31.7.14

Natura Morta Politica. La Falce e martello di Warhol (Carlo Antonio Borghi)

Hammer and Sickle, “Martello e Falce”, così aveva intitolato il suo ritratto della classica Falce e Martello. Per lui veniva prima il Martello e poi la Falce, almeno nel titolo che in lingua inglese suonava meglio di “Sickle and Hammer”. In ogni caso, invertendo l’ordine dei fattori e dei lavoratori, il risultato non cambiava. Tutto il comunismo novecentesco racchiuso in una imago del mondo comunista. Andy, Drella per gli amici della Factory, aveva accolto l’icona comunista internazionalista nel suo repertorio pop mentre si trovava a Roma nel 1972. Quel primo esemplare diventò la matrice di una serie di Martelli e Falci, realizzate tra il 1972 e il 1976 e poi esposte alla Galleria Leo Castelli di New York nel 1977.
In quel tempo, dentro le urne italiane aperte piovevano valanghe di schede con croce apposta su quel simbolone iperrealista. Una sottile linea rossa separava il Pci dalla Dc che, di lì a poco, si sarebbe ritrovata con Aldo Moro stretto nella morsa terrorista e riconsegnato morto alla partitocrazia italiana. Per Warhol il martello dei carpentieri e la falce contadina erano una Natura Morta Politica. Non trascurò di mettere in risalto il nome della fabbrica produttrice di tali ferramenta. Le raffigurò con una tecnica che avrebbe evitato lo sbiadimento e la scoloritura. Intanto e invece, nella realtà della politica attiva, quel marchio di fabbrica ruralista e operaista cominciava a sfocare e sfumare.
Nel giro di pochi lustri querce e ulivi avrebbero preso il suo posto. A cancellarla definitivamente ci avrebbe pensato il capitalismo finanziario neoliberista. Drella morì due anni prima della caduta del muro di Berlino. La più bella e squillante delle Falci con Martello di Drella Warhol si trova al Moma: 1976 – vernice di polimeri sintetici e inchiostro serigrafico su tela 182,9X218,4 cm. La primigenia della serie si trova alla GNAM di Roma. Visitare per credere con matitona copiativa alla mano per tracciare una bella croce sopra l’opera, dopo aver umettato con la propria saliva la punta ben temperata. Ci fosse bisogno di una colonna sonora, si può buttare sul piatto Songs for Drella di Lou Reed e John Cale.


Alfabeta2, 22 marzo 2013

Falce e martello, simbolo o icona? Enzo Mari e Andy Warhol (Marco Belpoliti)

Enzo Mari, Falce e martello (1952)
Nel 1952 Enzo Mari ha dipinto una falce e martello. Si tratta di una piccola tela dove il simbolo, in rosso, si stacca su uno sfondo azzurro. Non assomiglia alla falce e martello dell'iconografia politica. I due strumenti di lavoro, che simboleggiano il mondo dei campi e delle officine, sono infatti riprodotti rovesciati: due sagome di legno inchiodate, o incollate, una sull'altra, viste da dietro, di schiena, issate su un lungo supporto, un manico, che li regge. L'idea è suggerita anche da due cartelli raffigurati di scorcio, nella parte bassa del quadro. L'immagine che ha ispirato questo quadro è un dettaglio degli affreschi di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi: una gotica croce dipinta vista da dietro, uno scheletro ligneo retto da un sostegno metallico. È un particolare della pittura murale che rivela una straordinaria modernità: sembra un'opera costruttivista alla Tatlin, alla Rodcenko. Nel quadro di Mari ci sono due direzioni dello sguardo: la falce e il martello attraversano la tela secondo una direttrice diagonale nella parte superiore del quadro, così che lo spazio appare organizzato secondo due dimensioni; nel contempo, se si osserva l'immagine partendo dal basso, lo spazio acquisisce una valenza tridimensionale. Anche nel dettaglio della pittura giottesca c'è un sottile gioco prospettico e al tempo stesso una valenza bidimensionale: nascita di un nuovo spazio.
Nel 1970 Mari ha dettato a una studentessa, che compiva un apprendistato nel suo studio di design, un'esercitazione: progettare un simbolo per una committenza alternativa. La scelta è caduta su falce e martello. In un grande foglio sono raccolte le immagini del simbolo comunista: dai volantini maoisti alle insegne delle sezioni, dai graffiti murali ai timbri inchiostrati, dalla tipografia delle tessere ai manifesti a stampa. Ogni simbolo è diverso dall'altro per spessore, disposizione, orientamento, dimensione, organizzazione spaziale. Sono 168 quadrati di pochi centimetri di lato, in bianco e nero. Il risultato del lavoro è una falce e martello disegnata in modo essenziale, secca ma amichevole, lineare ma arrotondata, un simbolo grafico in cui - come scrive Mari nel libretto che accompagna una cartella composta da una serigrafia, una bandiera e una litografia (Falce e martello, Edizioni O) - «la forma corrisponde alla funzione, dove funzione è da intendere, fra l'altro, come: riconoscibilità omogenea (cioè senza prevalenza di caratteristiche storico-formali) al fine di ampliare la durata del simbolo sia nel senso temporale che in quello della sua area di utilizzazione; facilità di riproduzione sia nel senso delle tecniche e dimensioni da impiegare che in quello di chi deve servirsi del simbolo».
Mari usa il termine «simbolo» per definire l'oggetto grafico (ma anche di design) ottenuto. Ma è
davvero un simbolo? Per i Greci il simbolo, symballo, è un oggetto di riconoscimento, possiede un valore materico: sono le due tessere spezzate - anelli, mani d'argento, terracotta - che si affidavano ai membri di una famiglia così che i loro discendenti potessero in futuro riconoscersi unendo le parti. Il significato è: «mettere insieme». Con il tempo il segno materiale è diventato astratto, si è trasformato in una figura retorica: bilancia per indicare giustizia, croce per cristianità, leone per coraggio. I simboli restano fissati nel tempo, oppure trasmigrano: sono resistenti e insieme volatili. Non si distruggono con facilità, continuano a significare al di là del loro oblio, o della loro manipolazione. La falce e il martello sono anche un'icona. Il termine ha compiuto un complesso cammino: da «immagine», eikon, dipinto su tavola di piccole dimensioni, usato a Bisanzio per rappresentare personaggi sacri, per traslazione ha iniziato a indicare tutto ciò che partecipa di una qualche sacralità. Da Cristo a Marilyn: Torquoise Marilyn dipinta da Andy Warhol (1964). L'icona è l'immagine visibile dell'Invisibile. Nella progressiva secolarizzazione del mondo la realtà divina è stata marxianamente sostituita dalla «religione della vita quotidiana» delle merci. L'icona non è un fine, ma un mezzo; è una finestra aperta fra terra e cielo, aperta nei due sensi, come affermano i testi bizantini e russi: il continuo passaggio dal mondo sensoriale a quello spirituale, e viceversa. Quando Warhol ha riprodotto le scatole Campbell negli anni sessanta, Mao negli anni settanta, l'icona ha fatto la sua ricomparsa nell'arte. Don Delillo ha scritto Mao II, ispirato alle serigrafi di Warhol, che l'aura non è scomparsa nella società postmoderna a causa della riproducibilità. La riproduzione ossessiva delle immagini finisce per renderle sacre, come ci insegnano la pubblicità e la moda: «L'aura si crea col passaggio dei flash dei fotografi, dei registratori. Non c'è che l'aura, che si sta sostituendo alla realtà» (De Lillo). Nel 1977 Warhol ha lavorato sul simbolo comunista: Hammer and Sickle, una serie di serigrafie riprodotte su tela, matite e acquerelli su carta. A volte la falce è vicina al martello, a volte lontana, a volte c'è una scarpetta femminile; in alcuni casi i due strumenti di lavoro si sovrappongono: si congiungono e si disgiungono, imitano liberamente il simbolo del comunismo. Si tratta di spostamenti progressivi del piacere; nelle matite, negli acquerelli, nelle serigrafie della serie si mima una copula non riuscita: il martello come fallo maschile, la falce come sinuoso corpo femminile. L'effetto icona di Marilyn e di Mao qui non c'è. Forse non si tratta neppure di un simbolo: la falce e il martello hanno resistito alla commercializzazione auratica di Warhol.

Secondo Peirce, inventore della semiotica moderna, il «simbolo» istituisce un rapporto arbitrario, convenzionale, con la realtà denotata: la rosa rossa quale simbolo dell'amore. L'«icona», invece, ha un rapporto motivato dalla somiglianza, come un suono onomatopeico che in una poesia evoca il rumore del cavallo. La falce e martello realizzata nel 1970 da Mari è un'icona, partecipa di una sacralità. Le icone sono più difficili da distruggere. Appartengono a una sfera che supera la stessa realtà delle apparenze. La si può chiamare sogno, fantasia, immaginazione: il sogno della merce, ma anche il sogno del comunismo, il bisogno di comunismo. Hammer and Sickle. il visibile come forma per approssimare l'invisibile.

alias - il manifesto, 19 febbraio 2005

Compagna lambrusca, compagno lambrusco. Vino e libertà (Luigi Veronelli)


Massenzatico (Reggio Emilia), sul finire di ottobre 2004, organizzato dagli anarchici  si svolse tra la casa del popolo e il teatro artigiano un grande incontro gastronomico culturale a buon mercato, sul tema Le cucine del popolo. La rivoluzione a tavola. 
Luigi Veronelli svolse vi l'accorato intervento che segue, ripreso dal numero 304 (dicembre 2004) di "A - Rivista Anarchica"
Voglio spiegare al mondo perché il Lambrusco è l’unico vino di libertà.
Lo spiego io, perché io li ho conosciuti bene: Libero e Libera, Spartaco, Lenin, Emma detta la Rossa, Solidea e Solidario, Comunardo, Rivoluzio. Tutti battezzati con il Lambrusco.
Nelle case del popolo, costruite in faccia alle chiese, frizzante e rosso il sugo nelle uve reggiane e modenesi colava sulle fronti di quei bambini, figli di socialisti e anarchici, per aspersorio un cucchiaino: “Io ti battezzo Libertà”.
Sgocciolavano su quei destini nomi forti, densi, carichi, non mitologici: Reclus, Eliseo, Jenner, Luisa, Giordano Bruno, Juarés. Nomi che sei già grande appena nato. “Io ti battezzo Eguaglianza”.
Il fascismo ne fece strage, bestiale, anche all’anagrafe: di Comunardo restò solo Nardo.
Erano gocce di un prodotto vivo, profumato di terra, effervescente, rosso, nero in bottiglia. L’acqua stagnante dei battesimali, ferma, stantìa, al confronto sbiadiva. In quelle chiese piccole e innalzate al cielo si pensava ad altrove, il naso per aria. Noi nelle case del popolo tenevamo i piedi per terra e le facevamo più larghe e basse che potevamo, perché più ampie erano, più donne e uomini potevano contenere, a cercare qui, il loro paradiso proletario.
Esiste dalla notte dei tempi, il Lambrusco, da Romolo e Remo. Vitigni selvatici, ribelli, incontrollati. Non facili da governare, da trattare con rispetto. È Lambrusco, ma anche Lambrusca, e questo piaceva a noi donne anarchiche di Santa Croce, con la lavalliére al collo in segno di emancipazione.
I vecchi anarchici lo ricordavano con orgoglio: “Mé sun stèe batzèe cun al Lambròsc”. Trovate un altro vino al mondo così. E che sappia innaffiare i tortelli e i cappelletti antifascisti così bene, che ti alzi da tavola con la voglia di cantare. Cercate pure, io brindo con voi a Lambrusco.

30.7.14

Per Franco Costabile, suicida. Una poesia di Giorgio Caproni

Giorgio Caproni
Si muore d’asfissia,
è noto, per difetto
d’ossigeno. Lo si può anche,
e forse più dolorosamente,
per mancanza d’affetto.

da Res amissa, 1991

Non è più dato. Una poesia di Milo De Angelis

Milano, Palazzetta di Via Crescenzago. Foto di Roberto Bisigalli
Non è più dato. Il pianto che si trasformava
in un ridere impazzito, le notti passate
correndo in Via Crescenzago, inseguendo il neon
di un’edicola. Non è più dato. Non è più nostro
il batticuore di aspettare mezzanotte, aspettarla
finché mezzanotte entra nel suo vero tumulto,
nella frenesia di tutte le ore, di tutte le ore.
Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola
la morte, poche le ossessioni, poche
le notti d’amore, pochi i baci, poche le strade 
che portano fuori di noi, poche le poesie.

da Tema dell'addio, 2005, Mondadori

29.7.14

Dentro de mí (Elias Nandino, Mexico1900-1993)

Roberto Montenegro, Ritratto di Elias Nandino
Con los ojos
altamente asomados a la noche
contemplo las estrellas
y, dentro de mí,
en el río incansable de mi sangre,
las siento y las descubro
reflejadas,
luminosas y hondas,
como si mi entraña fuera
el mismo cielo
en donde están ardiendo.

Dentro di me
Con gli occhi
in alto affacciati alla notte
contemplo le stelle
e, dentro di me,
nel fiume instancabile del mio sangue,
le sento e le scopro
riflesse,
luminose e profonde,
come se la mia anima fosse
lo stesso cielo
nel quale stanno ardendo.

(da Eternidad del polvo, 1970)

Perugia. Una restaurazione? (S.L.L. - micropolis luglio 2014)

Perugia, La porta del Palazzo dei Priori, sede del Comune
Il ballottaggio delle comunali di Perugia e il “ribaltone” che ne è derivato sono stati da subito oggetto di esagerazioni mediatiche. Si è così letta e ascoltata la tiritera di un potere “rosso” che durava, ininterrotto e impermeabile, da settant'anni finalmente abbattuto; e non ci è stata risparmiata neanche la sciatta similitudine con la caduta del muro di Berlino. Qualcuno poi si è premurato di rammentare agli smemorati che questo potere aveva conosciuto una interruzione tra il 1964 e il 1970, anni della alleanza tra Dc e Psi chiamata “centro-sinistra” che teneva all'opposizione il forte partito comunista. C'è di più: in questa città territorialmente estesa e in molti sensi policentrica non c'è mai stato né poteva esserci il potere occhiuto e totalizzante di cui si è favoleggiato: l'amministrazione del Comune è sempre stata frutto di compromessi tra ceti, gruppi sociali, centri di potere.
In verità a Perugia, nonostante il grande seguito e la forza elettorale comunista, funzionò per tutto il periodo della cosiddetta Prima Repubblica una conventio ad excludendum per cui il Pci, pur avendo un peso determinante nella pubblica amministrazione, non esprimeva il sindaco. Quel ruolo spettava a un socialista, più spesso proveniente dalle professioni liberali che dal funzionariato politico, generalmente espressione della borghesia urbana di tradizione laico-massonica, ma in grado di garantire anche la parte di tradizione papalina, moderata o conservatrice. Tra i due settori dei ceti dominanti, un mondo piuttosto esclusivo, non c'erano mai state “grandi muraglie”. La Dc, dal canto suo, anche se all'opposizione, non era affatto esclusa dal potere locale, grazie al sostegno del governo nazionale: le banche, le due università, i consorzi agrari, il provveditorato agli studi per esempio erano nella sua orbita di influenza. Questo sistema trovò l'apogeo negli anni Settanta, quando – sulla spinta delle intese romane – fiorirono anche a Perugia accordi programmatici e lottizzazioni degli incarichi.
Va aggiunto che l'esclusione del Pci dal governo cittadino negli anni Sessanta non era stata conseguenza meccanica di scelte nazionali. Fino ad allora la base sociale del Pci, il mondo della mezzadria, il proletariato e il popolino urbano, si era contentato delle grandi opzioni ideali e di una amministrazione attenta ai bisogni delle classi subalterne, ma negli anni del “boom economico” questo non bastava più. Insomma c'era stato un ritardo nel leggere le trasformazioni del neocapitalismo, la scomposizione-ricomposizione tra classi e ceti, il mutato rapporto tra città e campagna, il ruolo che veniva assumendo la città nella costituenda Regione.
La presa di coscienza fu contestuale ai cambiamenti nel gruppo dirigente e nel quadro attivo del partito. Non mancavano in esso figure che erano diretta espressione del blocco sociale di riferimento, ma avevano ruolo e peso soprattutto alcuni “trasfughi” della borghesia urbana, politicizzatisi a sinistra nel corso della Resistenza o nell'immediato dopoguerra; sul finire degli anni Sessanta, sulla spinta dei movimenti sociali, di operai e studenti soprattutto, funzionò uno dei tipici “rinnovamenti nella continuità” del Pci togliattiano. Così nelle liste comunali e regionali del 1970 come negli organismi del partito e della Cgil venivano valorizzate, seppure con cautela, persone che venivano dalla fabbrica o dal mondo giovanile, mentre cresceva, seppure lentamente, l'influenza nelle sezioni dei gruppi che la disgregazione del mondo contadino produceva: non solo i famosi “metalmezzadri” ma anche i “mezzadri piccoli imprenditori”. Di sicuro questo favorì la riconquista del Comune. Ma più ancora pesò in quell'occasione e successivamente il rinnovamento programmatico. Mandarini ha ragione, quando sul “manifesto” riconosce a quella sinistra il merito di aver elaborato un'idea della città nella nuova Regione: grandi eventi da una parte, diffusione di servizi e centri di aggregazione nelle periferie e nelle frazioni furono due facce di quell'idea. Ma nella costruzione del consenso ancora di più pesò la scelta partecipativa: i comitati di quartieri prima, e poi la loro istituzionalizzazione nelle Circoscrizioni ne furono l'asse, lo strumento attraverso cui gruppi di cittadini riuscivano ad incidere sulle scelte che riguardavano la loro vita. E' vero che la selezione dei dirigenti nel territorio seguiva il criterio della cooptazione paternalistica tipico del Pci, come è vero che le reti partecipative tendevano a degenerare in reti clientelari, ma i passaggi elettorali come la pratica delle periodiche assemblee rendevano in ogni caso inevitabile il confronto del vertice con la base e il coinvolgimento della base nelle scelte.
E' in questa fase (anni Settanta – Ottanta) che la chiusa (e talora ottusa) borghesia proprietaria e professionale subisce alcuni scacchi vissuti come umiliazioni. Da una parte la nascita della Regione, lo sviluppo economico, urbanistico e turistico della città, l'ampliarsi delle Università determinano un allargamento della classe dirigente ristretta: grandi professionisti, professori universitari, banchieri, alti burocrati, grandi imprenditori non possono essere più espressione di una chiusa oligarchia impregnata di peruginità, ma i ranghi devono essere rafforzati con persone che vengono da fuori delle antiche mura, dalle frazioni, da altri centri della regione, da fuori regione. I signori della vecchia Perugia prima resistono, poi accettano e integrano i nuovi, anche nelle organizzazioni “riservate”. Mal sopportano invece che al Palazzo dei Priori contino sempre di più persone che vengono dalle periferie e dalle frazioni e che l'organizzazione “circoscrizionale” faccia spesso prevalere le esigenze del contado.
La crisi dell'89 travolge il vecchio sistema politico: lo scioglimento del Pci e la legge sull'elezione diretta del sindaco che spoglia di molti poteri i Consigli Comunali a vantaggio dell'esecutivo cambiano il quadro. Nel 1995 il Pds non impone un proprio candidato sindaco alla nascente coalizione del centro-sinistra bipolare: sceglie un professore universitario cattolico di sinistra vicino alla Curia, visto che l'area socialista, screditata da Tangentopoli, si è dissolta; mutatis mutandis Maddoli ha la stessa funzione di rassicurazione che avevano fino ad allora i sindaci socialisti. Solo con Locchi, da sempre legato alle frazioni, si elegge un sindaco postcomunista. Dai Ponti proviene il suo successore Boccali, il cui impegno nel Pci risale alla prima giovinezza, agli anni 80, nel movimento studentesco e nella Fgci. La sua sindacatura completa il processo di ascesa di un ceto politico che proviene dal mondo mezzadrile e operaio, ma che è ormai del tutto snaturato. Non so se Locchi e Boccali si possano considerare eredi del Pci; di certo hanno beneficiato di quella eredità, ma, insieme a tutto il resto del gruppo dirigente, l'hanno dilapidata.
Come giornale ci è spesso accaduto di denunciare le magagne del sistema di potere impiantato a Perugia del Pds-Ds-Pd che aveva il suo cuore pulsante nei costruttori e non abbiamo mai taciuto il limite di fondo: la mancanza di una idea della città, mancanza che obbligava a galleggiare su questa o su quella ipotesi di grande opera o trovata propagandistica; forse non abbiamo riflettuto abbastanza sulla crisi verticale della partecipazione. L'ideologia dell'uomo solo al comando, la concezione mediatica del consenso, hanno fatto ritenere prima ai diessini e poi ai piddini che l'abolizione legislativa delle circoscrizioni non fosse una iattura, quanto un'occasione. Piuttosto che pensare a come sostituirle efficacemente, hanno pensato di fare a meno del rapporto con la base elettorale e affidato la cura dei rapporti con periferie e frazioni a consiglieri comunali più o meno formalmente delegati a gestire la rete clientelare. Il clientelismo, peraltro, in tempi di vacche magre per le finanze locali, ha funzionato sempre meno e il malcontento è diventato generale, anche e soprattutto nelle zone rosse.
Da mesi prima dalle fatidiche elezioni si parlava del “modello Parma”, si diceva: se Boccali non ce la fa al primo turno, rischia moltissimo. I più pensavano che al ballottaggio non arrivasse la destra ancora legata Berlusconi, ma il candidato grillino. Non è andata così. Nonostante il ridicolo l'11 per cento di Forza Italia e poco più del 20% delle liste coalizzate, la destra, senza alcun merito proprio e solo per i demeriti altrui, ha fatto tombola puntando su un candidato giovane, bene educato e ai più sconosciuto. Romizi è andato con appena 22 mila voti (il 26 %) al secondo turno, nel quale – nonostante il forte calo dei votanti – è passato a 35 mila voti (e al 58 %). Per vincere si è giovato anche dell'apporto di alcune liste civiche come quelle di Barelli e quella di Dramane, utilissime a coprirlo a sinistra, ma anche di un travaso diretto da Boccali che passava da 39 mila a 25 mila voti. Si racconta di giovani che nelle periferie e nel contado, ai Ponti per esempio, persuadevano genitori e nonni a un voto di liberazione e di rinnovamento.
Così da Wladimiro Boccali si passa ad Andrea Romizi.
A volte anche i nomi e cognomi sono eloquenti; e alle famiglie dell'antica oligarchia di cui il nuovo sindaco è rampollo non è sembrato vero. Ricacciati i Wladimiri nelle campagne donde sono venuti sognano il ritorno della egemonia dei ceti professionali e proprietari sull'intero territorio cittadino. La nomina della Giunta con dentro tanta “società civile” dà conferma di siffatti progetti. Non ci sono grandi cambiamenti da fare nella politica: le scelte delle ultime amministrazioni cosiddette di sinistra avevano spesso un segno di destra (penso all'esternalizzazione di attività fondamentali, o all'affidamento ad associazioni private di compiti di assistenza). Un'ipotesi egemonica può peraltro trovare il sostegno delle organizzazioni cattoliche, felici di gestire il passaggio dall'assistenza alla carità, e l'appoggio delle corporazioni, dai medici agli architetti, dai banchieri ai commercianti, per non dire dei notai. In prima linea gli avvocati, incluso quel nocciolo duro di penalisti, la cui potenza è aumentata in parallelo con la criminale economia della droga: difendere e far liberare trafficanti e spacciatori può essere un grande affare.
Ce la faranno? Riuscirà questo progetto di durevole egemonia o Perugia diventerà un Comune contendibile a ogni elezione? Le ambizioni sono alte, ma gli ostacoli molti. In ogni caso il blocco della sinistra è ormai scomposto e disfatto e una sua ricostruzione richiede, oltre che tempo, una capacità di analisi e di ideazione che al momento non si vede. Potrebbe tutt'al più risorgere un Pd perugino più leggero e meno radicato, come coalizione di interessi distinta e diversa da quella di Romizi, ma con scarsi rapporti con la sinistra, con i suoi soggetti sociali, storici o potenziali, con i suoi valori.


P.S. Aggiungo, a mo' di vaticinio, una battutaccia sulla cementificazione. Forse Romizi guarderà a gruppi di costruttori diversi che in passato, ingegneri o architetti piuttosto che ex muratori, ma nella sostanza non cambierà nulla. Nonostante Barelli.  

L'olocausto di Gaza e l'impunità israeliana (Eduardo Galeano)

L'articolo che segue apparve come editoriale sul “manifesto” del 15 gennaio 2009. Sembra scritto oggi. Temo che questa sua attualità durerà pochi anni ancora, quando la “soluzione finale”, cioè la cacciata dei palestinesi da quel pezzo di terra si realizzerà. Intanto bisogna dire grazie a Galeano. Non ce ne sono più tra noi scrittori che abbiano tanto respiro, tanto senso della verità e della giustizia. (S.L.L.)

Per giustificarsi, il terrorismo di stato fabbrica terroristi: semina odio e raccoglie pretesti. Tutto indica che questa macelleria di Gaza, che secondo gli autori vuole sconfiggere i terroristi, riuscirà a moltiplicarli.
Dal 1948 i palestinesi vivono una condanna all'umiliazione perpetua. Senza permesso non possono nemmeno respirare. Hanno perso la loro patria, la loro terra, l'acqua, la libertà, tutto. Non hanno nemmeno il diritto di eleggere i propri governanti. Quando votano chi non devono, vengono castigati. Gaza viene castigata. Si è trasformata in una trappola per topi senza uscita da quando Hamas vinse limpidamente le elezioni nell'anno 2006. Qualcosa di simile era accaduto nel 1932, quando il Partito Comunista aveva trionfato nelle elezioni in Salvador. Inzuppati nel sangue, i salvadoregni espiarono la loro cattiva condotta e da allora vivono sottomessi a dittature militari. La democrazia è un lusso che non tutti meritano.
Sono figli dell'impotenza i razzi caserecci che i militanti di Hamas, rinchiusi a Gaza, sparano con mira pasticciona sopra le terre che erano state palestinesi e che l'occupazione israeliana ha usurpato. E la disperazione, al limite della pazzia suicida, è la madre delle spacconate che negano il diritto all'esistenza di Israele, urla senza alcuna efficacia, mentre una molto efficace guerra di sterminio sta negando, da anni, il diritto all'esistenza della Palestina.
Già non ne resta molta, di Palestina. Passo dopo passo Israele la sta cancellando dalla mappa. I coloni invadono, e dietro di loro i soldati modificano la frontiera. I proiettili sacralizzano il furto, in legittima difesa.
Non c'è guerra aggressiva che non dica d'essere guerra difensiva. Hitler invase la Polonia per evitare che la Polonia invadesse la Germania. Bush invase l'Iraq per evitare che l'Iraq invadesse il mondo. In ognuna delle sue guerre difensive Israele ha inghiottito un altro pezzo di Palestina, e il pasto continua. Il divorare si giustifica con i titoli di proprietà che la Bibbia ha assegnato, per i duemila anni di persecuzioni che il popolo ebreo ha sofferto, e per il panico causato dai palestinesi che hanno davanti.
Israele è il paese che non adempie mai alle raccomandazioni e nemmeno alle risoluzioni delle Nazioni unite, che non si adegua mai alle sentenze dei tribunali internazionali, che si fa beffe delle leggi internazionali, ed è anche il solo paese che ha legalizzato la tortura dei prigionieri.
Chi gli ha regalato il diritto di negare tutti i diritti? Da dove viene l'impunità con cui Israele sta eseguendo la mattanza di Gaza? Il governo spagnolo non avrebbe potuto bombardare impunemente il Paese Basco per sconfiggere l'Eta, né il governo britannico avrebbe potuto radere al suolo l'Irlanda per liquidare l'Ira. Forse la tragedia dell'Olocausto comprende una polizza di impunità eterna? O quella luce verde proviene dalla potenza più potente, che ha in Israele il più incondizionato dei suoi vassalli?
L'esercito israeliano, il più moderno e sofisticato del mondo, sa chi uccide. Non uccide per errore. Uccide per orrore. Le vittime civili si chiamano danni collaterali, secondo il dizionario di altre guerre imperiali. A Gaza, su ogni dieci danni collaterali tre sono bambini. E sono migliaia i mutilati, vittime della tecnologia dello squartamento umano che l'industria militare sta saggiando con successo in questa operazione di pulizia etnica.
E come sempre, è sempre lo stesso: a Gaza, cento a uno. Per ogni cento palestinesi morti, un israeliano.
Gente pericolosa, avverte l'altro bombardamento, quello a carico dei mezzi di manipolazione di massa, che ci invitano a credere che una vita israeliana vale quanto cento vite palestinesi. Questi media ci invitano a credere che sono umanitarie anche le duecento bombe atomiche di Israele, e che una potenza nucleare chiamata Iran è stata quella che ha annichilito Hiroshima e Nagasaki.
È la cosiddetta comunità internazionale, ma esiste?
È qualcosa di più di un club di mercanti, banchieri e guerrieri? È qualcosa di più di un nome d'arte che gli Stati uniti si mettono quando fanno teatro?
Davanti alla tragedia di Gaza l'ipocrisia mondiale brilla una volta di più. Come sempre l'indifferenza, i discorsi inutili, le dichiarazioni vuote, le declamazioni altisonanti, i comportamenti ambigui rendono omaggio alla sacra impunità.
Davanti alla tragedia di Gaza i paesi arabi si lavano le mani. Come sempre. E come sempre i paesi europei se le fregano.
La vecchia Europa, tanto capace di bellezza e di perversione, sparge una lacrima o due mentre segretamente celebra questo colpo maestro. Perché la caccia agli ebrei è sempre stata un'abitudine europea, ma da mezzo secolo questo debito storico viene fatto pagare ai palestinesi, che pure sono semiti e non sono mai stati, e non sono, antisemiti. Essi stanno pagando, in sangue contante e sonante, un conto altrui.
(Questo articolo è dedicato ai miei amici ebrei assassinati dalle dittature latinoamericane sostenute da Israele)

il manifesto 15 gennaio 2009

Religioni. Il culto giapponese del monte Fuji (Rossella Menegazzo)

Hokusai - una immagine del monte Fuji 
Il Monte Fuji, il vulcano dalla forma conica perfetta e dai declivi simmetrici, la montagna più alta del Giappone con i suoi 3.776 metri, il simbolo per antonomasia del Sol Levante, è stato riconosciuto patrimonio universale culturale dall’Unesco durante il 37/mo meeting tenutosi in Cambogia, a Phnom Penh, lo scorso 22 giugno.
La notizia ha ovviamente riempito i notiziari e gli speciali di tutte le tv giapponesi, oltre alle pagine dei giornali: prima con la frenesia e l’aspettativa dei giorni di attesa del verdetto e le elucubrazioni divertite su chi fosse stata la persona che per prima ebbe l’idea di presentare la richiesta all’Unesco; poi, dopo la conferma, con le lacrime di commozione, di orgoglio e di gioia miste alle parole di preoccupazione per il futuro della montagna - che sarà ancora più presa di mira dal turismo internazionale – espresse dalle autorità locali e, in particolare, dagli abitanti delle province limitrofe di Shizuoka e Yamanashi, peraltro firmatarie della domanda presentata nel 2007.
Qualcuno si chiederà, trattandosi di un vulcano, perché non sia stato attribuito un riconoscimento come sito naturale. In realtà, tale richiesta venne presentata in passato, ma fu scartata nel 2003 non avendo il paesaggio mantenute le sue caratteristiche di integrità come zona vulcanica naturale. Invece, la sua rilevanza è stata provata piuttosto a livello culturale con la dicitura: «Monte Fuji: oggetto di culto e sorgente di arte».
L’area riconosciuta protetta comprende la vetta, perennemente imbiancata nell’immaginario collettivo alimentato da secoli di letteratura e immagini pittoriche, i sentieri che risalgono lungo i pendii e le particolari conformazioni naturali che vi si trovano: le cascate Shiraito, i cinque laghi principali, le sorgenti termali ma anche cumuli di lava (l’ultima eruzione risale a trecento ani fa) e il bosco di pini Miho no Matsubara, oltre ai siti religiosi come i due più importanti santuari shintoisti che rappresentano le porte di accesso al monte per i pellegrini: il Fujisan Hongu Sengen Jinja a Fujinomiya e il Kitaguchi Hongu Fuji Sengen Jinja a Fujiyoshida, e i luoghi di ricovero e alloggio storici.
Tutto il complesso è oggi testimonianza della venerazione religiosa verso questa montagna che supera ogni culto accomunando la «via degli Dei» (shinto), di cui il Fuji è simbolo assoluto, al pensiero buddhista, che vede nella sua vetta e nei boschi sottostanti luoghi ideali di meditazione e ascesi. Per i giapponesi è il Fujisan, non semplicemente il Fuji o il monte Fuji, al quale ci si rivolge con la reverenza e il rispetto dovuti a una vera e propria divinità. Sì, perché se tante sono le montagne considerate sacre nel mondo in quanto luoghi che ospitano il divino, è solo il Fuji a essere esso stesso divinità. E difatti in epoca Edo, a partire dal Seicento sotto lo shogunato Tokugawa (1603-1868), si sviluppò un movimento di culto detto «Fujiko» con gruppi di pellegrini che scalavano il Monte sacro come segno di devozione.
Lo stesso culto confermò anche la divinità principale del Fuji, venerata nei santuari presenti sul monte e negli altari di famiglia. Si tratta della Dea Konohana Sakuyahime, di cui raccontano le prime cronache sulla mitologia delle origini dell’arcipelago dell’VIII secolo (Kojiki); una divinità associata al fuoco e forse per questo successivamente anche al Fuji, a cui la città di Fujiyoshida dedica ogni anno il 26 agosto la «cerimonia del fuoco» accendendo torce in suo onore e chiudendo la stagione di scalata del Fuji.
Non si contano i versi poetici e i racconti dedicati al vulcano, così come sono tantissime le immagini pittoriche che lo immortalano da ogni punto di vista e da ogni provincia del Giappone e, ancora oggi, nelle giornate più limpide si può scorgere quasi per magia la sua sagoma tra i grattacieli di Tokyo, da un finestrino del treno in qualche punto sopraelevato, o tra i fili della luce mentre sfreccia lo shinkansen verso Kyoto su quella che era la via del Tokaido, l’arteria principale percorsa a piedi, con portantine e cavalli e che univa la capitale imperiale (Kyoto) a quella amministrativa, sede dello shogun dal 1603, allora chiamata Edo e oggi Tokyo. Fu proprio questa l’epoca in cui fiorì maggiormente un mercato delle immagini souvenir e il soggetto del Fuji si confermò come best-seller, parallelamente ai ritratti di bellissime cortigiane e famosi attori di teatro kabuki. Accanto a grandi paraventi decorativi, dipinti con paesaggi di erbe e fiori selvatici a perdita d’occhio su cui svettava il Fuji, destinati a grandi abitazioni e ricchi committenti, nacque una produzione più popolare ed economica di immagini silografiche di piccolo formato, destinate a soddisfare la sempre più ampia richiesta di viaggiatori, pellegrini e cittadini che con bastone, cappello e stola di paglia si recavano alla montagna sacra. Sono le già note immagini del «Mondo Fluttuante» che serie dopo serie, edizione dopo edizione, affermavano e confermavano le località celebri di un Giappone premodermo, i luoghi culto che i cittadini alla moda non potevano perdere, oltre che le tendenze del momento.
Nessuno dei grandi maestri dell’ukiyoe poté esimersi dal proporre serie interamente dedicate al Fuji, che ebbero tale successo da essere rimpinzate dagli editori in corso d’opera. Per cui la famosa serie delle Trentasei vedute del Monte Fuji, realizzata da Katsushika Hokusai tra il 1830 e il 1832, è in realtà composta di 46 stampe. Mentre, allo stesso soggetto, sempre Hokusai dedicò anche due volumi di Cento vedute del monte Fuji (1834-5 e 1849 ca.) con immagini monocrome a inchiostro. Hiroshige, l’altro grande paesaggista dell’ukiyoe, creò a sua volta due serie intitolate Trentasei vedute del Fuji: una nel 1852 con immagini orizzontali e una nel 1858 invece in verticale. Seppur con qualità diverse - Hokusai più interessato all’aspetto umano e alla vita quotidiana che si svolge in primo piano rispetto al monte Fuji, Hiroshige invece più sensibile alla natura e al paesaggio come
espressione del divino dove la presenza umana passa in secondo piano - tutte queste immagini hanno come fulcro il vulcano, che si erge a protezione di tutto ciò che avviene ai suoi piedi. Traspare il senso religioso verso la natura in generale e verso il Fujisan che ne è simbolo sublime: le immagini venivano acquistate non solo da chi volesse portarsi a casa un ricordo dei luoghi visitati, ma piuttosto da quella fetta di popolazione che non poteva permettersi di viaggiare realmente e lo faceva con l’immaginazione.
Nella seconda metà dell’Ottocento questo ruolo fu a poco a poco assorbito dai primi fotografi professionisti che a quelle opere si ispirarono, prolungandone l’immaginario legato ai luoghi già celebri col nuovo mezzo e l’aggiunta del colore a mano. In epoca moderna spetta alla cartolina questo compito, oggi per i più tecnologici, esistono le immagini postate sui vari social network.
E se il pellegrino non va al Fuji, allora è il Fuji che va dal pellegrino. Un detto che vale anche in Giappone dove proprio nello stesso periodo Edo, sempre per venire incontro ai cittadini delle province più lontane, ai meno abbienti, ai più sedentari o a quanti per motivi di salute o vecchiaia non potevano affrontare il pellegrinaggio e la scalata al Fuji, si cominciarono a erigere dei «Piccoli Fuji» (Kofuji) dentro i recinti di santuari locali nei piccoli villaggi. Si portavano le pietre del Fuji e le si ammucchiava a risemblare la forma della montagna, ma con un’altezza che si aggirava intorno ai 5 metri, scalabile a piccoli passi e in pochi secondi. Sulla cima veniva collocato un santuarietto, simbolo della presenza divina a cui si rivolgevano in preghiera i fedeli al termine della salita.
Ancora oggi esistono «Piccoli Fuji» sparsi in tutte le regioni del Giappone e i fedeli vi si recano in pellegrinaggio: una sorta di processione in miniatura per ammirare virtualmente la bellezza del Fujisan. Per chi si trovasse a Tokyo, privo di tempo e di fiato, vi è un «Piccolo Fuji» costruito nel 1790 presso il santuario Teppozu Inaribashi Minato Jinja, nella zona di Hacchobori, divenuto famoso e rappresentato nella serie di Cento vedute di luoghi celebri di Edo (1856-58) di Hiroshige; per i più fedeli, invece, meglio un viaggio verso l’originale che oramai, grazie a shinkansen e autobus autostradali che regolarmente collegano la metropoli alle pendici del monte a prezzi modici, e al fatto che con l’auto si possa raggiungere la quinta stazione a duemila metri, risulta quanto di più facile si possa pensare. Il panorama vale la gita, come voto forse vale un po’ meno.


“il manifesto”, 23 luglio 2014

28.7.14

Il papa cattolico alla mensa (S.L.L)

Il capo dei cattolici Bergoglio alla mensa dei dipendenti del Vaticano
Vedo su facebook molti, anche compagni, ammirati di fronte al fatto che il capo della chiesa cattolica, Bergoglio, che i suoi seguaci ritengono "vicario" di Gesù Cristo in terra, non arriva a farne le veci sulla croce, ma almeno, di quando in quando, mangia con gli operai in mensa o gioca a carte coi vecchietti in osteria. Questi comportamenti "normali", come quello di pagare il conto in albergo, avvengono sistematicamente davanti a fotografi e telecamere, immagino per dare il buon esempio alla "preteria" e non per propaganda. Rientrano appunto nell'imitazione che il "vice" fa del suo capo, il Cristo, spiritualmente alla testa della Chiesa. Questi, vero Dio, si umiliò fino a farsi uomo per trentatré anni (spiccioli al confronto con l'eternità), Bergoglio si fa operaio per un'oretta.
L'ammirazione popolare nei confronti del capo argentino della superstizione cattolica nasce probabilmente da un confronto dei suoi comportamenti con il lusso che caratterizza gli ambienti vaticani e con le enormi ricchezze che la gerarchia sacerdotale cattolica ha accumulato o di cui dispone in chiese, diocesi, conventi, monasteri, terreni, ospedali, alberghi, edifici vari, opere d'arte, ori, preziosi, preziosi, otto per mille a palate. Gli altri dignitari, vescovi e cardinali, di rado si comportano così (ma Paglia alla mensa della Terni qualche volta ci andò e una volta mangiò coi carcerati). E si fa anche il paragone con i politicanti d'oggi, che spesso ostentano la propria "divinità", la propria superiorità di fronte alla gente comune. Qualcuno tra i più vecchi lo paragona alla "buonanima" del Duce che anche lui... : "Mussolini faceva così, lui, il figlio del fabbro, mangiava alla mensa con le maestranze Fiat e a torso nudo mieteva tra i rurali nella battaglia del grano". Come in quei viaggi una volta nella vita.
Così, tanto per aggiungere un tocco di memoria personale, ricordo che - quando c'era il Pci - i dirigenti più importanti, Ingrao ch'era presidente della Camera o Berlinguer ch'era segretario del Partito, e tanti altri con cariche pubbliche di rilievo, mangiavano con il vassoio nelle mense con gli operai dell'Anic o della Perugina, o sotto i capannoni delle feste dell'Unità tra i volontari, quasi tutta gente che non chiedeva nulla per sé. Tutto ciò senza tante scene, spesso senza fotografi o operatori, come cosa assolutamente normale, per nulla eccezionale. Anche lì c'era una certa dose di finzione, ma non c'era nessuna umiltà in quel comportamento, nessuno scendere dall'alto dei cieli, valeva a sottolineare che quello era un partito operaio, che dal movimento operaio e popolare traeva la sua forza e lo rammentava con quei riti, tutt'altro che rari, anche ai suoi massimi dirigenti. Poi alla sinistra di classe si sostituì la sinistra di lusso. Ma questo è un altro discorso...


stato di fb, 28 luglio 2014

Amicizia ( Eduardo Galeano)

Eduardo Galeano
Diceva Carlos Fonseca Amador che l'amico è colui che critica in faccia ed elogia di nascosto.
E l'esperienza dice che l'amico vero è amico delle quattro stagioni. Gli altri sono solo amici estivi.

Da I figli dei giorni, Sperling & Kupfer, 2012

La poesia del lunedì. Attila Jozsef (Budapest, 1905 – Balatonszárszó, 1937)

Con cuore puro
Né padre né madre possiedo
né a patria né a Dio io credo.
Per me non c'è culla né bara
né bacio né amante a me cara.

Tre giorni digiuno ho passato
né molto né poco ho mangiato.
Potenza son questi vent'anni,
all'asta son questi vent'anni.

Non alto è il prezzo che chiedo,
al diavolo sennò li cedo:
con cuore puro scassino,
se serve mi faccio assassino.

M'impiccano, ma se affonda
il corpo in terra feconda,
germoglia un'erba di morte 
al cuore mio splendido e forte. (1925)

In "Lettera Internazionale" n.18 Autunno 1988 - Traduzione A. Scarponi

Pensieri piccoli. Una poesia di Laura Omero

Sono quel che rimane 
sul fondo di un bicchiere… 
Un goccio, troppo poco per gustare, 
un goccio ancora da scolare, 
per non dimenticare quel che fui...

dalla rete

Machiavelli / Guicciardini. Un'amicizia particolare (Remo Cesarani)

Si può dire che Machiavelli e Guicciardini fossero due amici? Oppure ha più forza la tradizione critica che li contrappone e li considera, se non due antagonisti, certo due personaggi collocati a due poli estremi? Forse è più giusto dire che si tratta di due personaggi che si conobbero bene, si frequentarono, stimarono e influenzarono reciprocamente, che furono, nella vita privata «amici», e in quella intellettuale due pensatori che dialogarono intensamente anche se non in modo appariscente, ma che poi sono stati chiamati dalla storia, dalle ricostruzioni e dagli schemi degli storici, a rappresentare due personificazioni diverse e contrastanti, quasi polemicamente «nemiche», di una stessa temperie culturale e politica.
A stabilire l'idea della «coppia», ma anche di una coppia costituita da personalità polarmente contrapposte, hanno contribuito energicamente le pagine della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis: pagine importanti e significative, fondamentali per l'interpretazione data da De Sanctis del Rinascimento italiano, che però hanno consegnato alla tradizione dei nostri studi una schematizzazione notevolmente irrigidita e un giudizio sui due maggiori nostri scrittori politici del Cinquecento fortemente influenzato dalle idee e dalle passioni del periodo risorgimentale. (Per di più, quando De Sanctis scriveva, si ignoravano ancora molti degli scritti di Guicciardini e non era stata ricostruita in dettagli la storia dei rapporti diretti di amicizia che aveva legato i due personaggi).
Secondo De Sanctis, Machiavelli e Guicciardini, di fronte alla crisi politica e morale dell'Italia del primo cinquecento, reagirono in modo diverso e rivelarono una diversa tempra: Machiavelli, lucidissimo, visse la crisi ma non la subì, anzi la analizzò e studiò allo scopo di combatterla; Guicciardini, anche lui fornito di una finissima conoscenza degli uomini e delle cose, reagì con scetticismo e sfiducia, e un'amara disposizione ad accettare l'inevitabile corso delle cose. Diversi certo i due lo erano, anche fisicamente. Machiavelli, aveva il viso affilato, le labbra sottili e ironiche, gli occhi neri penetranti e arguti: l'immagine che ci è trasmessa da un ritratto di Santi di Tito, che si trova a Firenze in Palazzo Vecchio e si vede riprodotta su enciclopedie e libri, lascia l'impressione di una figura segaligna, di una personalità viva, affascinante, ironica e sfuggente. Guicciardini aveva il corpo massiccio e sostenuto, il collo largo e taurino, i lineamenti solidi e marcati. Nel ritratto di Giuliano Bugiardini, che si trova nella raccolta di famiglia ma è stato divulgato, appare in veste ufficiale, fra pellicce e velluti, quale doveva essere: severo, laconico, riservato, orgoglioso del suo casato e delle sue capacità, disposto ad aprirsi solo a pochi intimi.
Diversi erano i due certamente per età, essendo Guicciardini di 14 anni più giovane; diversi per estrazione sociale, essendo Machiavelli di famiglia non prominente e Guicciardini di famiglia appartenente alla più ristretta e potente oligarchia ottimatizia; diversi per formazione (segretario e destinato a una carriera negli uffici Machiavelli, dottore in diritto civile e destinato a una prestigiosa carriera di ambasciatore e servitore di Firenze o del Papa Guicciardini); diversi per inclinazioni ideologiche e metodo di pensiero (portato alle grandi affermazioni teoriche, basate sulla storia e l'esperienza, Machiavelli, sospettoso di ogni generalizzazione, attento alla concretezza minuta dei fatti e alla molteplicità delle prospettive Guicciardini).
La diversità sta stampata anche sulle buste delle lettere che i due cominciarono a scambiarsi, nel 1521, quando Guicciardini era governatore papale a Modena e Machiavelli inviato da Firenze a svolgere una missione diplomatica, chiaramente al di sotto delle sue aspirazioni e abilità politiche e forse con qualche intenzione di ironia, presso il litigioso Capitolo generale dei frati minori. Mentre Guicciardini si rivolge «Al magnifico messer Niccolo Machiavelli nuntio fiorentino», Machiavelli si rivolge al suo corrispondente in aulico e cerimonioso latino «Magnifico Domino Francisco de Guicciardini I.V. doctori Mutinae Regiique gubernatori dignissimo suo plurimo». E mentre Guicciardini iniziava con un «Machiavello carissimo», Machiavelli rispondeva con un «Magnifice vir, major observandissime». E tuttavia, nello scambio immediato della lettera (cosi come, possiamo intuire, negli scambi verbali) i due trovarono subito un territorio di intesa, complicità e familiarità (quindi di amicizia): il linguaggio comico, l'aneddotica maliziosa ed erotica, della trasformazione scherzosa di sé e degli altri, a sfogar l'umor nero e le non poche meditazioni pensose e preoccupate sulle vicende politiche e militari di Firenze e d'Italia.
Guicciardini. divertito dell'incarico «religioso» dato a Machiavelli, trovava che averlo scelto per tale bisogna era come l'aver attribuito interessi muliebri a due noti sodomiti fiorentini: «non altrimento che se a Pacchierotto, mentre viveva, fosse stato dato il carico, o a ser Sano, di trovare una bella et galante moglie a uno amico». Machiavelli rispondeva per le rime e, subito dopo l'invocazione rispettosa al «Magnifice vir», scriveva: «Io ero in sul cello quando arrivò il vostro messo, et appunto pensavo alle stravaganze di questo mondo», e proiettava la situazione (quella di dover spingere i frati minori a scegliere per Firenze un loro predicatore) in una possibile novella boccaccesca o in una trama da Mandragola: «eglino vorrieno un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di andare a casa del diavolo; vorrebbono appresso che fosse huomo produente, intero, reale, et io ne vorrei trovare uno più pazzo che il Ponzo, più versuto che fra Girolamo, più ippocrito che frate Alberto». (Ma intanto, fra le espressioni scherzose, riusciva a infilare qualche riflessione amare sulla sua situazione di cervello fino politico sottimpiegato).
Il terreno di incontro così fissato fra Machiavelli e Guicciardini - quello della espressività linguistica, della narrazione novellistica, della trascrizione comica e teatrale - diede l'occasione, in quei frangenti, alla costituzione di un piccolo e straordinario carteggio (pari a quello su un'uguale intesa «comica» fra Machiavelli e l'ambasciatore fiorentino Francesco Vettori). Ha detto bene Giorgio Inglese, curatore di una bella edizioncina, nella Bur, delle Lettere di Machiavelli e Francesco Vettori e Francesco Guicciardini: «La ricchezza di queste pagine epistolari sta tutta nel conflitto che subito si apre - e sarà sapientemente giocato da entrambi gli interlocutori - tra la cifra 'comica' e il patrimonio di serietà che i protagonisti espongono al rischio calcolato della vanificazione».
La verità è che il terreno comune di incontro (e di amicizia e collaborazione) va ben oltre la complicità comica e narrativa di episodi come quello di Carpi. Gli studi hanno pian piano ricostruito il rapporto fra Machiavelli e Guicciardini, e hanno dimostrato che i due avevano non poche opinioni in comune, che si frequentarono a lungo, portarono avanti un impegnativo dialogo intellettuale, si influenzarono a vicenda. Qualche studioso ha insistito sull'influsso esercitato da Machiavelli sul più giovane Guicciardini, e ha parlato di Guicciardini come «del primo dei machiavellisti». I lettori si sono scaltriti e trovati più volte a cogliere, nelle pagine distese della Storia d'Italia o in quelle concentrate dei Ricordi degli improvvisi e guizzanti momenti machiavelliani; così come hanno di molto problematizzato la coerenza ideologica e di pensiero di Machiavelli e colto qua e là, nelle lettere, in alcune pagine delle Storie fiorentine, perfino dei Discorsi, dei momenti di indugio analitico guicciardiniano.
Effettivamente Machiavelli e Guicciardini impararono a conoscersi presto ed ebbero qualche frequentazione già nel periodo dell'impiego di Machiavelli nella segreteria soderiniana (quando Guicciardini era, giovanissimo, ambasciatore della Repubblica in Spagna). Il primo pensiero politico di Guicciardini e le sue prime prove di storico furono tuttavia del tutto indipendenti dalle prove parallele di Machiavelli. Quando, però, Machiavelli scrisse il Principe e i Discorsi, pur non essendo destinati alla diffusione, Guicciardini li ebbe molto presto fra le mani, le studiò e discusse, ne tenne conto nello scrivere (in particolare i due discorsi su Come assicurare lo stato ai Medici e il dialogo Del reggimento di Firenze), iniziò anzi a scrivere, attorno al 1529, le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio, un'opera rimasta frammentaria, interessante per l'analisi e il continuo contraddittorio delle idee di Machiavelli, talvolta noiosa e arida.

Basta la reciproca stima, l'attenzione alla carriera e ai pensieri dell'altro, la costruzione di un'intesa «comica» per le serate insieme e le lettere spedite sulla spinta dell'umore, per poter parlare di «amicizia»? Forse non basta, ma a rafforzare il rapporto fra Machiavelli e Guicciardini ci fu un dialogo intellettuale che fu molto più sottile e profondo di quanto si creda, anche in scritti non dichiaratamente dedicati al confronto sistematico delle posizioni. L'opera stessa di storico di Guicciardini sarebbe stata probabilmente diversa se non ci fosse stato, a ispirarne molti atteggiamenti e posizioni l'opera di teorico e di storico di Machiavelli.

il manifesto, 31 agosto 1990

27.7.14

Genova P.P. Una poesia di Daria Menicanti (1914 - 1995)

- Quanto tempo - dirai. E ci sarà
odore di treni, di fritto
e una piuma di vento marino
già all'Uscita. Sugli agri giardinetti
della Stazione tornerà la luna.
- Come va - chiederai. Da un indomato
vecchio spiccio poema d'amore
sorriderti sarà meraviglioso:
- Bene, quando ti vedo

da Un nero d'ombra, Mondadori, 1969

25.7.14

Iraq. Il califfo ordina: mutilazioni genitali e donne per i combattenti (S.L.L.)

Abu Bakr al-Baghdadi, il "califfo"


Il cosiddetto ISIL (Stato islamico dell'Iraq e del Levante) è stato proclamato poco più di un mese fa dal movimento jihadista di Abu Bakr al-Baghdadi, che controlla gran parte del Nord dell'Iraq ed è tra i più agguerriti avversari armati del regime di Assad nella Siria di cui rivendica alcune importanti province. 
L'uomo s'è fatto proclamare “califfo”, in sostanza capo militare di tutto il mondo musulmano, ruolo che trova rifiuti più riconoscimenti ufficiali nei paesi arabi, ma la presunta restaurazione del “califfato” ha suscitato simpatie e speranze non solo nel vicino Oriente asiatico, ma in Egitto e nel Maghreb. 
Tra gli occidentali e peculiarmente tra gli statunitensi c'è molta ambiguità nel trattare con il personaggio e con il suo movimento (e con personaggi e movimenti simili). In passato li sostennero contro Saddam Hussein e si può ragionevolmente dire che la crescita esponenziale della loro forza è legata strettamente alle guerre americane e occidentali in Iraq. Solo più tardi, forse troppo tardi, l'Occidente ne ha condannato le scelte politiche e le proclamazioni di “guerra santa”, inserendo Abu Bakr al-Baghdadi nelle liste dei peggiori nemici. Ma nello stesso tempo continuava ad armare i suoi simpatizzanti in Libia e, ancora oggi, li sostiene con ogni mezzo in Siria. 
Le ultime deliberazioni dell'ISIL sono espressione di un maschilismo odioso e orripilante: scelte retrograde che esplicitamente mirano a conquistare e irrobustire un consenso di tipo identitario. La prima è un appello a "offrire le donne non sposate" ai "fratelli mujaheddin", diffuso a Ninive dai jihadisti Isil, che da settimane controllano quella provincia nord-irachena: chiedono alle donne di "fare la loro parte nella jihad al-nikah" (letteralmente la Jihad matrimoniale) dandosi in spose ai combattenti. "Alla luce della liberazione della provincia di Ninive - si legge nel comunicato - e del benvenuto dato dalla popolazione ai suoi fratelli mujaheddin, e dopo la grandiosa vittoria conseguita ... nella provincia di Ninive e la sua liberazione, provincia questa che con il permesso di Dio sarà la residenza e il rifugio dei mujaheddin, alla luce di questo chiediamo alla popolazione di questa provincia di offrire le donne non sposate a favore dei loro fratelli mujaheddin. Su chi mancherà di farlo erigeremo la sharia e applicheremo le sue leggi".
"Oh Dio, abbiamo dato comunicazione, sii testimone", si legge infine nel comunicato firmato "Provincia di Ninive" e timbrato con il logo salafita e la dicitura "Stato islamico in Iraq e nel Levante, comitato giuridico generale".
Il comunicato appare l'ufficializzazione di una pratica denunciata nei mesi scorsi, soprattutto in Siria, altro fronte che vede l'Isil in prima linea. I media parlavano di donne inviate soprattutto dalla Tunisia, a partecipare al 'jihad del sesso', che in genere prevede brevi contratti di matrimonio tra i jihadisti e le ragazze. Anche il governo tunisino in parlamento, attraverso il ministro degli Interni di Tunisi, Lotfi Bin Jeddou, ha ammesso l'esistenza del fenomeno.
Orrore ha suscitato nei giorni successivi l'ordine di mutilazioni dei genitali per le donne del 'califfato'. I jihadisti dell'Isil affermano che la pratica è stata imposta dal profeta Maometto e riportano un elenco di suoi 'hadith' (i 'detti'), che a loro dire contengono questo ordine. Non si prevedono ancora sanzioni per i trasgressori, per cui l'iniziativa sembrerebbe ancora avere il carattere prevalente di una “guerra di culture” e non di una persecuzione. Abu Bakr al-Baghdadi avrebbe dato l'ordine di infibulare le ragazze e le bambine presenti sul suolo iracheno al fine di allontanarle dalla prostituzione e dal peccato.
Souad Sbai, giornalista e scrittrice italo-marocchina, ha definito l'ordine un 'gesto agghiacciante'. Aggiunge in un comunicato, che la vicenda "rivela ancora una volta quanto pericoloso sia, nella sua follia, questo personaggio a cui l'Occidente continua colpevolmente a lasciare mano libera".
In verità, prima o poi bisognerà fare un bilancio della guerra che dagli anni Ottanta gli USA hanno lanciato e sviluppato con tutti i mezzi contro il socialismo e nazionalismo dei paesi arabi e di altri paesi musulmani, coltivando contro di esso tutti gli integralismi e i jihadismi. Perfino l'espansione di Hamas a scapito dell'Olp fu un aspetto di quella offensiva. Sembrava che l'ideale degli Usa fossero l'Arabia Saudita e alcuni emirati, privilegi feudali ed usanze medievali all'interno, occidentalismo incrollabile in politica estera. Quando poi si è voluto passare all'intervento diretto, alla guerra imperiale, si è spesso fatto ricorso all'ideologia “democratica”, fino ad arrivare a teorizzare – con i cosiddetti neocons – l'esportazione della “democrazia occidentale”. I risultati sono fallimentari dappertutto: in Afghanistan, in Palestina, in Iraq, in Algeria, in Libia. I nostri governi, sia di destra che di centro sinistra (sebbene con qualche differenza), hanno sempre assecondato queste politiche imperiali, che hanno sistematicamente dato spazio alla superstizione e alla violenza brutale contro le donne e (ancor più) gli omosessuali. Io lo chiedo al Presidente Napolitano che ogni volta che può ripete la tiritera che “non ci possiamo sottrarre ai doveri internazionali”: per quale scopo sono morti i “nostri ragazzi” a Nassyria e altrove? Per permettere agli Abu Bakr al-Baghdadi di organizzare stupri, infibulazioni, roghi e lapidazioni?



San Pietro e Paolo. Due contendenti uniti dalla tradizione (Filippo Gentiloni)

El Greco, San Pietro e Paolo (1614),
San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage 
Pietro e Paolo: una delle coppie più famose della storia e non soltanto di quella cristiana. Furono amici? Non direi, ma è anche vero che l'amicizia non è una categoria che trovi posto, per lo meno ufficialmente, nei testi sacri. Una categoria troppo privata per il clima biblico, troppo psicologica, troppo moderna. La grande amicizia, per la Bibbia, è una sola, quella dell'uomo con Dio: meglio, quella che Dio concede all'uomo.
La storia di Pietro e Paolo, comunque, è una storia ricca di vita: convergenze e differenze, alleanze e litigi, il protagonismo di due personaggi che i racconti ci presentano a tutto tondo, anche se non è facile distinguere, come per tutte le storie vecchie di venti secoli, i fatti reali dalle concrezioni mitiche.
Fin dai primi tempi si cercò di presentarli insieme, quasi che le testimonianze delle rivalità e dei litigi si dovessero al più presto dimenticare. Si temeva il persistere di un dualismo, l'esistenza di due chiese parallele, quella di Paolo e quella di Pietro: progressisti e conservatori, anche allora. Il timore delle due chiese parallele creò la coppia: basti vedere l'iconografia dei primi secoli, con i due grandi sempre insieme.
Tutti e due, dopo diverse peripezie, dovevano per forza essere finiti a Roma, il luogo dove il martirio acquistava dignità e indicava un ruolo per il futuro. Tutti e due cominciarono, sempre a Roma, a essere ricordati e festeggiati lo stesso giorno, il 29 giugno, come oggi: bisognava suggellare nel ricordo un'amicizia che probabilmente non c'era stata.
Il martirio di ambedue nella stessa città capitale e nello stesso giorno, sotto Nerone. doveva far dimenticare che Paolo era stato un persecutore di cristiani, non era stato fra gli apostoli e non aveva neppure conosciuto Gesù: una lacuna grave nella chiesa apostolica. Di Pietro, poi, era bene dimenticare molte colpe e molte incertezze: soprattutto quell'infame tradimento prima del canto del gallo e quella esitazione nella controversia con i «giudaizzanti». Nessuno dei due aveva la fedina penale pulita.
Avevano avuto origini molto diverse, Pietro e Paolo. Ambedue ebrei e circoncisi, ma uno era di Galilea, l'altro, Paolo, era nato e vissuto a Tarso, in Cilicia. Scarsi i dati sulle carte di identità. Di professione, Pietro era pescatore e Paolo tessitore: continuò a tessere tele , per quanto poteva, anche durante i suoi grandi viaggi apostolici, per mantenersi senza dipendere economicamente dalle chiese (niente 8 per mille!).
Pietro era certamente sposato (Gesù interviene per guarirne la suocera). Sullo stato civile di Paolo si discute. Era celibe? Vedovo? Separato? Sembra certo, comunque, che al tempo della sua lunga missione apostolica non era legato a nessuna donna, caso piuttosto strano per quel tempo e quella cultura (alcuni attribuiscono a questa circostanza la sua durezza nelle questioni sessuali).
Sui dati fisici, nessuna notizia. Ma la barba dovevano averla, se si affermava (Musonio Rufo) che «la barba è per l'uomo come la cresta per il gallo e la criniera per il leone».
Sul carattere possiamo dedurre dai racconti qualche cosa di più. Pietro, bonario, incerto, contraddittorio, immediato nelle reazioni, forse anche incolto (gli si attribuiscono due lettere, ma non si è certi che le abbia scritte lui). Doveva maneggiare appena l'aramaico popolare. Paolo colto, fine predicatore e scrittore, ebreo di città, pienamente inserito nell'ellenismo del tempo, parlava bene il greco della koinè, a suo agio sull'acropoli di Atene come nelle prigioni imperiali di Roma o sulla prua di una nave in tempesta. Di Paolo sappiamo molto di più che di Pietro, eppure è di quest'ultimo il «primato»: una stranezza della storia o un vero «legato» lasciato a lui, rozzo, e debole pescatore, dallo stesso Gesù.
La storia quando li fece accostare, Pietro e Paolo avevano già vissuto a lungo (una quarantina d'anni per ciascuno?) e intensamente. Il loro incontro fu ben presto uno scontro. Ne possediamo due resoconti fondamentali, non del tutto convergenti, anche se ambedue sono nati in ambiente più paolino che petrino. Il primo, cronologicamente, è un testo della lettera di Paolo ai fedeli di Ga-lazia, una delle lettere che gli studiosi considerano autenticamente paoline. Il secondo testo è il racconto del libro degli Atti, scritto da quel Luca che fu anche autore del terzo vangelo.
Tema dello scontro la questione che gli storici hanno poi definito dei «giudaizzanti». Una questione in apparenza secondaria, in realtà di portata essenziale: vi era in gioco l'essenza stessa del cristianesimo, anche al di là del rapporto con il giudaismo da cui era nato. La possiamo formulare così: i nuovi cristiani provenienti dal paganesimo - quelli a cui proprio Paolo si rivolgeva - dovevano passare attraverso il giudaismo? La circoncisione, cioè, prima del battesimo? In altri termini: Gesù sostituisce l'antica legge o semplicemente la riforma e la perfeziona?
Su questi interrogativi di estrema modernità - rifondazione, riforma, rinnovamento, rivoluzione... - Pietro e Paolo misero in gioco autorità e amicizia.
L'incontro-scontro si svolse in tre atti. Il primo dovette essere un breve incontro di cortesia, appena tre anni dopo la conversione di Paolo, che «salì», come si diceva allora, a Gerusalemme proprio per «fare visita» a Kefa, la pietra che Gesù aveva posto alla base della sua comunità. Tutto bene, dunque: forse era nata anche un'amicizia.
Il secondo atto si svolge, sempre a Gerusalemme, almeno una decina di anni dopo. Le conversioni di pagani sono aumentate: Paolo non li fa circoncidere né li obbliga a seguire le classiche prescrizioni giudaiche sul vitto, ecc. Per le chiese cristiane più tradizionali, quelle originate dal giudaismo, è un vero scandalo. Si convoca una assemblea, una sorta di primo concilio ecumenico. A capo degli “innovatori” Paolo, a capo dei conservatori l'apostolo Giacomo, con l'autorità riconosciuta di “fratello del Signore”. Pietro tenta una mediazione: niente circoncisione, ma la osservanza di qualche precetto antico, onde non urtare i cristiani di provenienza giudaica. Paolo accetta e riparte per i suoi lunghi viaggi missionari, fino alla Grecia, a Roma, alla Spagna.
Il terzo atto, ad Antiochia, è il più drammatico. Pietro, giunto nella comunità antiochena, in un primo tempo si era attenuto alla prassi stabilita, come Paolo, ma in un secondo tempo aveva ceduto alle forti pressioni dei conservatori e aveva imposto ai nuovi cristiani il peso delle antiche osservanze. Paolo freme: ma allora Gesù è morto invano? Il cristianesimo, allora, non è altro che una forma rinnovata di giudaismo? Senza alcuna soggezione, Paolo accusa Pietro di doppiezza (hypocrisis).
Benché abbia ragione, sulla base e delle decisioni di Gerusalemme e di tutta la storia successiva, Paolo esce perdente dallo scontro di Antiochia. «Proprio per questo sarà sempre più oggetto di dure contestazioni da parte dei giudeo-cristiani integralisti e la chiesa-madre lo guarderà con sospetto. Non per nulla l'autore degli Atti stende un velo di rispettoso silenzio sull'incidente di Antiochia, che aveva visto il protagonista della sua storia edificante messo in minoranza dall'iniziativa degli emissari di Giacomo e dal cedimento di Pietro (Giuseppe Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane).
Il seguito della controversia è sotto i nostri occhi. La chiesa di Pietro ha vinto su tutto il fronte, e non soltanto in casa cattolica. Le varie chiese cristiane, quale più quale meno, anche se non hanno accettato la circoncisione, si sono ancorate alle leggi e alle osservanze, a tutto vantaggio di quelle garanzie che la roccia petrina offriva, ma a scapito di quella «libertà» che Paolo aveva predicato con scarso successo.
La storia, comunque, ha voluto unire due,protagonisti che le vicende avevano divisi. Pietro e Paolo, vicini l'uno all'altro nella iconografia cristiana, dicono a tutte le generazioni che le tensioni fra legge e libertà, tra vecchio e nuovo, tra carne e spirito non deve cessare: nessun dualismo purista deve prevalere su di una, anche ambigua, complessità.
Ci farebbe piacere sapere se, poi, dopo Antiochia, i due si incontrarono, forse nelle galere di Roma, e si riabbracciarono. L'amicizia biblica, d'altronde, non è orizzontale, ma verticale, scende dall'alto. Lo stesso immenso abbraccio del Cantico dei Cantici è un'immagine visibile e palpabile di quell'invisibile e impalpabile abbraccio che circonda la vita.


“il manifesto”, 11 agosto 1990

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