2.10.14

Apoteosi di un Don. La morte di Pierino Gelmini (Salvatore Lo Leggio)


Parce sepulto, “perdona chi è morto e sepolto”, scrisse Virgilio, e lo stilema passò in proverbio. Per don Gelmini, il prete antidroga ridotto allo stato laicale, fondatore della Comunità Incontro, non si è aspettata la sepoltura, è bastata la notizia della morte e più che un perdono è stata una apoteosi, una anticipata beatificazione. Nel sito della Comunità una grandissima foto lo salutava “Ciao Don”, mentre le note dell'Alleluja di Haendel risuonavano nella camera ardente e il cordoglio invadeva tutto l'orbe terracqueo. Né mancava nel sistema politico-mediatico chi vedeva intorno al morto l'aura e l'aureola del martirio: Gasparri, per esempio, parlava di persecuzioni.
Tv e giornali, quasi imbeccati da veline, hanno glissato compatti sul passato del personaggio, pur ricordando il processo che lo vedeva imputato per abusi sessuali contro alcuni giovani ospiti della Comunità, ma di sfuggita, come cosa di scarsa importanza. Le testate più destrorse peraltro, concordi nel dichiarare inconsistenti le accuse, hanno dato spazio all'autodifesa del defunto o alle parole dei suoi avvocati: Gelmini al tempo del rinvio a giudizio aveva parlato di una congiura di “toghe rosse” e “poliziotti infami” e gli avvocati hanno sempre insistito sulla inattendibilità degli accusatori collegandola alla richiesta di un risarcimento. L'innocenza del prete oramai è destinata a rimanere presunta, mai proclamata in giudizio; ma le cronache del tempo (2007) raccontano di una istruttoria scrupolosa che passa al setaccio le 52 convergenti testimonianze di accusatori, riducendole ad una dozzina, quelle più convalidate da riscontri probatori.
Processo a parte, i media parlano di “una vita a fianco dei tossicodipendenti”, fin da quando nel 1963 un poveretto gli chiede: “zì prete, aiutami”; così rimuovono gli alti e i bassi di un percorso tra la polvere e l'altare. In verità era il 1969 e Gelmini era uomo fatto (44 anni, prete da venti), segretario del cardinale Copello, già arcivescovo di Buenos Aires, passato alla Curia vaticana come Cancelliere di Santa Romana Chiesa, quando arriva la prima condanna (tre mesi per assegni a vuoto). Nello stesso anno compra una bella villa a Casal Palocco. Ma non può godersela: i carabinieri lo arrestano proprio lì il 13 novembre, trovando in giardino la sua Jaguar: è accusato di truffa per il fallimento di una cooperativa edilizia affiliata alle Acli, di cui è tesoriere, ed è coinvolto nell’inchiesta su una ditta di import-export tra Italia e Argentina da lui costituita. Ripara nel Vietnam del Sud, amico della vedova di Diem, il dittatore filoamericano assassinato nel 1963, e di un fratello di costui, arcivescovo; ma quando il prelato e la signora lo accusano di appropriazione indebita, preferisce tornare in Italia e scontare in carcere la condanna irrogata in contumacia.
Risale agli anni 70 l'impegno per i drogati che culmina nella costituzione della Comunità Incontro e nell'acquisizione del terreno ad Amelia, intorno a un frantoio abbandonato, il Mulino Silla. Nasce da qui l'impero di Gelmini, abilissimo nel trovare sponsor e denaro: in una ventina di anni le comunità si diffondono nel mondo; in Italia dopo il 2000 se ne contano 162. Vantano 11 mila ospiti, ma forse il calcolo è esagerato, se il governo parla di 12 mila in tutte le 730 comunità censite in Italia. La gloria di Gelmini è esaltata da amicizie altolocate: papa Wojtyla, che adora i personaggi carismatici seppure un po’ bizzarri, e durante il Giubileo accoglie i rappresentanti delle Comunità Incontro; cardinali importanti; un prete televisivo assai presente nell'anno giubilare; e, fuori dal circuito religioso, Sua Emittenza Berlusconi, che aspira a un potere politico incontrastato, finanzieri, costruttori, tanti uomini politici, non solo di destra.
Non ha solo amici: le operazioni edilizie spregiudicate, un potere assoluto sulle comunità e un antiproibizionismo senza incrinature gli procurano ostilità. Nel mondo ecclesiastico non apprezzano la sua megalomania. Già dal 1963 aveva cominciato a farsi chiamare Monsignore senza esserlo e il Vaticano lo aveva più volte diffidato; nel 1988 Gelmini, pur essendo sacerdote di rito latino, aderisce a una Chiesa cattolica di rito orientale, quella melkita, che lo insignisce della dignità di Esarca Mitrato. Non è carica equivalente all'episcopato come va raccontando - a un Concilio ecumenico non potrebbe partecipare - ma durante le funzioni porta la mitra in testa.
Il trionfo coincide con i fasti del berlusconismo: ospite acclamatissimo in tutte le feste di regime, Gelmini è tra i pricipali sostenitori della stretta proibizionistica della legge Fini-Giovanardi e Berlusconi in persona va a trovarlo, staccando assegni milionari. Le solidarietà politiche non cessano quando lo scandalo sessuale di cui già si chiacchierava si traduce in un'ampia inchiesta, anzi si costruisce una sorta di parallelo tra il calvario di Berlusconi e quello di Gelmini.
Ma con Ratzinger a Roma l'aria è cambiata e si accentua nei confronti di Gelmini l'ostilità del vescovo di Terni, Paglia. Quando si diffonde la notizia della “riduzione allo stato laicale”, i suoi precisano che lo ha chiesto il Don per difendersi meglio, ma lui sbotta: “Rigetto il concetto del Vaticano come centro religioso: è un centro politico, qualche volta ambiguo e fuorviante. Altra cosa è la chiesa di Cristo... Gli intrallazzi non sono fede. Bisogna tornare a Cristo non al cesaro-papismo... Monsignor Paglia non ha alcuna giurisdizione su di me, per me è zero. Io appartengo alla chiesa cattolica melchita. Il mio superiore è il patriarca Gregorio III. Per me Paglia è solo il portalettere del Vaticano. Qui non deve provare a mettere piede...”. A Roma aumentano le perplessità e si comincia a mettere in discussione il sistema di recupero dei tossicodipendenti inventato dal Don, la Cristoterapia, che a non pochi pare una mescolanza impropria tra sacro e profano. Sconterà con un relativo isolamento queste prese di distanza.
La morte di Gelmini arriva in un contesto mutato: il rigido Ratzinger non è più papa, l'odiato Paglia è stato rimosso senza essere stato promosso cardinale e ne sono note le allegre finanze. Al funerale il nuovo vescovo di Terni, Piemontese, affida a Dio il giudizio sugli eventuali peccati del Don, ma parla per gli ultimi anni di “salita umile, dolorosa”. Il concelebrante, Ercole, l'amico prete televisivo divenuto nel frattempo vescovo, ne traccia il panegirico. Il sindaco di Amelia promette di far costruire un mausoleo a Mulino Silla. Il tutto tra sventolio di bandiere e musiche di alleluja.
A sorpresa, intanto, a visitare la salma era passato don Luigi Ciotti, il prete del gruppo Abele e di Libera, antiproibizionista e sostenitore della riduzione del danno. Ha detto: “Siamo diversi, ma nella Chiesa la diversità è ricchezza. E poi ha salvato tante vite umane”. Sulla diversità non ci sono dubbi: nel gruppo Abele, formato da persone di diversa fede religiosa o filosofica, il recupero è basato su un percorso di libertà e di responsabilità personale, la Cristoterapia è una pedagogia autoritaria con annesso culto della personalità e con pratiche di lavaggio del cervello. Quanto al salvataggio di vite è vero che Gelmini può vantare numerosi recuperi, ma non giova dimenticare i morti che fanno le politiche proibizionistiche di cui era paladino. Perché allora Ciotti ha fatto questo gesto? Ritengo che sia politica. La svolta francescana del nuovo Papa ha dato legittimità e perfino centralità a esperienze (come la Teologia della Liberazione in Sud America o taluni gruppi progressisti francesi e italiani), che erano state marginalizzate o addirittura emarginate dal conservatorismo di Wojtila e Ratzinger, ma Bergoglio vuole evitare rotture. Il parce sepulto di Ciotti è diretto non solo al don che è defunto, ma verso le posizioni più retrive della gerarchia che sembrano perdere colpi. Ma forse si sbaglia: non è detto che quelle posizioni siano definitivamente sconfitte.

"micropolis", settembre 2014


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