26.9.14

Dopo Caporetto. Ferruccio Parri nella Grande Guerra (Daniela Pasti)

Ferruccio Parri
Quando al Comando Supremo cominciarono ad arrivare le notizie della rotta di Caporetto, il capitano Ferruccio Parri si trovava a Verona, presso lo stesso comando, dove istruiva duecento ufficiali scelti, in un corso di addestramento rapido. Aveva ventisette anni, la guerra gli aveva già procurato brutte ferite e un inizio di congelamento ai piedi guadagnato durante l'inverno del '15 sul fronte dell'Isonzo, oltre a tre medaglie d'argento; presto sarebbe diventato maggiore per meriti di guerra. Una piccola fotografia ingiallita lo mostra in quegli anni: in divisa da maggiore, completo di berretto, quattro striscioline attaccate alla manica della giacca per indicare altrettante ferite ricevute, gli occhi neri pensosi, le guance ancora paffute, i corti baffetti: un'aria più dolce che marziale, più da intellettuale che da soldato, malgrado la divisa.
«Alla notizia di quello che stava succedendo», racconta il senatore Parri, «ci spedirono tutti di gran corsa nei vari settori di combattimento, a me toccò la zona a nord di Treviso. Il fronte nella zona montana fra le Alpi Carniche e l'Isonzo era considerato strategicamente importante per raggiungere Trieste con una manovra di aggiramento; ma era un fronte difficilissimo da tenere per i nostri soldati, e Caporetto ne costituiva in qualche modo la cerniera. Caduta Caporetto, tutto il fronte fu travolto. Noi dovevamo cercare di arginare la fuga, ma si rivelò un'impresa disperata: per un raggio di centocinquanta chilometri tutto quello che era italiano si stava dando a un fuggi-fuggi generale. La linea di combattimento arretrò così precipitosamente, che ad un certo momento mi trovai a combattere sul Piave. Il morale degli uomini, soldati e comandanti, era distrutto, tanto che anche il Piave sembrava indifendibile. Lì, nonostante io fossi ufficiale di complemento, dovetti prendere il comando della zona, perché il comandante e il suo vice erano scomparsi. Così io tenni la parte bassa del fronte, mentre l'altra metà dello stesso fronte, più in alto, era comandata dal durissimo Lemaitre, lo stesso che poi mi ritrovai davanti in veste di accusatore quando nel '42 dovetti comparire di fronte al tribunale speciale. In quei giorni la maggior parte degli ufficiali era del parere che si dovesse abbandonare Venezia e ripiegare verso Padova ».
Parri rimane un istante pensieroso, a sessantanni di distanza il ricordo più vivido di quei giorni è rimasto quello di fughe disperate, di disperati tentativi di fermarle. «I soldati fuggivano con tutta l'ira accumulata in tre anni di guerra terribile, tre anni di sofferenze indescrivibili, e per loro, immotivate. Bisognava afferrarli per le braccia, per le spalle, cercare di trattenerli in tutti i modi».
Moltissimi furono i processi e molte le fucilazioni. Furono presi dai carabinieri anche due miei soldati», ricorda Parri. «Si fece il processo e io fui designato a difenderli. Uno dei due disse di essere scappato per andare a trovare la moglie che aveva appena avuto un bambino. Io li difesi a lungo con rabbia, mi sembrava impossibile non riuscire a convincere i giudici che quei due poveretti dovevano essere salvati, ma i giudici mi guardavano con occhi vuoti, assenti, mentre i soldati mi fissavano con disperazione».
Continua: «Visto dal fronte, e anche dal comando supremo, il difetto più grave di quella guerra non era tanto la mancanza di armi, quanto l'incapacità dell'esercito italiano di darsi un'organizzazione, la mancanza di coordinamento, gli ordini contraddittori, dovuti alle rivalità fra i comandanti e alla impreparazione dello Stato Maggiore. C'era stata molta leggerezza da parte del governo nel dichiarare l'entrata in guerra, e nei primi anni scontammo questa mancanza di preparazione. Cadorna aveva la sua parte di colpe, anche se aveva trovato un esercito in uno stato penoso di inefficienza».
Le cose sarebbero migliorate con l'arrivo di Diaz: trasferito al Comando Supremo nell'Ufficio Operazioni diretto dal colonnello Ugo Cavaliere, Parri partecipò alla preparazione dei piani per la battaglia di Vittorio Veneto. In un suo scritto pubblicato su “L'Astrolabio” racconterà di aver capito che questa cittadina sarebbe stata scelta come punto centrale dell'offensiva. Il giorno che Diaz entrò nella sua stanza, si avvicinò con altri ufficiali alla grande carta geografica appesa alla parete e esclamò con il suo accento napoletano : « Addò sta stu cazzo 'e Vittorio Veneto ».
Chiedo ora a Ferruccio Parri: «Lei, senatore, prima della guerra era stato un interventista convinto, cambiò parere poi, mentre si trovava in trincea? ».
«Bisogna capire in che cosa consistette l'interventismo che allora animò grandi masse di giovani. C'erano quelli che sentivano odore di polvere e di gloria, che erano ansiosi di misurarsi sui campi di battaglia, ma per molti di noi, me compreso, quella doveva essere una guerra combattuta per l'indipendenza dei popoli soggetti a Francesco Giuseppe. Eravamo pieni di fervore libertario, volevamo batterci per la sovranità di queste nazioni, molte delle quali amiche. Io sostenni questo punto di vista con i miei soldati, all'inizio della guerra, e ottenni la loro comprensione, anche se non l'approvazione. Poi capii che cosa era la guerra in generale, e cosa era la guerra per un popolo non preparato a farla».


“la Repubblica”, 22 ottobre 1977  

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