2.6.14

Una scienza divina. La Matematica fra cielo e terra (Paolo Zellini)

L'Erma di Pitagora ai Musei Capitolini
Copia di un busto del V secolo A. C.
I primi a porre problemi matematici non furono uomini, ma dei.
Le fonti lo comprovano con un numero così impressionante di racconti, spiegazioni e concordanze da sospettare che non si tratti di semplici favole, di narrazioni ingenue o superflue. Eschilo ci dice che Prometeo è stato il padre del numero e il primo a distinguere i segni astronomici che scandiscono il tempo. Erano inventori del numero anche il dio egizio Thot, alter ego del greco Ermes, nonché Palamede, allievo del centauro Chirone ed eroe della guerra di Troia. Sarà calunniato da Ulisse, che gli consigliava malignamente di rivolgere le sue ricerche alla terra anziché al cielo, e ucciso dai suoi compagni con l'accusa ingiusta di tradimento. Pitagora, che aveva una natura tra l'umano e il divino, apprese dagli egizi e dai babilonesi un'arte della misura trasmessa dagli dei. Da Eutocio, commentatore di Archimede, apprendiamo poi che Minosse, il mitico re di Creta e figlio di Zeus, voleva raddoppiare una tomba regale della forma di un cubo. La costruzione a Delo di un altare di forma cubica doppio di quello esistente sarebbe stata prescritta dall'oracolo di Apollo.
Nell'India del I millennio a. C. troviamo problemi sorprendentemente simili a quelli greci, ma meglio collegati, questa volta, a un sistema di prescrizioni rituali e di libri sapienziali ispirati dagli dei. In quei libri si parla dell'origine del mondo, del modo in cui l'universo cominciò ad assumere una forma intelligibile e di come, con esso, iniziarono a configurarsi il nostro pensiero e la nostra coscienza. Occorre solo cautela nell'interpretare il rito come una pura messa in scena del mito cosmogonico. Per un verso esso era pura sintassi, una rigorosa esecuzione formale di azioni e recitazioni virtualmente in grado di mettere in comunicazione con le potenze celesti. Il rigore e l'esattezza (satyam) erano d'obbligo, gli errori inammissibili. «L'esatto per eccellenza era il rito», avrebbe notato Louis Renou.
Non stupisce dunque che alla matematica, nel rito, spettasse una parte importante. I diversi "trattati della corda", gli Sulvasûtra, a partire dal VI secolo a. C., insegnano nel modo più scrupoloso e laconico come costruire altari di mattoni dalle complesse forme geometriche e come ingrandirli, in scala, fino a oltre cento volte. Ma perché gli altari vedici, come quello di Apollo a Delo, dovevano poter essere ingranditi? In testi più antichi in cui sono esposte verità rivelate, come gli Satapathabrâhmana, si racconta come Prajâpati, il grande demiurgo, giacesse esausto e smembrato dopo la creazione dell'universo. La creazione era un immane sacrificio che l'azione rituale (karman) doveva rinnovare ogni volta. Agni, l'altare del fuoco, era allora l'altro nome dello stesso dio Prajâpati una volta ricomposto, restaurato e in condizioni di «crescere per via di giunture e legamenti». C'erano altari di forma quadrata o circolare, e l'area doveva essere la stessa: di qui la difficile costruzione di un cerchio equivalente a un quadrato assegnato e poi, inversamente, il celebre problema della quadratura del cerchio. Gli altari di forma più complessa imitavano invece l'immagine stilizzata di un falco, composta di quadrati e di triangoli.
La crescita dell'altare implicava quindi quella di un quadrato, e la questione matematica correlata era in breve la seguente: in quale modo la crescita o la diminuzione del lato del quadrato ne altera la superficie? Una questione semplice ma decisiva, da cui derivarono le più note procedure per risolvere un'equazione e alcune tecniche fondamentali dell'analisi moderna. In origine era il dio, Agni o Apollo, a crescere, e la crescita non ne alterava la forma. Invarianza nel mutamento: è stata questa l'idea guida che molti matematici hanno posto a fondamento della loro disciplina. Alla matematica degli dei risalgono procedure di calcolo ancora oggi di straordinaria efficacia. Ma cosa ne è stato poi del rapporto degli dei con la matematica? In India si celebrano ancora i riti di Agni. Il logos greco e la sapienza veterotestamentaria, inseparabili dalla matematica, si trasmisero e rinnovarono nel logos cristiano fin dai primi secoli della nostra era. Per questa ragione Agostino poteva affermare che numero e sapienza sono la stessa cosa. Più tardi Alberto Magno, maestro di Tommaso d'Aquino, indagando sulla natura dell'infinito, ripensava alla crescita di un quadrato come già l'avevano concepita i pitagorici, e ancor prima gli indiani. La filosofia scolastica ripensò poi quella profonda adaequatio rei et intellectus, la corrispondenza tra le cose e la nostra intelligenza, tra l'uomo e l'universo, che gli altari matematici dell'antichità già volevano realizzare.
La matematica ha sempre avuto il ruolo di natura intermedia tra Cielo e Terra, esattamente come Pitagora aveva mediato tra gli uomini e gli dei e come le "intime giunture" di Agni avevano trasformato la materia informe dell'universo in una regione del pensiero, ciò che in Grecia divenne il kósmos noetós, il mondo ordinato e intelligibile dei platonici. Ma questa posizione intermedia della matematica è stata pure causa di oscillazioni e di virtuale instabilità. In Grecia, osservava Alexandre Kojève, il cosmo intelligibile e matematico fu una vetta assoluta, un limite estremo e invalicabile, per ogni pagano, di tutte le possibili incarnazioni del suo Dio. Il dogma dell'Incarnazione avrebbe cambiato le cose: Dio poteva esistere nel mondo senza perdere nulla di sé; quindi ci si poteva limitare allo studio della perfezione matematica sulla Terra. Il Cielo cominciò allora a perdere la sua ingerenza, la matematica e la teologia presero strade indipendenti e la matematica degli dei, come ebbe a dire il celebre matematico Pafnutij L. Èebyšëv, fu presto soppiantata da una matematica di tecnici. Ma quest'ultima, ci chiediamo noi, riuscì mai a diventare solo profana? Ancora John von Neumann, pur così coinvolto nelle sue prodigiose applicazioni tecnologiche sulla Terra, ne rivendicava, in pieno ‘900, la natura divina.


“la Repubblica”, 15 maggio 2014

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