lesse Romano Luperini), mentre altri scelsero di parlare di più di un libro. Posto qui l'intervento di Edoardo Sanguineti. (S.L.L.)

Potendo disporre, come da programma, di una dimensione di discorso duplice, «in termini critici» e «in termini teorici personali», cercherò di situarmi in una zona intermedia, descrivendo un aspetto del mio lavoro che sia in grado di delineare una riconoscibile famiglia di scriventi.
Mi trovo naturalmente iscritto, come tutti, per anagrafe, tra coloro i quali, come tutti i moderni, secondo il paradigma goethiano, sono coatti a scrivere le proprie opere complete, programmaticamente consci, entro l'orizzonte necessitante di una Weltliteratur. Posto questo, devo tuttavia identificarmi in quel tipo umano che aspira egualmente alla costruzione di un'opera centrale, entro quelle opere complete, e a risolvere così sé stesso, comunque, essenzialmente, in un libro. All'interno di un genere così vulgato, e volgare, vengo poi a collocarmi tra coloro che non aspirano alla costruzione del proprio testo dominante attraverso l'esecuzione di un piano strutturalmente precostituito, ma anzi tra coloro che vanno coltivando un itinerario di scrittura che si definisce soltanto, progressivamente, nel corso dei lavori, inventandosi mete e tappe a cui costringersi, da nomade, nel tempo. Entro questo genere, finalmente, appartengo a quella varietà di scriventi che si correggono non per riscrittura, mediante interventi retrospettivi, più o meno massicci, sul già scritto e già edito, esibendo il proprio travaglio di pentiti, e di perfezionisti, ma, quasi all'opposto, operano per correzioni di rotta tematiche, linguistiche, ideologiche, costruttive, e dunque attraverso una supplementare produzione di testi, per aggiustamenti ulteriori, con metodo additivo.
Ogni nuovo atto di scrittura, ovviamente, si ripercuote, anche se minimo microtesto, sopra il macrotesto pregresso, e ne accresce e diminuisce, definisce e storpia, moltiplica e deturpa i significati acquisiti. Intanto, proprio perché riapre l'apparente totalità della scrittura già cristallizzata in superficie, viene a sospendersi continuamente sopra un nuovo vuoto di scrittura, che attende di essere ancora colmato, più tardi, con un illusionistico effetto complessivo, inevitabilmente, da perpetuum mobile. L'idea di un'opera in progress, in breve, aspira a essere condotta, in questo modo, alle sue ultime conseguenze. Per me, il fascino discreto della scrittura riposa, totalmente, in un simile progetto paradossale.
Questa specie di lunga frase primaria, primariamente imperfetta, questa sorta di assiale testo ininterrotto, e perpetuamente interrotto, frantumato e ricompattato, è costituito, nel mio caso, dalla serie delle mie scritture in versi, segmenti di un corpo poematico che aspira a un mitico risultato unitario, continuamente trasgredito e ricompattato, franto e restaurato, contraddetto e riaggiustato. L'opera, dunque, in prima istanza, è la storia stessa del proprio farsi. Per questo, quelle scritture che, pur essendo in versi, sono digressive nei confronti di un simile itinerario dominante, sono
me confinate e emarginate all'insegna di un Fuori catalogo. E a distanza, si capisce, ruotano poi, come altrettanti pianeti, le altre scritture, in questa prospettiva fatalmente periferiche, le romanzesche e le teatrali, le saggistiche e le traduttive, - le altre, genericamente.
Quanto all'opera in sé, se esibisce intitolazioni nette per le diverse serie compositive, cronologicamente ordinate, e per le serie successivamente edite, isolate o a gruppi, non possiede un titolo complessivo. Questo si presenta, come è fatale, ai miei occhi, come un desiderabile gesto conclusivo, come un auspicabile sigillo terminale.
Mi limiterò allora a indicare adesso le insegne, rispettivamente, della serie inaugurale e di quella provvisoriamente estrema. Perché la prima, Laborintus, manifestava subito il carattere erratico, e erraticamente carcerario, della ricerca, attraverso la figura emblematica di uno smarrimento entro la fabbrica del mondo, nel recinto delle parole, tra i muri del reale, in un tempo storicamente concreto. E l'ultima, che sto fabbricando, reca in fronte, con il nome di Rebus, un rinvio immediato, per intanto, a una dimensione ludica, nel giuoco aperto con i materiali verbali e con i campi referenziali, e soprattutto alla forma dell'enigma. Questa viene suggerita al lettore in ossequio a un'idea di scrittura come proposta di un testo, di un tessuto verbale, che si è invitati a decriptare, a interpretare, a sciogliere, in un'analisi che tuttavia, potenzialmente, rimane interminabile. Ma nel titolo, insieme, si deposita un rinvio, etimologicamente, alle cose stesse, alle res, confessando l'aspirazione utopica a un disegno segnico in cui, a realizzare il discorso, intervengano, al limite, gli oggetti, per sé.
L'utopia dice che l'autore, che pure è lì che si fabbrica i suoi rebus inventariando e montando le sue res, può pervenire a un punto in cui siano le cose a prendere la parola, deponendo il medium del soggetto, occultato e rivelato, al tempo stesso, dalla maschera elementare dell'io demarcatore. È questa utopia che volevo segnalarvi, sommariamente. E sono convinto che sia questa che interviene, come regolatrice inconscia a guidare, in sostanza, ogni nostro atto di scrittura, oggi.

Alfabeta n.84, Maggio 1986 – Supplemento letterario 6

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