4.9.14

“Poeta senza poesia”. Giovanni Raboni su Pier Paolo Pasolini

In occasione del ventennale della morte di PPP “L'Espresso” chiese ad alcuni poeti italiani di ricordarlo con una poesia: non si tratta di grandi cose, anche se un paio le riprenderò in altri post come curiosità. Giovanni Raboni rispose all'appello con quest'articolo in cui esprime argomentate riserve sulla poesia pasoliniana, riserve niente affatto condivisibili che tuttavia giovano a definire la “poetica” di Pasolini. I versi di Pasolini sono infatti volutamente “impuri” e vivono nella “contaminazione”; cosa che non si può dire della poesia di Raboni o di quella di Fortini, i quali vogliono conservare alla parola poetica una sua specificità, un suo statuto particolare. Non intendo parlare dell'aura, cui nessuno dei tre autori citati rinuncia del tutto, ma la “sacralità” cui aspira Pasolini sta proprio nel contaminato, nel mescidato, nell'impuro. (S.L.L.)
Pier Paolo Pasolini con Giuseppe Ungaretti
Più passa il tempo e più crescono la mia ammirazione per Pasolini scrittore e le mie riserve su Pasolini " poeta: includendo nel primo alquanto arbitrariamente, il saggista, il critico letterario, l'opinionista-polemista. il pedagogo, il geniale dilettante di filologia e di semiologia, ecc. ecc., e nel secondo, altrettanto arbitrariamente, l'autore di opere teatrali e narrative oltre che, si capisce, il poeta in versi. Ho cercato più di una volta di spiegare le ragioni di questa valutazione apparentemente dicotomica, ma senza riuscire, temo, ad essere chiaro come avrei voluto. Il fatto è che la dicotomia è, appunto, solo apparente, e che la ragione per la quale amo Pasolini "scrittore" e quella per la quale non amo Pasolini "poeta" sono praticamente identiche.
All'origine di entrambe c'è, infatti, la straordinaria qualità intellettuale, la quasi incredibile acutezza e chiaroveggenza di ciò che Pasolini ha pensato, capito e detto intorno alla realtà storica e antropologica del nostro tempo e del nostro paese: una qualità che continua ad emergere in termini estremamente attuali noi i solo dai suoi scritti saggistici e militanti, ma anche dai suoi scritti creativi.
Ma mentre nel caso dei primi questo ha il valore, non meno esaltante che inquietante, di un privilegio non scaduto, nel caso dei secondi ha, per una sorta di amaro paradosso o contrappasso, il significato di una condanna inespiabile. A vent'anni dalla sua morte, complice l'atroce stagnazione del contesto sociale e politico, il discorso di Pasolini è un discorso ancora bruciante, ancora capace di ferirci e, spesso, di illuminarci: ma appare sempre più chiaramente, appunto, come un "discorso", il cui senso è affidato essenzialmente agli strumenti della descrizione e della dimostrazione, che Pasolini maneggiava magistralmente e mai o quasi mai a quelli della suggestione formale e dell'ambiguità metaforica, le cui risorse Pasolini non padroneggiava e che forse, da moralista, inconsciamente condannava.

Scolastico epigono
In altre parole, in tutti i suoi scritti Pasolini analizza, critica, denuncia con estrema lucidità e chiarezza; ma se questo è un grande merito per un intellettuale, non lo è per un poeta. E sta di fatto che dalle Ceneri di Gramsci in poi (cose diverse, ma non tali da modificare sostanzialmente il giudizio, bisognerebbe dire dei suoi esercizi giovanili in friulano, che rivelano in lui un notevole ma scolastico epigono della grande tradizione novecentesca) le poesie di Pasolini sono, con pochissime e non decisive eccezioni, dei ragionamenti in versi, privi di un concreto e autonomo spessore figurale e di un'autentica immaginazione formale, dove la suggestione delle immagini e del ritmo, lungi dal risultare - come avviene in ogni vera poesia - consustanziale al senso e da esso inscindibile, dà spesso l'impressione d'essere "aggiunta" a scopo di abbellimento e persuasione.
Non mi sembra necessario estendere queste mie perplessità ai testi teatrali (che lo stesso Pasolini considerava, d'altronde, opere di poesia) e a quelli narrativi (la cui natura forzosa e dimostrativa è. a mio avviso, ancora più lampante). Farei un'eccezione solo per Petrolio, che non è un romanzo ma un saggio sull'impossibilità di scrivere un romanzo e che proprio per questo è molto più "poetico" degli altri. Perché lo strano destino di questo grande saggista, di grande scrittore, grande intellettuale e stato quello d'essere un poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filologia come nel cinema - in tutto, tranne che nella poesia.


“L'Espresso”, 22 ottobre 1995

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