8.6.14

Il romanzo di Telemaco nell'Odissea di Omero (Attilio Bertolucci)

Forse perché l'ho tradotto in prima liceo, il secondo canto dell'Odissea mi è rimasto dentro, dolcissimo, integrato a un mio tempo personale in cui vita e poesia si confondevano in un seguirsi di dissolvenze e sovrimpressioni simili a quelle che aprono l'Aurora di Murnau, l'altra mia esperienza inebriante, in quegli anni, il cinema, il caro, il bel cinema muto nel suo morire...
Non ho mai dimenticato, mi è sempre tornato quasi alle labbra, il verso 188 (nella traduzione di Privitera suona «II sole calò e tutte le strade s'ombravano») ogni volta che l'ora lo suggeriva. Erano, quelli della mia prima lettura del secondo canto, gli anni che mi inoltravo nella Recherche: così leggevo l'Odissea, ne coglievo le epifanie in chiave proustiana. Ulysses con tutte le sue rispondenze, i suoi rimandi sapienti al poema antico, si dimostrò inservibile, per me se mai più consono a quelle mie operazioni di apprendistato letterario tanto impuro quanto innocente, il Joyce giovane dei Dubliners.
Ora mi sono riletta, per intero, la Telemachia, probabile pannello necessario all'economia del gran libro inserito in limine da chi, avendo sistemato il tesoro del materiale odisseico orale precedente, possiede già la forza della «written composition», della scrittura cioè, come apprendiamo dalla lucida prefazione di Alfred Heubeck. A questo punto, letto il secondo nella sequenza dei quattro canti che formano la Telemachia, mi viene di pensare che ancora una ragione di quella mia appassionata partecipazione a un libro impostomi dalla scuola, al di là del reperimento di fulgenti anticipi della letteratura nuova che andavo scoprendo, stesse nel fatto suggerito dalla commentatrice Stephanie West: che la Telemachia sopporta una lettura in chiave di Bildungsroman oppure, oserei scrivere (ma non facciamo simili violenze quando, ammirando gli impasti di Tiziano vecchio, mormoriamo «sembra un Renoir»?) che la Telemachia potrebbe anche considerarsi, prendiamo in prestito da Goethe, «Gli anni di viaggio e di apprendistato» del figlio di Odisseo.
Possibile che nell'inconscio mi specchiassi in quel lontano coetaneo che, stanco della prepotenza dei pretendenti la madre, voglioso di riavere un padre (giusta la terapia freudiana) decide di partire per mare? E va bene. Atena gli sta sempre vicina a consigliarlo, mutata nel sembiante, meno negli occhi saettanti e nello, scatto delle apparizioni, in quel saggio valentuomo di nome Mentore. Ma non è la dea che consiglia il giovane Telemaco quando egli, in segreto, si rivolge alla nutrice Euricléa (Odisseo non era mai andato a letto con lei per non ingelosire Penelope, l'abbiamo appreso soltanto ora, rallegrandoci dell'imprevista malizia omerica) al fine che appronti le provviste necessarie al viaggio per mare, e si raccomanda con parole venute dal cuore profondo «...di non dirlo alla madre — prima che sia l'undicesimo o dodicesimo giorno — o che lei stessa mi cerchi e oda che sono partito — perché non sciupi il bel viso, piangendo».
Qui il poema si fa «romanzo», getta un fascio di luce su di una Penelope che, come tutte le eroine del «romanzo», non deve sciuparsi il bel viso, ancora tale seppure già in prima sfioritura. Il figlio, come tutti i figli è innamorato della madre, non vuole che per colpa sua si sfiguri, e molto se ne preoccupa mentre già l'attendono un periglioso viaggio, l'insidia dei pretendenti.
Altro tratto della delicata, anche se irrobustentesi, personalità di Telemaco, e dunque altra spia dell'evoluta sottigliezza del nostro presunto «autore della Telemachia», il riserbo del giovane, il suo silenzio quando Menelao racconta con lodi e rimpianto di Odisseo. E lui, che è arrivato sin lì per avere notizie del padre, zitto. Deve rivelarlo Pisistrato, suo compagno di viaggio...
Nessun evento troppo favoloso arricchisce, né d'altra parte sovraccarica (Odisseo ha spalle ben più forti del figlio, che pure è in via di maturare egregiamente) il breve Bildungsroman che è la Telemachia. Anche i racconti nel racconto, come l'orribile crimine di Egisto, sono scorciati a dovere, mai straripanti.
Dunque il giovane Telemaco, cui forse, segno certo della crescita, si è fatta più piena la voce, parla franco e, duro ai rovinosi pretendenti, prepara le vettovaglie, sceglie i compagni della sua non grandiosa ma coraggiosa impresa, assolve al suo compito con assoluta correttezza e con un pudore che tutto è suo. E noi lo lasciamo alla ricca mensa di Menelao cui, a un certo punto, curiosa, s'aggrega la sposa infedele, la bella Elena loquace e al momento opportuno dispensatrice di tranquillanti ai convitati. Imparino da lei, le padrone di casa.
Lo lasciamo, Telemaco, che ne sa un po' più sul padre: ad esempio viene fuori la storia di Calipso. E lo scaldano l'affettuosa ospitalità e i vini di Menelao, la fraterna assistenza di Pisistrato che lo ricondurrà a Pilo sabbiosa per il ritorno a casa con i compagni di Itaca. Dove, intanto...
Con abile montaggio Omero (possiamo chiamarlo così?) torna sui pretendenti indaffarati a preparare un agguato mortale a Telemaco, su Penelope la quale, era ora, s'accorge dell'assenza del figlio e piange piange, sciupandosi forse il bel viso. L'ultima inquadratura è perfetta per procurarci suspense. «In mezzo al mare v'è un'isola, petrosa — tra Itaca e Same irta di rocce: — Asteride. Non grande, ma vi sono porti gemelli — per navi: gli Achei aspettavano là, in agguato». Sembra di vederne gli occhi svegli assassini.
D'ora innanzi non sarà più la Telemachia che leggeremo, sarà la gloriosa Odissea. A noi questo indugio nel prologo, rivisitato oggi con intermittenze del cuore del tempo di quella prima lettura, è stato assai caro; ma pensiamo che possa esserlo per tutti.


“la Repubblica”, 20 ottobre 1981

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