10.9.14

Orazio, l'ironico poeta dell'Europa (Alessandro Schiesaro)

Con Virgilio, Orazio rappresenta davvero l'esempio principe del poeta «nelle mani e nel cuore di tutta l'Europa», come scrive Carlo Carena in apertura a questo prezioso «Millennio» (Orazio, Tutte le poesie, a cura di Paolo Fedeli, Trad. Carlo Carena, Einaudi, 2009).
Maestro di lirica e di satira, soprattutto di lirica, Orazio deve la sua fama a un'eccellenza stilistica in cui i lettori riconoscono subito una chiave di lettura del mondo. Tra gli ammiratori più recenti lo ha inteso forse meglio di tutti Auden, grande fautore della complessa strofa lirica oraziana (d'altronde: «Non riesco a capire, da un punto di vista strettamente edonistico, quale divertimento ci sia a scrivere senza nessuna forma. Per giocare servono regole, altrimenti non ci si diverte»), e insieme di quel tono distaccato e ironico, ma non cinico, che individua il destino dell'uomo nel «guardare / a questo mondo con un occhio lieto / ma da una prospettiva sobria» (The Horatians, 1968: uno splendido saggio in versi). «Occhio lieto» e «prospettiva sobria» condensano con fine pragmatismo una tradizione critica su Orazio che il poeta stesso contribuisce autorevolmente a instaurare. Un poeta sicuro dei suoi meriti e della sua fama, ma altrimenti scettico rispetto a «grands projets» radicati in impegnative ortodossie filosofiche o politiche. Epicureo quel che basta per concedersi qualche brivido di fatalismo, certo però non fino al punto di abbracciare un materialismo rigoroso; augusteo con misura, dopo gli ardori giovanili che lo avevano visto combattere a Filippi. Criticamente distaccato, "sobrio" fin quasi alla rassegnazione, polemico senza eccessi.
C'è molto di vero in questo ritratto (per molti versi, appunto, già un autoritratto) che propone una precisa tendenza di lettura a scapito di altre non meno plausibili. Privilegiarla rispondeva, nel secondo dopoguerra, a un bisogno insieme storico ed esistenziale: quello di smarcare Orazio dal rozzo uso pro domo che ne aveva fatto il regime offrendo invece un punto di riferimento ideale alla generazione che temeva l'eclissi, con la guerra, di quell'ideale «letteratura europea» impensabile senza la lirica oraziana. In Italia questo recupero del poeta passa soprattutto attraverso i primi lavori di un coetaneo illustre di Carlo Carena, Antonio La Penna, che già nel '49 proponeva di rivalutare, del corpus, soprattutto le Epistole, anzi di reinterpretare tutto Orazio proprio partendo da questi componimenti maturi in cui si legge soprattutto lo "scacco" subito rispetto agli ideali e le aspirazioni delle Odi.
Distacco, rinuncia, ironia non erano certo qualità messe in rilievo dalla celebrazione fascista del bimillenario oraziano, incastonato a metà decade, nel 1935, tra quello di Virgilio e quello di Augusto. Si preferiva piuttosto suggellare, come fece Ettore Romagnoli solenne in Campidoglio, il destino di Orazio vate civile, poeta eccelso sempre, nonostante qualche intemperanza nella produzione giovanile e i sintomi di pur nobile declino delle Epistole, ma mai come quando celebra l'eternità di Roma, del potere di Augusto, del dolce morire per la patria. Sul colle fatale non era evidentemente giunta l'eco di Wilfried Owen che alla retorica del sacrificio contrappone l'immagine di corpi martoriati e disfatti: se li vedessi «non diresti, amico mio, con tanto impeto / a fanciulli che ardono per un po' di gloria disperata / quella vecchia Menzogna; dulce et decorum est /pro patria mori».
La radicalizzazione del contrasto tra un Orazio roboante e uno intimista ha inevitabilmente finito per lasciare in ombra momenti della sua poesia che sfuggono a questo schema. Gli Epodi, per esempio, cui solo la critica degli ultimi anni ha ridato ampio spazio mettendone in risalto l'inventiva anche noir, una sensualità spesso inquieta, la raffinatezza metaletteraria; oppure l'Orazio dionisiaco, che mentre dichiara di non potere e non volere competere con Pindaro ne reinterpreta genialmente il tono sublime. Su tutti questi aspetti dell'opera oraziana informano ora con dovizia l'introduzione di Paolo Fedeli e le sue note.
A tutti Carena dedica la sua antica sapienza di traduttore, abilissimo nel rendere ogni inflessione e ogni sfumatura, anche nei registri aspri che forse meno lo attraggono. Il suo Orazio, infatti, è soprattutto l'Orazio delle Odi, non certo quello maldestramente espropriato a scopo celebratorio, ma il maestro della Weltliteratur nel cui nome Giorgio Pasquali, fresco di studi in Germania, celebrava ai primi del Novecento l'unità dello spirito europeo e anzi umano. Non a caso nell'antologia di dipinti, tutti compresi nel mezzo secolo a cavallo del 1800, che Carena sceglie a corredo del testo, trionfano «grandiosità poetica e plasticità», un alone di nostalgia preromantica che non ha ancora esplorato fino in fondo il lato oscuro delle rovine. La resa italiana sceglie giustamente di rispettare l'architettura formale delle odi e la campitura dei versi, ma senza artificio e senza retorica, ricorrendo a un lessico levigato quanto essenziale. È il frutto maturo di quella «intrinsichezza quotidiana, sino alla familiarità se non all'impossibile identificazione» con i grandi classici in cui risiede, per Carena, l'opera del traduttore. Anche il suo Orazio italiano avrà il destino dei classici.


“Il Sole 24 Ore Domenica”, 21 giugno 2009

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