4.9.14

Vittorini tra libro e industria (Marco Belpoliti)

Chi è oggi Vittorini? Cosa è vivo e cosa è morto dell'autore di Conversazione in Sicilia e di Uomini e no, dell'inventore di Americana, del fondatore del “Politecnico”, del polemista, del direttore dei celebrati Gettoni, dell'iniziatore della discussione intorno a «industria e letteratura»? Da quando nel 1974 Maria Corti curò la stampa del secondo volume delle sue opere narrative nei «Meridiani», i romanzi di Vittorini sono stati ristampati col contagocce, tranne forse Conversazione, il suo capolavoro lirico.
E dopo che, per circa un ventennio, non c'è stato un solo lettore colto, o aspirante scrittore, che non si sia cimentato con le sue opere, oggi il flusso dei suoi lettori è molto diminuito, e anche la critica recente - Giulio Ferroni, ad esempio - tende a ridimensionarne l'importanza letteraria. Persino la vicenda del “Politecnico”, in assenza di ogni discussione su politica e cultura, pare consegnata alla storia. Anche il “Menabò” di letteratura, la rivista diretta insieme a Calvino, che fece da battistrada alla neoavanguardia e ai suoi temi, che hanno occupato il campo per vent'anni, appartiene ormai al passato. Allora cosa resta di Vittorini, al di là della celebrazione storica?
A questa domanda pare rispondere, seppur indirettamente, il documentato ed esauriente volume di Gian Carlo Ferretti, L'editore Vittorini, che sonda una parte importante del lavoro dello scrittore siciliano, vissuto a Milano dagli anni 40 al 1966, anno della morte. Come già fece per Calvino giornalista, Ferretti ripercorre il lavoro di Vittorini consulente editoriale e direttore di collane, dal 1933, anno del suo debutto nell'editoria come traduttore, per arrivare alla creazione della collana di avanguardia I gettoni nel 1951. Secondo l'autore i caratteri della ventennale attività di Vittorini sono ben chiari sin dal suo controverso esordio: «un'articolata organizzazione e serrata produttività personale, una durezza e spregiudicatezza nei rapporti (seppur attenuata o mascherata da frasi rispettose, gentili o scherzose) e nei metodi di lavoro, che reca in sé anche una dichiarata istanza di personalizzazione, di utilizzazione originale del lavoro altrui, di trasformazione della fedeltà del traduttore in creatività dello scrittore».
Vittorini è un'inconsueta figura di intellettuale-editore che non solo si preoccupa di scrivere e far pubblicare le proprie opere, ma affianca a questa attività «tradizionale» quella del curatore di volumi, del promotore di autori e temi, del redattore e programmatore editoriale, fino alla direzione di collane e di periodici come “Corona”, presso Bompiani, e il celebre “Politecnico”, del 1945. Giustamente Ferretti respinge l'ambigua definizione di «organizzatore di cultura», usata spesso per Vittorini, dato che lo scrittore siciliano non è solo un redattore-intellettuale ma anche un redattore-funzionario. Negli anni 40 segue il prodotto-libro in tutte le sue fasi: scelta dei collaboratori, dei traduttori, dei titoli, disbrigo della corrispondenza, accordi commerciali, contratti, editing, illustrazioni, bozze, confezione, stampa, promozione in libreria e recensioni.
L'energia di cui sembra dotato Vittorini è enorme, come si comprende anche dalla lettura dei due volumi di lettere editi sinora da Einaudi e che riguardano gli anni dal '33 al '43 e dal '45 al 51.
Ma non c'è solo questo lavoro sui «libri degli altri», c'è anche, in primo luogo, la cura e la promozione del proprio lavoro. In una efficace lettera a Bompiani del giugno del 1948 Vittorini si preoccupa della ristampa dei suoi volumi divisi tra Einaudi, Mondadori e lo stesso Bompiani, il suo primo vero editore. Egli enuncia il principio che per un autore che vive del provento dei suoi libri ripresentare le proprie opere il più spesso possibile e in nuova veste, cioè presso editori via via diversi, è fondamentale.
Perciò Vittorini cura con attenzione la ristampa dei suoi romanzi e il continuo passaggio da un editore all'altro. Del resto dal 1933 al '38 collabora con Mondadori, poi si trasferisce come collaboratore e autore da Bompiani, sino al 1941, e dal 1945 diventa uno dei riferimenti per Einaudi, salvo tornare nel '46 da Bompiani e, dopo la fine del “Politecnico”, dal '46 al '66, diventare consulente stabile di Mondadori, mentre ancora dal 1951 al '57 dirige I gettoni einaudiani.
Tuttavia non c'è solo il Vittorini conoscitore dall'interno dei meccanismi editoriali - privilegia la corporazione degli editori a quella degli scrittori -, ma anche quello che gestisce con sapienza la propria «immagine». Riprendendo gli studi di Raffaella Rodondi, efficace annotatrice anche delle Opere narrative, Ferretti evidenzia nel dettaglio come lo scrittore sia «un geniale quanto disinvolto creatore di leggende non sempre innocenti su se stesso, che per lungo tempo hanno influenzato la critica o sono rimaste punti fermi della sua biografia.
Le leggende sono quelle dell'antifascismo predatato, del mito operaio, del mito dell'autodidatta e quello dell'origine contadina (ma anche operaia, marinara, a seconda dei casi). Vittorini costruisce il suo personaggio in rapporto con la sua poetica, ma soprattutto in rapporto col «presente». L'oggi è il tempo su cui lo scrittore ed «editore» rimodella il proprio passato, manipolando testi e testimonianze, sino a quel capolavoro di autopromozione che è il Diario in pubblico del '57, dove taglia e cuce i propri testi, come già aveva fatto con gli autori americani tradotti, con i collaboratori e gli scrittori del “Politecnico”, con gli esordienti della collana dei Gettoni, per costruire un autoritratto al presente che è sempre, almeno nelle sue ambizioni, paradigmatico.
Che la tensione dell'oggi sia il centro del progetto-Vittorini l'aveva già messo in luce lo stesso Calvino, suo interlocutore e sodale, nello scritto apparso nel 1967, nel numero postumo e ultimo del “Menabò”: «Il suo dato di partenza è l'esperienza letteraria del presente». Questo presente è da Vittorini sempre riaggiornato in un datario fissato sull'«oggi», mediante una frenetica attività di lettura, di progettazione, di scrittura e riscrittura, persino delle proprie opere, dove abbondano infatti i testi incompiuti, rifatti o riediti con prefazioni che li aggiornano.
Ferretti parla giustamente di irrequietezza e di spregiudicatezza, indici di un progetto coltivato su più piani o con mezzi diversi, ma in ogni caso convergenti in iniziative che appaiono sempre insoddisfacenti. E Calvino aveva visto giusto quando segnalava il dualismo insanabile di Vittorini, diviso tra l'operare «sull'opera (che dia senso al fuori)» e quello sul «fuori, sul contesto culturale dell'opera». In questo movimento circolare tra «opera» e «fuori», Vittorini pare prigioniero della sua stessa ansia di contemporaneità, legato a un presente che gli pare sfuggire continuamente nell'ineliminabile feedback tra opera e contesto, tra pensiero e scrittura.
La realtà non è trasparente e il modello conoscitivo elaborato dallo scrittore non riesce mai a esaurirla. Se come scrittore, Vittorini è segnato poi da un lirismo di fondo, catturato dalla seduzione della «plasticità della lingua» di ascendenze primonovecentesche, come intellettuale-editore è invece schiacciato dal sistema dell'«industria culturale» che finisce per accettare in tutto e per tutto. Su quest'ultimo motivo Ferretti torna per ben tre volte nel suo studio, segnalando come lo scrittore sia fermo a una visione ottimistica e consenziente del mondo editoriale, di cui accetta l'organizzazione del lavoro e gli obiettivi di mercato, senza mettere in discussione la sua collocazione e il suo ruolo. La tensione critica e autocritica di Vittorini si arresta così sull'uscio delle case editrici.
La causa di questa subalternità va probabilmente ricercata nel vitalismo di fondo dell'uomo e dello scrittore, nella sovrastima che nutriva nelle capacità proprie e altrui, nella possibilità di ribaltare a proprio vantaggio i rapporti di forza tra produzione creativa e produzione editoriale. Vittorini è un inguaribile ottimista. Leggendo le sue lettere si comprende come sia sempre in movimento, esuberante e pronto a sostenere tutte le sfide.
Il mito americano, quello resistenziale, il mito pedagogico-didattico del Politecnico , quello intellettuale e industriale, i miti della metropoli, di Milano e dell'automobile, non sono che tante facce di un unico mito, quello dell'uomo nuovo , il mito di Robinson, che poi è sempre lui, Elio Vittorini, che incarna la figura dell'eterno scopritore, dell'uomo che ricostruisce da solo, e col poco di cui dispone, il profilo della nuova civiltà.
La stessa tensione avanguardistica del Vittorini-scrittore ed editore si scontra con quella divulgativa di molte imprese. Ferretti lo mostra con vari esempi e fa vedere come il suo progetto editoriale non superi mai la soglia di un'idea elitaria di lettore.
Dopo la fine del “Politecnico” cade anche l'istanza «popolare» di Vittorini e si verrà realizzando, secondo Ferretti, la convergenza e coerenza tra «la tensione sperimentale, innovativa» e «l'area di lettura libraria ristretta e privilegiata», anche se occorre dire che proprio da quella sperimentazione sono usciti molti degli scrittori più significativi dell'ultimo quarantennio.
La «tensione verso il presente», il complesso della contemporaneità ha finito per spiazzare Vittorini. La storia e la letteratura hanno preso ad avanzare senza di lui, in direzione e in modi assai differenti, lasciando tuttavia irrisolti molti dei problemi da lui sollevati.
Quello che resta il cardine del suo lavoro - la convergenza di scrittura creativa, attività editoriale e promozione culturale, la tensione a «superare la separatezza del lavoro intellettuale, senza rinunciare alla specificità della produzione artistica» (G. Grando) - fa di Vittorini una delle personalità più originali del dopoguerra ed è ancora oggi la sua eredità più importante. Nell'ultimo decennio sono infatti rarissime le figure di scrittori che sostengono un fronte così vasto di lavoro, pochi in confronto ai molti che coltivano invece il terreno proprio delle sole opere.


“il manifesto – la talpa libri”, 9 ottobre 1992

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