29.6.14

Parla Francesco Cataluccio: la Polonia e molto altro (Gabriele Catania)

"In Italia uno può vantarsi di non capire nulla di matematica. Dobbiamo sbarazzarci di quest’idea crociana nefasta che la cultura scientifica sia cultura di serie B". Nell'intervista che segue, rilasciata a Gabriele Catania lo scrittore Francesco Cataluccio racconta, tra l'altro, il suo amore per la cultura polacca cui come europei dobbiamo tanta arte e tanta scienza, per esempio l'invenzione della forma letteraria del saggio. L'articolo è un po' lungo ma ricco di curiosità e di stimoli intellettuali. (S.L.L.)
Francesco Cataluccio
Chi si addentra in un libro di Francesco Cataluccio non può che restare sbalordito dalla cultura di un autore che sembra aver passato tutta la sua vita viaggiando, leggendo e incontrando personaggi interessanti. Uno dei suoi testi più belli, Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio), è un piccolo tesoro letterario, un vero labirinto di erudizione. 369 pagine densissime, tra le quali è incantevole perdersi, tra aneddoti sulla storia polacca e ricette della cucina armena; versi del Nobel Miłosz e descrizioni di Baku e Vilnius; ghiotte etimologie di Giovanni Semerano e riflessioni sulla spiritualità nel cinema di Tarkovskij; ricordi di un viaggio in Argentina con Kapuściński e digressioni su un quadro del Perugino esposto al Louvre. Allo stesso tempo, però, il libro è un pellegrinaggio nella memoria di una Mitteleuropa martoriata dalla storia, accompagnato dalla leggenda ebraica dei 36 Giusti che, spesso senza saperlo, salvano il mondo.
Dopo aver letto un libro così, uno potrebbe immaginarsi l’autore come un ibrido tra Bruce Chatwin e Umberto Eco. E invece Cataluccio è un signore alto e gentile, dalla risata profonda e il marcato accento toscano. Somiglia un po’ all’attore Jeffrey Tambor, noto in Italia grazie al brillante telefilm Arrested Development. Ma ancor più dei tratti somatici, con l’attore americano Cataluccio ha in comune l’autoironia. E infatti se gli si chiede dei suoi libri e dei suoi viaggi per mezza Europa, si schernisce: «Ho solo avuto la fortuna di vedere posti strani, conoscere gente strana, parlare una lingua strana. Se non avessi studiato polacco quando ero giovane, chissà che ne sarebbe stato di me…»
Ma in 58 anni Cataluccio non si è accontentato di apprendere una delle lingue più difficili del pianeta, macinare chilometri e scrivere pagine su pagine. Ha conosciuto bene l’editoria italiana: prima come redattore alla Feltrinelli, poi come direttore della Bruno Mondadori e della Bollati Boringhieri. E oggi è responsabile dei programmi culturali di quell’istituzione insolita (per l’Italia) che è la Frigoriferi Milanesi, ex “fabbrica del ghiaccio” convertita in spazio artistico e culturale.
“Pagina99” lo intervista a Venezia, a un tavolino di un bar del Ghetto Nuovo, in un’uggiosa giornata, con pochi turisti per le strade e l’aria intrisa di Adriatico. Il luogo dell’incontro non è casuale: Cataluccio è un profondo conoscitore della cultura ebraica, e un grande amante di Venezia. Le altre città del suo cuore sono Varsavia, dove ha vissuto tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Ottanta, e la natia Firenze. «La mia passione per la Polonia è nata a Firenze, grazie al teatro. Quando ero studente si teneva lì, tutti gli anni, uno splendido festival teatrale. Io ci andavo con gli amici, e ogni volta mi accorgevo che i teatri più interessanti che partecipavano erano quelli polacchi: facevano delle cose straordinarie, di una grandissima modernità.»
A detta di Cataluccio, i polacchi hanno sempre tenuto in massima considerazione il teatro, ritenendolo un’opportunità fondamentale di riflessione collettiva. «Un po’ come gli antichi ateniesi, per i quali era addirittura un momento di catarsi: tragedie come “Le baccanti”, o “Le troiane”, li aiutavano a riflettere non solo sui destini dell’uomo in generale, ma su quelli storici della loro comunità. Non a caso il ’68 polacco fu scatenato, in prima battuta, da una decisione della censura di impedire all’ultimo minuto uno spettacolo teatrale, Gli Avi, di Mickiewicz: si trattava di un testo scritto in pieno Romanticismo, e conteneva accenti anti-russi, dato che allora una grossa porzione della Polonia era sotto lo zar. La censura bloccò la rappresentazione, e scoppiarono le prime manifestazioni. Perché per i polacchi il teatro non deve mai morire.»
L’amore dei polacchi per il teatro avrebbe le sue radici nell’amore, ancora più profondo, per l’arte di raccontare. «È gente che ama stare attorno a un tavolo, con il camino acceso, mangiando, bevendo vodka e raccontando storie. L’idea di letteratura come racconto di vicende, magari anche divagando, è nata proprio in Polonia. Dal Manoscritto trovato a Saragozza, ai racconti di Bruno Schultz, quella polacca è una civiltà fortemente basata sulla narrazione. – sottolinea – Mi riferisco non solo ai grandi romanzi, ma alla saggistica… i polacchi sono i veri eredi di Montaigne, hanno inventato quella forma letteraria che è il saggio. E il saggio, come dice la parola stessa, è appunto una prova, un tentativo. Tanto è vero che gli Essais di Montaigne sono stati tradotti, in polacco, come “tentativi”. Il mondo è un caos, ma si cerca comunque di interpretarlo, andando a tentoni, saggiando il terreno. Per rendere efficace questa ricerca, questa navigazione a vista, occorre trovare una forma letteraria alta. Per questo già alla fine dell’Ottocento i polacchi si inventano il saggio: il testo breve, scritto molto bene, che rende appetibile un argomento scientifico, sociologico, filosofico, storico…»
Dal saggio al reportage “alla polacca”, il passo è breve. I reporter polacchi hanno imparato a raccontare la realtà usando anche il grimaldello della letteratura. Come ha spiegato in un recente numero di “Internazionale” il giornalista e scrittore polacco Mariusz Szczygieł, “da centoventi anni viene coltivata nel nostro paese una narrativa di taglio documentaristico che chiamiamo reportage letterario. Gli autori possono ricorrere a tutti i mezzi artistici degli scrittori, tranne uno: non possono inventare niente. La storia che raccontano deve essere vera”. E se si parla di reportage, non si può non parlare di Ryszard Kapuściński, che come corrispondente dell’agenzia PAP girò mezzo mondo scrivendo di guerre, rivoluzioni e colpi di stato, dall’Angola al Guatemala.
«Kapuściński si definiva prima di tutto uno scrittore, un poeta. – racconta Cataluccio – Per me lui è stato un grande maestro. L’ho conosciuto quando lavoravo alla Feltrinelli, fu uno degli autori polacchi che proposi di pubblicare. Veniva spesso in Italia, e diventammo amici. Da lui ho imparato a guardare il mondo con curiosità. Quando si è giovani si è curiosi, ma a intermittenza, e inoltre si è poco tolleranti, si crede di saper tutto, e pertanto ci si approccia alla realtà in un modo dogmatico. Invece bisogna essere curiosi senza preconcetti, in modo da cogliere la realtà in tutta la sua ricchezza e complessità.»
Quando parla di Polonia e dei suoi amici polacchi, Cataluccio parla con entusiasmo e trasporto contagiosi. Ricorda gli anni passati a Varsavia, quel primo freddo inverno del 1977, e la scoperta di una città dove si trovava “come un topo nel formaggio”, e dove ancora oggi si trova come a casa. «Mi sono laureato in filosofia in Italia, ho avuto degli insegnati straordinari. Ma poi sono andato in Polonia, ed è stata quella la mia vera università.» Definisce la nazione centroeuropea «il paradiso delle contraddizioni. Là si può trovare davvero tutto e il contrario di tutto. Non a caso il francese Jarry, autore di quel testo capostipite del teatro dell’assurdo che è Ubu re, scrisse che la sua opera era ambientata in un luogo assurdo, cioè la Polonia. E in effetti quando vivevo lì, nelle lettere che scrivevo ad amici e familiari cercando di descrivere il mondo in cui mi trovavo, dicevo che se un giorno fossi uscito per strada e avessi visto un tram cominciare a volare, non mi sarei stupito. È un posto dove non ci si deve stupire di niente».
È un paese fragile, la Polonia. Dove la storia «ha picchiato forte. Non a caso i polacchi sono malati di storia, a Varsavia ogni dieci metri c’è una targa, e si continuano a costruire musei. Le ferite lasciate lì dalla Seconda Guerra Mondiale sono inimmaginabili. L’Olocausto ha spazzato via quasi il 10% della popolazione. E la durezza della guerra spiega anche perché la gente, dopo il 1945, non volle aprire un nuovo fronte contro i sovietici, e si rassegnò al comunismo».
Cataluccio cita Norman Davies, autore di God’s Playground” (Oxford University Press), uno studio sulla storia polacca tanto corposo quanto insuperato. «Al centro del continente, la Polonia si è trovata schiacciata tra mondi diversi: la Russia, l’Austria, la Prussia/Germania. Paese variegato, dove per secoli hanno convissuto cattolici, protestanti, ebrei e ortodossi, nel 1600 si estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero, e meritava davvero l’appellativo di Grande Polonia. Tutta questa eterogeneità era foriera di scontri, lutti, di una debolezza di cui i vicini si approfittavano. Ma anche di una grande vivacità e ricchezza culturale».
Se la Polonia del XVI secolo (o meglio: la Confederazione polacco-lituana) poteva essere definita “asilo degli eretici” per la sua tolleranza religiosa in un’era di guerre confessionali, quella contemporanea non rappresenta certo un modello per il resto del mondo. Come altri paesi europei, è invece scossa da ondate populiste e fremiti xenofobi. «Ce lo insegna un pensatore polacco, Zygmunt Bauman: si tratta di fenomeni connaturati con la modernità, sono le sue scorie, i suoi residui».
La barbarie della guerra prima e i rigori del comunismo poi, spinsero molti intellettuali a riparare all’estero. Una diaspora che impoverì la Polonia, ma infuse nuova linfa a tutto il pensiero occidentale. «Pensi, quando l’Einaudi, in risposta alla Garzanti, mise in cantiere la sua Enciclopedia, un’impresa che fu una catastrofe dal punto di vista editoriale ma ebbe un grandissimo rilievo culturale, si dotò di un comitato scientifico e di un parco di collaboratori internazionale, all’altezza della sfida. E la cosa interessante è che un terzo di costoro erano polacchi. La voce “Tempo”, per esempio, la fece Pomian, un filosofo polacco emigrato in Francia; alla voce “Povertà” lavorò Geremek, e così via…».
Il ritorno alla democrazia ha dato nuovo slancio alla cultura polacca. Che può contare su un pubblico attento. «I polacchi sono gente istruita, acculturata, che legge libri, va al cinema e al teatro. Ed è questa una delle maggiori risorse della Polonia contemporanea: la sua forza-lavoro preparata, ben istruita. Retaggio, pure, del sistema educativo comunista: una delle poche, pochissime luci di un regime con molte ombre».
Per Cataluccio è difficile sottovalutare l’importanza della scuola, e della cultura. Che «deve sempre essere critica, mai conferma dell’esistente. L’intellettuale non deve solo trasmettere il sapere, deve spaccare il capello in quattro. Quando il sole splende, deve ricordare che poi tramonterà. Il suo primo compito è essere critico». E oggi essere critici significa riconoscere l’immaturità che dilaga, a tutti i livelli, nella nostra società. «La nostra cultura occidentale è ormai fondata sull’imperativo di apparire giovani, fare i giovani, pensare da giovani. La gioventù è sempre un valore, la vecchiaia un disvalore. Pensiamo soltanto all’ubiquità della chirurgia estetica. I messaggi che anche i media veicolano sono tutti contrari alla maturità. Lo aveva capito, tempo fa, Witold Gombrowicz. Lui, che pure era innamorato della bellezza della gioventù, aveva inquadrato la pericolosità di questo fenomeno, il mito del non-crescere».
E proprio Immaturità è il titolo di un saggio che Cataluccio ha pubblicato con Einaudi nel 2004. Questa “malattia del nostro tempo” ci ha trasformato in Peter Pan che inseguono la libertà a tutti i costi, pronti a scansare ogni responsabilità, si chiami essa “matrimonio”, “figli” e così via. «Un altro Peter Pan, legato però alla Polonia, è Oskar Matzerath, protagonista del Tamburo di latta di Günter Grass. Oskar vive a Danzica, nel periodo tra le due guerre, e poiché è disgustato dal mondo degli adulti, che è brutto e pieno di ipocrisie, decide di non crescere».
Se però gli si obietta che molti giovani italiani “si rifiutano” di crescere non per loro colpa, ma perché la situazione economica e sociale è quella che è, Cataluccio annuisce: «Dietro il giovanilismo imperante si cela la gerontocrazia. Ma non è tanto un problema generazionale, quanto culturale. In Italia domina ancora la logica del clan, del familismo amorale. Siamo diventati un paese ingiusto e immobile, di rentier, di gente che preferisce fare i soldi affittando case piuttosto che lavorando».
Un insegnamento del grande storico Witold Kula, maestro di Bronisław Geremek, aiuta a capirne di più. «Lui era uno storico del feudalesimo, e riteneva che non si potesse fare storia senza un modello, senza elaborare delle leggi. Nel suo libro Teoria economica del sistema feudale, edito qui in Italia da Einaudi, enunciava una legge di cui spesso gli storici non tengono conto: la caparbietà con cui gli esseri umani cercano di mantenere il loro status. Se si tratta di migliorare la propria condizione sono tutti disponibili, ma nel caso opposto le cose cambiano».
Cosa ci potrà salvare, dunque? La risposta, insiste Cataluccio, si chiama scuola, cultura, scienza, arte. «Un ingegnere che conosce Euripide è migliore di un ingegnere che non lo conosce. Così come un letterato che padroneggia la matematica è migliore di uno che non ne sa nulla. In Italia, purtroppo, scontiamo proprio questo. – spiega, e cita l’esempio della casa editrice Bollati Boringhieri, che ha diretto. «Il suo fondatore, Paolo Boringhieri, aveva un obiettivo preciso: sbarazzarsi di quest’idea crociana nefasta che la cultura scientifica sia cultura di serie B. In Italia uno può vantarsi di non capire nulla di matematica. Negli ultimi decenni la nostra cultura ha avuto questo handicap, ma non è stato sempre così: ancora ai primi del Novecento, ad esempio, la facoltà di matematica e fisica di Palermo era una tra le più importanti del mondo. Abbiamo avuto fior fior di matematici, in passato, ma oggi il nostro sistema scolastico non sa più insegnare la matematica. E non dà neanche importanza alla musica, all’arte…».


“Pagina 99”, 15 marzo 2014

Il tossico esecrato e il matto addomesticato (Giorgio Bignami)

Giorgio Bignami, presidente del Forum Droghe, è uno scienziato ottantenne di grande prestigio per le sue ricerche medico-farmacologiche ed è probabilmente l'esponente più illustre dell'antiproibizionismo scientifico e di sinistra. Questo suo scritto, di alcuni anni fa, sviluppa una sorta di parallelismo tra la legislazione sulla droga e quella sulla psichiatria. Il risultato mi pare assai valido sia per la ricostruzione storica, sia per la permanente attualità di alcuni spunti. (S.L.L.)

La riforma sulla droga del ’75 e la legge psichiatrica del ’78, uno sguardo in parallelo trent’anni dopo
Nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, cioè proprio in uno dei periodi più tormentati della nostra storia recente, vennero approvate le due leggi – la 685/1975 e la 180/1978 – che avrebbero dovuto porre fine al regime barbaro cui erano assoggettati i tossicodipendenti e i malati mentali. Tali leggi erano il risultato di difficili mediazioni tra parti politiche assai diverse, o addirittura in perenne scontro tra di loro; quindi, ovviamente, non potevano essere perfette. Da un lato aprivano spazi, per chi ne avesse la volontà civile e politica, per azioni positive di notevole rilevanza; dall’altro di fatto non impedivano il mantenimento dello status quo a tutti coloro – politici nazionali e locali, amministrativi, tecnici – ai quali per interessi economici, corporativi, clientelari, ideologici e politici conveniva di non applicare le nuove norme, ignorandole o dichiarandole assurde e/o inagibili.
Sugli eventi dei primi anni successivi al varo delle due leggi è oggi possibile un giudizio quasi-storico. Stridente infatti appare il contrasto tra le situazioni nelle quali alcune parti hanno efficacemente utilizzato le nuove norme per cambiare radicalmente il destino di molti soggetti in precedenza bistrattati e puniti, e le molte situazioni in cui invece tutto è rimasto fermo, o i cambiamenti hanno avuto un carattere gattopardesco. In estrema sintesi, per la 685 si possono ricordare alcune delle ricadute positive: il modo intelligente in cui parte dei magistrati hanno applicato il criterio della «modica quantità»; la determinazione con la quale il ministro socialista Aldo Aniasi varò nel 1980 i decreti sui farmaci sostitutivi (metadone), incurante dei furibondi attacchi di varie parti sociali e politiche; la dedizione con cui molti operatori trasformarono le modalità di assistenza e cura, in particolare in quei servizi nei quali i decreti Aniasi non si ridussero alla pura e semplice erogazione di «droga di stato».
In campo psichiatrico, la 180 era stata preceduta da robuste esperienze ampiamente pubblicizzate, come quella di Gorizia, di Trieste e altre; quindi, in teoria, essa consentiva minori alibi per la sua mancata applicazione. Allo stesso tempo, tuttavia, la legge era segnata da alcuni handicap inevitabili, date le acrobatiche mediazioni di cui era il frutto; cioè: 1) trattandosi di una sintetica legge-quadro, una volta cessato il momentaneo accordo tra le parti politiche si apriva un vuoto durato quasi vent’anni nei provvedimenti applicativi (sino al primo Progetto-obiettivo degli anni ‘90); 2) la legge aveva un carattere prevalentemente medico-sanitario, conditio sine qua non per prevenirne la bocciatura: un carattere che spianava la strada alla mistificazione buonista ancora oggi prevalente (il matto, poverello, non è un colpevole da controllare e punire, ma un ammalato da curare, mutatis mutandis, come un qualsiasi altro ammalato, consegnandolo per l’addomesticamento a un potere medico da secoli esperto in materia). In conseguenza la posizione basagliana, che da un lato pienamente riconosceva la natura di vera e propria malattia di buona parte delle patologie psichiche, ma dall’altro insisteva sul fatto che i danni derivavano in massima parte dal modo in cui i pazienti venivano trattati e spossessati dei loro diritti (per incidens, questa tesi era sostenuta da ripetute indagini multicentriche dell’Oms, le quali dimostravano come la cronicità fosse in larga parte la conseguenza dell’organizzazione socio-economica delle società più sviluppate, oltre che da esperienze come quelle di Mosher negli Stati Uniti e di Ciompi in Svizzera) veniva e tuttora viene strumentalmente interpretata come una posizione estremista «antipsichiatrica». Tale indirizzo, secondo gli oppositori, danneggerebbe gravemente sia gli utenti che gli operatori, svalutando specifiche professionalità come quella medico-farmacologica e quelle psicoterapiche, promuovendo un assistenzialismo dequalificante. Quindi, per lungo tempo nelle sedi di servizio e di formazione ci si è guardati bene dal promuovere e dall’insegnare la professionalità almeno altrettanto ardua e «nobile» della comunicazione con i soggetti, della comprensione dei loro problemi, dell’assiduo sforzarsi nella ricerca di soluzioni appropriate (per i soldi, la casa, il lavoro, i rapporti sociali, la lotta allo stigma, la riappropriazione dei diritti): una professionalità che ovviamente non è in opposizione al corretto esercizio delle precedenti, in un lavoro di équipe ben integrata. (Chi ha poco tempo o voglia di leggere sull’argomento, vada almeno a vedere lo straordinario film «Si può fare» di Giulio Manfredonia).
Da un certo momento in poi i percorsi abbastanza simili – nel bene e nel male – della droga e della psichiatria cominciano a divergere. Smanioso di mostrarsi servo fedele degli Stati Uniti, forte delle paure stigmatizzanti abilmente alimentate in modo indiscriminato nei riguardi degli assuntori «pesanti» e di quelli innocui, Craxi impone di cancellare le parti più positive della 685 col Testo unico del 1990, firmato dalla teodem Rosa Russo Jervolino e dal socialista Giuliano Vassalli. Il resto è sin troppo noto, dal varo della Fini-Giovanardi al mancato rispetto, nei due anni del successivo governo di centro-sinistra, degli impegni assunti in campagna elettorale per la abrogazione di detta legge e per la promozione delle strategie di riduzione del danno. Per contro i successivi governi Berlusconi, mentre «fanno la faccia feroce» con i progetti di controriforma della 180, di fatto non riescono a farli avanzare di un millimetro; e forse, furbescamente, non hanno neanche l’intenzione di farli avanzare. Perché una tale differenza?
Forse conta soprattutto il diverso peso degli interessi nei due campi: da un lato i sempre più stretti legami tra politica, economia legale ed economia criminale, concimati dal proibizionismo, dall’altro le scaramucce di rilevanza assai più modesta per l’appropriazione degli spiccioli della spesa sociale e sanitaria destinati alla salute mentale (spiccioli che comunque già ora vanno in buona parte al privato, in particolare alle innumerevoli mini-strutture convenzionate di «riabilitazione» – leggi lungodegenza –, per lo più di basso profilo). O forse pesano le ricadute di storie diverse, cioè i quasi due decenni di robuste esperienze di innovazione in campo psichiatrico, prima del varo della 180, a fronte di azioni meno decise e meno avvertite dall’uomo della strada prima del varo della 685. O forse dobbiamo considerare soprattutto gli sbalorditivi «progressi» nelle tecniche di comunicazione, che hanno fatto sì che il consumo di droga – sia quello minoritario «pesante» e a rischio, sia quello maggioritario «leggero» e innocuo – e il disturbo mentale siano ormai visti in modo assai diverso da una parte crescente dei cittadini: il primo sempre più demonizzato, anche sfruttando le antiche incrostazioni ideologiche contro la «ricerca del piacere» fuori dalle regole; il secondo, decolpevolizzato e addomesticato soprattutto attraverso la medicalizzazione, ormai relativamente più tollerabile.
In ultima analisi, per costruire un’azione più incisiva, urgono chiare e documentate risposte a questi e altri interrogativi. Ciò richiede un impegnativo lavoro secondo indirizzi assai diversi da quelli oggi prevalenti nella ricerca, un lavoro che mentre la casa brucia non può esser delegato ai proverbiali posteri.


Fuoriluogo, 28 dicembre 2008

28.6.14

Oniromanzia. Una poesia di Sergio Pasquandrea

Man Ray, Venere
Le città in cui ti sogno hanno sempre
topografie impossibili
mi costringono a giri viziosi
a incroci paralizzanti

stanotte poteva essere Pescara tanto
erano orizzontali le geometrie
però gli attraversamenti non erano mai affidabili
una fatica fendere il grigio

perché come al solito mancava il sole
e in quel crepuscolo un lucore e quello
rincorrevo sperando fosse una scaglia
del tuo odore il refe da riavvolgere

sai nei sogni a volte succede si raggiunge
la felicità la si trattiene
anche con un po' di violenza se proprio
è necessario.


Da Approssimazioni, Edizioni Pietra Viva, 2014

Eros e poesia. Le approssimazioni di Pasquandrea (S.L.L. - micropolis giugno 2014)

Poeta audace e consapevole, Sergio Pasquandrea, insegnante a Perugia, si presenta con un libretto di modeste dimensioni ma non privo di orgoglio poetico e corredato da poche, belle illustrazioni di Michele Neglia: Approssimazioni (Edizioni Pietre Vive). Il terreno scelto da Pasquandrea per il cimento è improbo e scivoloso, l'eros, e, quasi a rendere la sfida più impegnativa e rischiosa, egli ha scelto di inserire i “pezzi” in una struttura compositiva tra il saggistico e il narrativo che ha modelli illustri quali il Canzoniere del Petrarca o i Colloqui del Gozzano; qui tuttavia quello che dall'uno veniva rimosso o celato, dall'altro neutralizzato attraverso l'ironia, viene direttamente affrontato e dichiarato nella nota introduttiva, di “poetica”, che è parte integrante del libro.
Nelle Considerazioni sul sesso e sul riso Italo Calvino spiegava come “la spessa corazza simbolica sotto cui l'eros si nasconde non è altro che un sistema di schermi coscienti o incoscienti che separano il desiderio dalla sua rappresentazione”. Pasquandrea, nelle sezioni del suo “romanzo” – tre come nei Colloqui - denominate “poetica”, “mantica” e “semantica”, descrive il tentativo di porre fine alla separazione di cui Calvino discorre: disegna cioè un tracciato “dalla mente al corpo, dal mondo immateriale della pagina a quello sensoriale della carne”, che non è tuttavia un percorso lineare, ma una serie di approssimazioni – appunto – cui sovente corrispondono degli allontanamenti.
In questo gioco di avvicinamenti e prese di distanza determinanti sono i passaggi:“Troppo d'importante accade sulla soglia” (Al buio) - dichiara Pasquandrea in un incipit che ci ricorda una riflessione di Walter Benjamin sulle soglie “da cui amanti e amici si succhiano le ultime forze” e sulla povertà nel Moderno di esperienze della soglia: “L'addormentarsi è forse l'unica che ci è rimasta. (Ma con questa anche il risveglio). E, in definitiva, attraverso delle soglie, come il mutamento di figure nel sogno, anche il su e giù della conversazione e dello scambio sessuale proprio dell'amore”.
Nella prima parte l'intenzione prevalente è prendere le misure all'eros attraverso l'astrazione matematica: “le scale e le quantità” e la “regolazione dei contrasti”. Nella sezione “mantica” è l'attività oracolare, interpretativa e predittiva, a dominare, ma ci si ferma in limine, prima cioè di conoscere fino in fondo “l'esatta misura del collasso” (Verso la fine), prima dell'“attimo /troppo luminoso per fissarlo a lungo” (Passing by). Il linguaggio, del resto, oltre ad essere fine e mezzo dell'eros, risulta anche impedimento: “fra le tue cosce e le mie era tutto un ruvido di metafore” (Prima del bene). Nella terza parte il contatto diretto con la carne, suprema approssimazione alla “verità” dell'eros, è fonte di deprimenti scoperte (“il cuore …. è roba dura da masticare”). Qui il desiderio cerca parole dappertutto, ancora nella matematica o anche nell'anatomia, senza dimenticare la botanica: un moltiplicarsi di approcci che significa un impasse.
C'è poi una “provvisoria conclusione”, un'unica poesia il cui titolo emblematico, “Nomina nuda”, ci riporta al medievale dibattito sugli “universali” e a Umberto Eco che ne trasse spunto per dar nome e, in parte, sostanza a un suo fortunato romanzo. Alla domanda “che cosa resta dell'eros” Pasquandrea sembra dare una risposta proustiana: i nomi svaniscono e le cose rimangono cose, se si arrendono alla bellezza, gli odori tuttavia sfidano il tempo, giustificano il silenzio e danno ad esso significato. Siamo “di fronte alla verità”? Non è detto; già in premessa l'autore, nel poscritto della nota introduttiva, aveva gettato una sinistra luce di ambiguità su questa conclusione, alludendo a una citazione di Borges che chiamava “segreta” sul nesso tra verità e finzione: era ovviamente un segreto di Pulcinella, o, più esattamente, “un segreto che non si può tener segreto” giacché questa è la natura dell'eros, intimamente legato alla parola.
Questa mi pare la trama delle Approssimazioni, questo il suo intreccio; il che – ovviamente – non esaurisce le possibilità di lettura. Io, per esempio, tra le qualità dell'autore ho apprezzato la sua capacità di produrre attacchi memorabili. Eccone qualche esempio: “Ti penso di profilo” (Cameo); “Sarà un sintomo certo/ (ma di cosa?)” (Economia dei ricordi); “Le vertebre cervicali sono più precise di un barometro” (Bollettino).
Ci sono poi alcune singole poesie che a me paiono davvero belle a prescindere dal contesto in cui sono collocate, dalla struttura che forse le ha generate: le Quattro quartine, Verso la fine, il Cameo, l'Attesa, Passing by, L'amore d'inverno, per esempio. Una lirica in particolare non esito a definire un capolavoro, piccolo forse ma capolavoro. Si intitola Oniromanzia e ci riconduce al discorso di Benjamin sulle soglie e sui sogni. Ne cito qui solo la splendida conclusione: “sai nei sogni a volte succede si raggiunge/ la felicità la si trattiene/ anche con un po' di violenza se proprio/ è necessario”. 

"Comu voli Diu". Paradossi siciliani (S.L.L.)

Rosa Balistreri
Espressioni del tipo “come Dio vuole” o “come Dio comanda” in continente, specialmente nel Centro Italia, indicano una cosa ben fatta, le asole cucite con cura meticolosa, la coratella cucinata secondo le migliori tradizioni, le lasagne della domenica tirate a mano, il lavoro artigianale a regola d'arte. Al mio paese, come in altri della Sicilia, “comu voli Diu” è, al contrario, una cosa fatta in fretta in furia, arraffazzonata, senza alcuna attenzione ai particolari. Una pasta al forno “comu voli Diu” manca di qualche ingrediente essenziale o è stata fatta bruciare, riparati “comu voli Diu” sono i calzoni che mostrano la pezza e un lavoro di muratura è “comu voli Diu” se presenta irregolarità o lascia presagire cedimenti.
Questo significato negativo dell'espressione deriva dai tradizionali costumi matrimoniali, che prevedevano nozze riparatrici quando vi fosse stato ratto o fuga d'amore. Può usarsi, a mo' d'illustrazione, un noto canto popolare che Rosa Balistreri ha fatto conoscere anche fuori dai confini della Sicilia: Mamma, vi l'aiu persu lu rispetto (“Mamma, ho perduto il rispetto per voi”). Canta una ragazza che dalla finestra ha fatto salire in camera sua l'innamorato e ora intende andar via con lui (“ni 'nni fuiemu dirittu dirittu”, ce ne fuggiamo dritti dritti). “Po' – aggiunge in stile formulare – comu voli Diu m'a maritari”, poi come vuole Dio dovrò sposarmi. Le nozze “come vuole Dio”, cui si convolava dopo la fuitina, erano in verità un matrimonio celebrato di prima mattina, quasi di nascosto, senza abito bianco, senza addobbi e fiori in chiesa, senza invitati e regali, senza mangiate e bevute per parenti e amici. Nel matrimonio “comu voli Diu” non c'era nulla, neanche l'omelia del parroco, e perciò non dava soddisfazione; ma poteva comportare qualche vantaggio. In particolare si evitava il trattenimento, che per il numero dei convitati generalmente alto comportava una spesa importante e veniva perciò chiamato spinnaglia. Accadeva così che tra i più poveri si organizzasse una finta fuitina proprio per ridurre al minimo la dote e le spese per il trattenimento, che nel mio paese toccavano alla famiglia della sposa e contribuivano alla rovina dei padri di molte figlie.
Il mutamento di costumi ha fatto sì che, mentre le cose fatte “comu voli Diu” restano tante in ogni campo (penso alle riforme operate dalla politica, tipo quella dell'età pensionabile con i suoi “esodati”), di nozze “comu voli Diu” non se ne celebrino più, stante la pratica, anche in Sicilia diffusissima, della “convivenza” senza matrimonio. Sopravvive il modo di dire, ma non c'è più traccia dell'usanza che lo ha originato.

27.6.14

Le parate del presidente (R.M. - micropolis giugno 2014)

Il pezzo che segue, autore Roberto Monicchia, è stato pubblicato nella rubrica “La battaglia delle idee”. Mi pare che rappresenti un eccellente contributo alla critica tanto del trasformismo politico quanto delle confusioni e contorsioni storico-ideologiche che ad esso si connettono. (S.L.L.)
Non si può dire che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia lesinato l’impegno di rappresentante dell’unità nazionale. Anzi, giunto al secondo anno del suo secondo mandato - il nono complessivo – pare interpretare il ruolo in maniera creativa, con una forte impronta personale. Da quando si è insediato il governo Renzi e le riforme istituzionali si sono in qualche modo impostate, il ruolo politico “emergenziale” svolto da Napolitano a partire dalla caduta di Berlusconi nel novembre 2011 appare meno necessario. Certamente il Presidente vigila ancora su un percorso tutt’altro che scontato, né del resto sembrano imminenti le dimissioni che avrebbero sancito il suo completamento, ma tutto sommato pare che il Quirinale si possa dedicare a questioni almeno apparentemente di minore stretta attualità. Lo si è potuto notare nell’estrema cura con cui si sono organizzate le manifestazioni ufficiali per il 25 aprile e per il 2 giugno.
Nonostante la ritualità delle occasioni, Napolitano è riuscito a dare in entrambi i casi una forte impronta personale. In tutti e due i momenti il tema centrale è stata l’orgogliosa rivendicazione dell’importanza dell’esercito e della difesa armata. Il 25 aprile il Presidente è partito dalla constatazione che la Resistenza “fu una mobilitazione armata” perché “non c’era spazio per un’aspirazione inerme alla pace; l’alternativa era tra un’equivoca passività e una scelta combattente”. Da questa ineccepibile tesi Napolitano trae conseguenze sui doveri di oggi: “Non possiamo sottovalutare la necessità di essere in grado di dare un concreto apporto, dove sia necessario – come già lo è stato in diversi teatri di crisi – sul piano militare”. Il sillogismo è fallace tanto per eccesso di generalizzazione quanto per difetto di contestualizzazione. Da una parte non si capisce cosa abbiano in comune la guerra di liberazione e l’intervento militare all’estero e d’altra parte si sorvola sul fatto che la Resistenza nasce e si sviluppa come reazione al disastro della guerra voluta da Mussolini e dal Re. Trascurando questa frattura, il Presidente spinge il discorso quasi all’opposto del punto di partenza: “Dobbiamo procedere nella piena, consapevole valorizzazione delle Forze Armate [...]. Potremo così soddisfare esigenze di rigore e di crescente produttività nella spesa per la Difesa, senza indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere incomprensioni di fondo e perfino anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni antimilitariste”.
Tutto hanno visto in queste parole l’invito al Parlamento a confermare l’acquisto degli F35. Pochi, al contrario, hanno commentato la durissima repulsa delle “pulsioni” antimilitariste. Ma la Resistenza fu una guerra per bande non solo per le condizioni in cui i partigiani si trovarono ad operare, ma anche per la scelta di un’alternativa politica e morale al fascismo. In questo senso essa fu profondamente (e giustamente) antimilitarista. Anche da quelle “anacronistiche diffidenze” nasce l’art. 11 della Costituzione con cui l’Italia “ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”. Insomma, il passaggio dalla necessità della resistenza armata all’esaltazione aprioristica degli apparati militari rischia di portare a un patriottismo indistinto, lo stesso dei nemici della Resistenza. E’ coerente con questa impostazione (molto meno con i valori del 25 aprile) l’omaggio finale ai marò Girone e La Torre, i quali “rendono onore alla patria e sono ingiustamente trattenuti”.
Stesso tenore nelle dichiarazioni del 2 giugno, festa della Repubblica trasformata da tempo in una festa della forze armate, nonostante quel giorno si sia tenuto un referendum e non una battaglia. Napolitano non solo difende la parata militare, ma vi riporta, dopo un anno di “sobrietà”, anche le Frecce tricolori. Nel 68mo anniversario della Repubblica e a cent’anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale, - dice il messaggio del presidente - ho rinnovato con particolare commozione il mio omaggio al sacello dell’ignoto soldato caduto, con tantissimi altri, in quell’immane tragedia che ha segnato indelebilmente la storia del nostro paese e dell’Europa.” Anche qui ritroviamo l’indebita continuità tra avvenimenti storici molto diversi, nonché l’oblio riservato, ad esempio, alle “pulsioni militariste” che furono tra le cause della “immane tragedia”. Confondendo tutto nel calderone del patriottismo non si fa un buon servizio alla verità e nemmeno alla patria.

la candida, l’intatta Una poesia di Viola Amarelli

Cuore bambino dove
la briciola diventa meraviglia
e l’orco resta ucciso grasso
e sciocco
la candida, l’intatta 
noncuranza.


Dal sito “Nazione Indiana”

26.6.14

Girovago. Una poesia di Giuseppe Ungaretti

Campo di Mailly maggio 1918
In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare

A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto

E me ne stacco sempre
straniero

Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute

Godere un solo
minuto di vita
iniziale

Cerco un paese
innocente

da L'allegria (1914 - 1919)

Pigmei, addio (Giovanni Maria Pace)

Ragazzi pigmei dell'Africa centrale
Genova - Durerà fino al 15 novembre la mostra, allestita dal Comune nei Giardini di viale Caviglia, che Marco Baiardi e Franco Di Natale dedicano ai Pigmei piccoli giganti d'Africa. Va detto subito che con pochi altri primitivi l'umanità ha tanti debiti - non fosse altro che di favole e leggende - quanti ne ha verso i pigmei. E con nessuna minoranza etnica si è comportata e si comporta in modo tanto ingiusto. I pigmei sono piccoli, è vero. Sono fatti così perché "adatti", in senso darwiniano, alla foresta: l'ambiente in cui vivono da sempre, da molto prima che vi arrivassero i neri, inceneritori di alberi. Ma non sono alti "un cubito", come dice il nome affibbiato loro dai greci. Superano, seppur di poco, il metro; statura ideale per arrampicarsi sugli alberi, raccogliere i frutti sulle cime più alte, impadronirsi del miele che l'ape selvatica nasconde nei tronchi a cinquanta metri dal suolo. Sono adatti, i pigmei, all'ambiente in cui vivono e col quale potrebbero continuare a coesistere armoniosamente, se gravi pericoli non li minacciassero. Essi praticano il nomadismo, non costruiscono alcunché di stabile, lo spazio da loro provvisoriamente occupato viene presto riassorbito dall'"oceano verde": insomma, i pigmei non disboscano per coltivare, come i parvenus neri e bianchi, nemici della foresta.
L'intrinseca provvisorietà li porta a trascurare gli oggetti, a ignorare l'accumulazione. Gli unici beni che posseggono sono quelli necessari alla cucina e alla caccia: l'arco, la balestra, le frecce intinte in un veleno vegetale che paralizza la preda, talvolta perfino l'elefante; allora il gruppo nomade si ferma nella radura per consumare il maxi-pasto, ed è una gran festa. Il disinteresse per gli oggetti semplifica e ammorbidisce i rapporti sociali: i pigmei non hanno capi né gerarchie, sono anarchici congeniti. Non hanno neppure tribunali. Quando un suo membro si rende colpevole di una qualche trasgressione, il gruppo reagisce con derisione o ostenta indifferenza: un esilio senza separazione che, riparato il torto, non lascia rancore tra gente descritta come gioviale e di buon carattere. E pensare che Montandon, ancora negli anni Trenta di questo secolo, vedeva nei pigmei "un ramo aberrante" uscito chissà come dal tronco umano "autentico", quello in giacca e cravatta. Un altro contrassegno calunnioso che i pigmei si portano dietro è quello di essere una variante arborea della razza negra; mentre - afferma Brunetto Chiarelli, ordinario di antropologia all' università di Firenze - negri non sono, come si può rilevare dai tratti somatici: labbra fini, pelle più chiara, occhi talvolta azzurri.
Ma il disprezzo per i pigmei è antico e tenace. Fin dall'esordio in letteratura furono coperti di fango. Il mito greco li vuole infatti "nani abitanti della Tracia" che, avevando osato assalire Ercole, furono da costui sgominati con una risata. Mentre Omero accredita il concetto (che nei secoli successivi diventerà un'idea fissa) che i pigmei siano in continua guerra contro le gru. I loro veri nemici sono invece la deforestazione, l'asservimento alla popolazione nera che ne invade gradualmente l'habitat, l'ipocrisia dei governi, falsi protettori delle minoranze.
I pigmei dell' Africa equatoriale sono all' incirca 15.000, sparsi in una zona di 2000 chilometri per 800, a cavallo di Stati quali il Camerun, la Repubblica Centrafricana, lo Zaire e la Repubblica del Congo. Popolazioni di piccola taglia si trovano anche in altri continenti; il professor Chiarelli ne ha recentemente scoperto un gruppo in Venezuela, ai confini con la Colombia, in collaborazione con la dottoressa Adelaide Diaz De Ungria, dell' università di Caracas. Questo gruppo è importante perché si trova in una situazione di polimorfismo in cui non tutti gli individui sono bassi (come i pigmei dell'Africa), ma nella stessa popolazione convivono indios normali e indios piccoli. Questi abitatori della foresta vicino al lago di Maracaibo si trovano dunque in una fase di transizione: sono un esperimento vivente che verrà interrotto dal contatto sempre più incombente con la civiltà, ma che agli studiosi dice già molto. Per esempio, chiarisce una volta per tutte che i pigmei non sono tali per una deficienza di ormone della crescita - come qualcuno ha ritenuto -, ma per un meccanismo selettivo a livello genetico che col susseguirsi delle generazioni tende a incrementare i mutanti (gli individui) di più bassa statura.
Torniamo all'Africa, terra di contrasti. Al polo opposto rispetto ai pigmei troviamo i vatussi e i masai delle savane, così alti - pare - perché si nutrono di latte e di sangue, cioè di cibi altamente proteici, così come fanno le popolazioni dei paesi industrializzati, in cui difatti la statura è cresciuta in media di 10-12 centimetri dall' inizio del secolo. Con la statura cresce anche la massa corporea e quindi l'impatto ecologico dell'umanità sul pianeta già sovraccarico. Anche qui i pigmei, che Buffon assimilava in sostanza alle scimmie, avrebbero qualche lezione da impartirci: potrebbero insegnare a noi bianchi (e ai neri) il modo di conservare l'equilibrio demografico. Le donne pigmee non vanno in genere spose prima dei 17-20 anni. Dato che a 35 sopravviene la menopausa (la vita media è di 35-40 anni), il periodo di fertilità matrimoniale si riduce a una quindicina d' anni, e il numero dei figli non supera di solito quello di due per coppia. La struttura della società pigmea è dunque patrilineare (gruppi stabili legati al maschio), monogamica (solo se la prima moglie è sterile la tribù da cui proviene deve fornirne una seconda) ed esogamica (scelta esterna della sposa, che avviene per scambio di persone e non di merci, in base al principio che se una tribù perde una testa deve acquisirne un'altra). Dagli schermi luminosi della mostra genovese gli sguardi un po' catatonici dei pigmei BaBinga accompagnano il visitatore all' uscita, nel frastuono della civiltà tecnologica. Grazie, pigmei.
Pigmei, addio.


“la Repubblica”, 2 ottobre 1984  

Due o tre note sull’ideologia del Movimento 5 Stelle (Romano Luperini)

Un nostro vecchio amico, compagno e anche un po' maestro - l'italianista Romano Luperini - ha pubblicato l'altro ieri queste sue note nel sito che dirige. Credo che sia utile diffonderle in un momento di rinascente interesse per la formazione politica guidata da Grillo e Casaleggio. (S.L.L.)
Max Gazzè con Beppe Grillo a Woodstock 5 Stelle - Cesena, luglio 2010
 Il Movimento dichiara di non essere né di destra né di sinistra. Esistono, afferma, solo decisioni buone o cattive (dobbiamo abituarci a questo schematismo morale di tipo manicheo), provvedimenti che fanno gli interessi del 99% della popolazione e altri che fanno solo quelli di un piccolo gruppo di potenti. Per prendere buone decisioni basta seguire la tecnica e la tecnologia. Conoscere le cose significa conoscere tecnicamente le cose: le leggi, i regolamenti, in cui i grillini diventano rapidamente espertissimi, la macchina delle decisioni, i funzionamenti e le informazioni della rete, vista come divinità onnipotente e positiva. La tecnica insomma. La tecnica per il Movimento è innocente, al più neutrale, ma in genere progressiva. L’ideologia della tecnica e della tecnologia si trasforma così in mistica (evidente nella futurologia di Casaleggio). Che la tecnica non sia affatto neutrale né in sé necessariamente positiva, che abbia incorporato nel proprio DNA un preciso sapere-potere, che risponda a determinati interessi e che insomma dipenda da un preciso comando ed esiga altrettanta precisa obbedienza, sfugge ai grillini. Il loro ingenuo scientismo tecnologico è frutto di questi anni in cui molti hanno un computer e un cellulare multiuso, e in cui, si immagina, sapere vuol dire sapere consultare Wikipedia e aggiornarsi sulla rete. Se al parlamento europeo occorre comunque allearsi con qualcuno, inutile stare tanto a guardare per il sottile: non conta essere di destra o di sinistra, basta tecnicamente arrivare a certi numeri, con chi non importa.
Come in ogni mistica religiosa, il discrimine fra “buoni” e “cattivi”, fra “puri” e devianti o eretici è fortissimo. Da un lato il sistema, dall’altro loro, i grillini. Il sistema è immaginato all’ingrosso, come una piovra che coi suoi tentacoli manovra e controlla. Bisogna scardinarlo e sostituirlo con qualcosa che resta sempre indefinito, anche se si capisce che, spazzate via le mediazioni intermedie, sarebbe regolato da decisioni prese soprattutto attraverso referendum elettronici. Dal sistema loro non si lasciano contaminare. Rispetto agli altri (a tutti gli altri) i grillini si considerano diversi, se non superiori, degli eletti, e per questo tendono a marcare le distanze da tutti gli altri, sino al dileggio e alla irrisione. Anche al loro interno sono sempre alla ricerca di eretici da epurare. Il dissenso diventa subito una eresia da mettere all’indice, scomunicare, espellere.
Ovviamente si tratta di una mistica ipermoderna, cioè sostanzialmente mediatica. Il leader è una star, ha una storia famosa alle spalle, un’aureola mediatica sulla testa, sa parlare alle telecamere, è ricchissimo, ha ville, auto, tutto ciò che una star deve avere. Soprattutto sa parlare alle folle, usando la tecnica che d’Annunzio e Mussolini avevano promosso un secolo fa e Berlusconi ha perfezionato in senso mediatico nell’ultimo ventennio, con degrado crescente del linguaggio e del costume civile. Dialogo con la folla che risponde a comando, anzitutto. E poi: parolacce, giochi osceni di parole, barzellette, battute, linguaggio bellico (“arrendetevi”, “siete circondati”, “è la guerra, è la guerra”…) che evoca astutamente la violenza mentre sembra escluderla dai concetti effettivamente svolti.
In questa ideologia, tutto torna. La coerenza non manca, favorita da una rassicurante semplificazione. Chiunque può fare politica. Non perché chiunque può avere una passione, una idea, una prospettiva, una speranza politica, ma perché chiunque può usare un computer e imparare ceti comportamenti tecnici. Una lunga preparazione non serve. Le mediazioni non servono. La politica la fa direttamente ciascuna persona, senza deleghe. Tutto è facile, tutto è semplice. Le complicazioni, la necessità di approfondimenti complessi, la esigenza di mediazioni sono solo trucchi messi in giro da una cricca di congiurati al potere.
Siccome essere “buoni” e fare il “bene” è semplice e facile (il che incoraggia tutti, lusingando la grande massa esclusa dal potere, anonima e frustata), se il male esiste deve essere un grande complotto a produrlo. Se si escludono dall’analisi le grandi forze economiche e sociali che fanno la storia, non resta che la personalizzazione estrema. Se non si studiano i conflitti sociali e le contraddizioni materiali, non rimane che questa conclusione: è il malvagio interesse di singole persone o di pochi gruppi che produce il male. E’ la logica imperante del complotto. Di qui un atteggiamento perennemente inquirente e sospettoso, a volte socialmente utile, a volte invece solo fastidioso.
Uno, si dice, vale uno. Tutti devono valere allo stesso modo, come accade nei referendum. Democrazia diretta. O meglio: regolata dall’elettronica. Chiunque vota premendo un tasto sul computer, conta. Le decisioni, dicono, si prendono così. Ma questa forma di rappresentanza spesso non è affatto democratica: non tutti intanto possono parteciparvi (l’esercizio della tecnologia è anche una forma di privilegio sociale); inoltre essa dipende sempre da come vengono presentati i quesiti e dalla loro stessa scelta, e dipende anche dalle circostanze di fatto in cui il referendum si svolge e che spesso vengono precostituite ad arte: se prima si prendono accordi con una forza xenofoba inglese, e si propaganda questa soluzione lasciando in ombra le altre possibili, sarà difficile poi che non prevalga.
Infine. Siccome si sa che in uno stato, in una società articolata e complessa, in una grande nazione, non sempre è possibile la immediata democrazia elettronica, a decidere di fatto saranno un paio di persone, fra l’altro prive di delega a svolgere questa funzione (dato che deleghe non ci sono). Il sogno della democrazia diretta si trasforma così in leaderismo e in autoritarismo. Uno vale uno per quasi tutti, non per tutti. Pochi, quelli che hanno il controllo del blog e delle informazioni e della tecnologia che lo guida, possono decidere tutto.
La civiltà ha bisogno di mediazioni. Certo, può guastarsi per eccesso di mediazioni, come è successo da noi. Ma la soluzione non è tornare allo stato di barbarie, quando le mediazioni non esistevano affatto. La civiltà richiede competenze, specializzazioni, deleghe revocabili e controllate. Ma controllate dalla partecipazione diretta alla politica, che è altra cosa dalla partecipazione telematica.

postato il 23 giugno 2014  

Il patto di Venere. Serres rilegge la fisica di Lucrezio (Mario Porro)

Nel 1977, l'anno in cui Prigogine vinse il Nobel, nel tempo delle catastrofi, delle strutture dissipative e dei frattali, Michel Serres, un filosofo francese, che la distanza segnala come tra i maggiori del Novecento, rilegge Lucrezio. Del suo sapere fornisce un'immagine più convincente e attendibile, oltre che attuale, questo articolo di Porro sul “manifesto”, recensione della traduzione italiana del suo libro per l'editore Sellerio. In quella scelta, controcorrente, mi pare di riconoscere lo zampino di Leonardo Sciascia. In ogni caso il Lucrezio di Serres (come il Leopardi di Walter Binni e Sebastiano Timpanaro) lo vedo tra i maestri della sinistra che verrà. (S.L.L.)
Roma. Il busto di Lucrezio al Pincio
La fisica moderna nasce all'epoca di Galileo: assunzione ormai consolidata, punto fermo in appartenenza indubitabile. Un libro di Michel Serres, Lucrezio e l'origine della fisica» (Sellerio editore, traduzione, accurata, di Paolo Cruciani e Anna Jeronimidis) ci forza invece a rivedere i nostri schemi abituali, che pongono la fisica greca nell'ambito del prescientifico, del metafisico, in particolare a ripensare la validità e la funzione storica dell'atomismo antico; ed ancor più ci induce a leggere un'opera di poesia, il De rerum natura di Lucrezio, come genuino trattato di fisica.
Lucrezio nel primo secolo a.C. ripropone l'insegnamento filosofico di Epicuro e la teoria del formarsi dei mondi a partire da un caos, da un disordine atomico, del «clinamen» (declinazione) produce uno scarto angolare minimale, infinitesimo, nel moto equilibrato cioè disordinato degli atomi, provoca la formazione di un turbine, di un vortice che temporaneamente riesce a vincere l'irreversibile «declinare» della cose verso la morte; nel clinamen fattore di nascita è già iscritta la dissoluzione. Dal disordine, dalla turbolenza (turba) che costituisce lo stato regolare della natura si genera un vortice (turbo), forma costitutiva primaria, relativamente stabile ed ordinata; l'ordine non è che la possibilità improbabile, «miracolosa», che si produce grazie al clinamen all'interno di un universo profondamente e normalmente instabile. Ma tutto ciò resterebbe al livello di intuizione prescientifica se non ricevesse la legittimazione dell'apparato matematico: ed infatti questo modello, viene matematizzato da Archimede. Le sue opere, solitamente ritenute un insieme disorganico di studi, appaiono invece di una coerenza estrema se lette come sistematica spiegazione dei problemi posti dal modello epicureo, vale a dire i problemi del calcolo infinitesimale, dei grandi numeri, dell'idrostatica, della geometria delle figure di rivoluzione ecc.
Ma per quale motivo la storia della scienza ha rimosso questa indicazione originaria di cui la scienza rinascimentale non è che «ritaglio», ripresa e rinascita? Per quale motivo si è esclusa a priori la possibilità di una fisica matematica greca? Perché, risponde Serres, il modello atomistico è stato sempre interpretato all'interno di una meccanica del solidi, di corpi rigidi, il cui canone è la riconduzione all'equilibrio, muoventesi in un sistema con funzionamento deterministicamente prevedibile; ed invece tale modello va letto come schema teorico di una meccanica dei fluidi, in cui si raggiunge una sintesi tra statica e dinamica, tra imprevedibilità locale (formazione dei vortici) e previsione globale (il procedere del flusso). In altri termini Lucrezio già si pone lungo il sentiero che conduce ai temi posti dal sorgere della termodinamica, costituisce il punto di riferimento genealogico dei dibattiti attuali su locale-globale, ordine-disordine, reversibilità-irreversibilità ecc.: «Di qui... Prigogine, lo scarto, i sistemi aperti, i turbini ripresi, le strutture dissipative, di qui Thom e la matematizzazione del modello. Thom, nuovo Leibniz e nuovo Archimede, rispetto a questi nuovi epicurei».
Il clinamen, si è visto, rappresenta l'operatore locale di trasformazione, è il responsabile della comparsa di oggetti che vincono temporaneamente il declino generalizzato verso l'entropia; nell'universo degli atomisti non è possibile formulare leggi invarianti e generali che regolino e ordinino ogni singolo momento di sviluppo del sistema, come invece avviene nella scienza classica (di Newton e Laplace), scienza in cui gli stessi fenomeni si ripetono identici, in cui obbediscono a regole necessitanti, in cui in fondo nulla di nuovo può nascere. «Il sapere così concatenato, infinitamente iterativo, non è che scienza di morte. Scienza delle cose morte e strategia della messa a morte. L'ordine delle ragioni è marziale... Le leggi sono le stesse dappertutto, esse sono tanatocratiche». Dall'universo cartesiano e newtoniano in cui lo spazio è omogeneo, spazio euclideo misurabile e dominabile, la natura è scomparsa, è scomparso il caso fortuito responsabile dell'origine stessa delle cose; lo spazio dell'atomismo è molteplice, differenziato, leggibile solo per mezzo di specificazioni topologiche, e l'universo si apre alla eccezione, è un universo plurale che può dunque essere espresso solo attraverso spiegazioni multiple, fallibili e non coercitive.
Il nuovo sapere di Epicuro e Lucrezio in tal senso, non si pone in guerra contro la natura, «non prova l'odio che fa inventare un soggetto né l'avversione nei confronti del corpo», ma stringe una «nuova alleanza» con la natura. Una volta stretto il «nuovo patto di Venere», una volta superata la «fisica di Marte» retta dalla violenza, dallo spirito del duello, il sapere stesso si esplica come un prendere diretto contatto con le cose, un sapere le cui leggi di formazione e di evoluzione non sono differenti dalle cose stesse. La storia della scienza si esprime in tal senso attraverso un modello complesso, che sfugge ai semplicismi, alle logiche a due valori (vero-falso, continuità-discontinuità, ecc.): esiste uno strato, «un quasi invariante», un flusso di fondo su cui avvengono sconvolgimenti locali, fratture o collegamenti, ma di ciò «il miglior modello è la cosa stessa», ogni oggetto in quanto resiste all'entropia, in quanto realizza un tempo reversibile nella caduta irreversibile verso il disordine. Il nuovo patto delinea così un «materialismo pacificato» che non progetta politiche di dominio e conquista; un materialismo che di fatto coincide con il fisicalismo. «Il soggetto che percepisce è un oggetto del mondo, immerso nelle fluenze oggettive... L'anima è corpo materiale, il corpo è una cosa, il soggetto non è che oggetto, la fisiologia o la psicologia è soltanto una fisica. E di conseguenza i sensi sono fedeli». Ogni disciplina obbedisce alle stesse leggi della fisica: «la metafisica è una fisica metaforica», la storia naturale e umana è anch'essa una fisica, e la morale non è che «una fisica intesa correttamente».
La storia umana, storia di lotte, di agitazioni, di turbolenze appare in questa luce iscritta fin dall'inizio nell'orizzonte della sconfitta, risulta persa in partenza: essa infatti per Lucrezio (e Serres), non fa che costruire eventi e avvenimenti che finiranno col disfarsi e dissolversi lungo il flusso inarrestabile della natura verso l'entropia; e ogni struttura organizzata che gli uomini sviluppano per arrestare e tenere in scacco l'irrevocabile non fa altro che aumentare la degradazione ed il declino. Il saggio, che comprende la fisica, evita la politica e la storia, luoghi del turbamento, delle nevrosi marziali, ricerca l'imperturbabilità (l'atarassia), sfugge alle relazioni umane, ritorna agli oggetti, lascia la natura com'è, cerca di riprodurne la condizione originaria che precede il formarsi dei turbini: ma realmente questa morale è un «vivere secondo natura» visto che la natura stessa è turbamento, continuo scarto all'equilibrio?
Il patto di Venere che il saggio epicureo stringe con la natura appare quasi segnato da un dominio opposto a quello classico: l'uomo è fagocitato dal mondo, non c'è distanza, non c'è scarto tra uomo e natura, tra pensiero ed essere, tra parole e cose. Se la cultura moderna, basata sulla totalizzazione e il dominio è «la continuazione della barbarie con altri mezzi», realmente l'unica pratica di pace è la «dissidenza, il ritiro, la secessione» del saggio epicureo? In una natura che si svela sempre più come molteplicità di sistemi aperti, che cosa, se non fattori storico-sociali, induce il saggio a rifugiarsi nel chiuso del Giardino di Epicuro? In realtà ora che la natura ci mostra un paesaggio differenziato, localmente poliforme e su cui si succedono nuove forme-forze, il vivere (e pensare) secondo la natura può finalmente assumere valenze che sfuggano alla ripetizione dell'identico, del già dato e del già detto, può divenire un vivere nelle contraddizioni di una natura che per l'uomo è anche, storia e cultura.

“il manifesto”, 13 marzo 1981

24.6.14

Contro la corruzione. Saint-Just alla Convenzione Nazionale (Parigi, 10 ottobre 1993)

Di fronte a una situazione che, con l'alibi delle ricorrenti emergenze, aveva consentito speculazioni bancarie, appalti truccati, accaparramenti e illeciti arricchimenti, quasi sempre con la complicità di governanti e funzionari, Louis-Antoine-Léon Saint-Just il 10 ottobre 1793, facendo rapporto alla Convenzione Nazionale in nome del comitato di salute pubblica, formulò la seguente proposta che mi pare tornata di attualità, almeno nella sua ispirazione generale. (S.L.L.)
Louis Antoine de Saint-Just
È necessario che voi graviate di tributi i ricchi, è necessario che stabiliate un tribunale al quale tutti coloro che hanno maneggiato da quattro anni il denaro della repubblica rendano conto del loro patrimonio. Questa utile censura eliminerà i furfanti dagli impieghi. Il Tesoro pubblico si deve riempire con le restituzioni da parte dei ladri e la giustizia deve finalmente tornare a regnare dopo l'impunità.

In I Grandi discorsi - Virtù e terrore - il manifesto 1996


La minerale solitudine... Una poesia di Leonardo Sciascia

La Chiesa si S.Francesco d'Assisi in Palermo
La minerale solitudine dei ciechi
fermi al sole sulle soglie,
la furia incandescente delle voci
dentro un mondo di tenebra: così oggi,
solo nella città grande,
io mi abbandono al muro di una chiesa.

 Da La Sicilia, il suo cuore in Fables de la dictature - La Sicile, son coeur, Pandora, Paris, 1980

Una proposta per la piena occupazione (Lanfranco Binni)

Sul “Ponte” di giugno con un titolo demodé e, se si legge per intero l'articolo, un po' provocatorio, Lanfranco Binni traccia un'analisi impietosa del quadro politico dopo i risultati delle elezioni europee, sia a livello continentale sia a livello della “provincia” italiana. La  proposta è una uscita in avanti dalla crisi della politica e della sinistra attraverso una strategia rivoluzionaria che utilizzi tutti gli strumenti istituzionali e mediatici a disposizione ma abbia al suo centro la presa di responsabilità e di potere degli sfruttati e degli oppressi dal basso. Nel discorrere di Binni c'e molto da discutere e da precisare, ma penso che il testo possa incontrare l'attenzione di chi non vuole arrendersi alle nuove, sempre più insidiose, forme di barbarie. (S.L.L.)
Madrid. Una manifestazione degli "indignados"
Con il non voto al 45,61%, il 40,8% del Pd corrisponde al 22,19% degli elettori “aventi diritto”. Il Pd ha attratto voti berlusconiani ed ex-grillini, e ha fagocitato i suoi alleati di governo indebolendone l’influenza parlamentare; il M5S, nonostante i linciaggi mediatici alimentati dai suoi stessi errori di ordine politico (ne parla diffusamente Mario Monforte in questo stesso numero della rivista), ha comunque consolidato la sua area di secondo partito nazionale al 21%; prosegue il declino di Forza Italia, destinato ad aggravarsi. Dall’analisi dei flussi elettorali emergono due dati particolarmente significativi: nel Pd confluiscono aree elettorali di “sinistra” tradizionale, di centro e di destra; dall’area del M5S defluiscono verso il Pd (ma soprattutto verso l’astensionismo) elettori di destra che lo avevano votato alle politiche del 2013 (emblematico il caso del Nord-Est). La sinistra della lista “L’altra Europa per Tsipras” ha superato a fatica lo sbarramento del 4%, per poi sprofondare immediatamente nelle endemiche contraddizioni dei partiti che la componevano (Sel, Rifondazione comunista, liberaldemocratici di «Repubblica»). Ora la partita si gioca a livello europeo, in un Parlamento indebolito dalle conseguenze delle politiche di austerità, ma soprattutto nel quadro italiano.
In Italia le elezioni europee sono state elezioni politiche di pretesa “legittimazione” del governo di Renzi e di rafforzamento apparente degli interessi atlantici che l’hanno espresso; in realtà la sua linea di conciliazione di interessi diversi (americani ed europei) e le sue promesse elettorali insostenibili lo mettono in una posizione di grande debolezza, anche in presenza di un’opposizione parlamentare e sociale che è costretta (e questo è il dato più positivo della situazione post-elettorale) a ripensare le proprie strategie, ad affinare le proprie armi: il confronto che si è subito aperto nell’area del M5S e della lista Tsipras potrebbe (deve) andare in questa direzione. Anche nella base popolare del Pd potrebbe aprirsi un limitato confronto sulla nuova natura centrista, democristiana e berlusconiana, del partito di Renzi.
Un confronto “aperto” (oltre le appartenenze e i recinti) su quali temi? Su due questioni centrali: la «democrazia» e il «modello di sviluppo» della società italiana. Nei risultati delle europee è presente (latente o dichiarata, generica e confusa) una forte domanda di cambiamento che attraversa gli elettorati del Pd, del M5S, della lista Tsipras e il non elettorato degli astenuti. Alle semplificazioni di una sfera politica marginale ed espressione di interessi più o meno nascosti non corrisponde la complessità del paese, della sua Storia, delle sue tradizioni culturali e politiche, del suo invecchiamento demografico. La condizione dei senza potere e senza voce, assordati dalle sceneggiate televisive degli imbonitori e dei politicanti, è drammatica; lo spettacolo di una “società” devastata è sotto gli occhi di tutti, e il futuro è chiaro: la crisi strutturale del capitalismo si aggraverà, le politiche malthusiane del Fmi, della Bce e della speculazione finanziaria creeranno nuove dilaganti povertà, le oligarchie politiche ed economiche coinvolgeranno nei loro conflitti (la guerra è la continuazione della politica) il proletariato internazionale, vecchio e nuovo. L’orrore economico di un capitalismo in crisi, alla vigilia della prossima crisi finanziaria, produrrà nuovi ed estesi disastri.
Quanto sta accadendo nell’Europa dell’Est, in Ucraina, deve far riflettere. Ne abbiamo già parlato su questa rivista (L. B., I cecchini della libertà, «Il Ponte», aprile 2014) all’inizio della crisi ucraina innescata dal tentativo di annessione europea che ha provocato reazioni opposte: il processo si sta sviluppando, e la risposta all’aggressione europea-americana è stata, oltre l’indipendenza della Crimea e la sua annessione alla Russia e la guerra in corso nei territori russofoni dell’Ucraina, il nuovo rapporto di cooperazione politica ed economica tra Russia e Cina (non solo gas). I grandi centri internazionali del capitalismo stanno ridisegnando le proprie aree di dominio e influenza, preparandosi a conflitti sempre più decisivi.
In questo quadro geopolitico determinante, la crisi italiana (crisi economica strutturale e politica) ha un aspetto prevalente: la cooptazione delle oligarchie “nazionali” della politica e della rendita finanziaria, storicamente deboli, eterodirette e straccione, la «borghesia compradora» di cui parlava Mao, in compiti di distruzione dei diritti e della democrazia “rappresentativa”, di devastazione dello “Stato sociale”, di militarizzazione della “società” (anche con le armi della comunicazione). Non ci sarà crescita economica, aumenteranno la disoccupazione di massa e la povertà, ma ci saranno gli F35 e il coinvolgimento dell’Italia nelle imprese imperialistiche dell’area atlantica, nell’Europa dell’Est e in Africa.
La politica è oggi ridotta a inerte gestione dell’esistente, con il corredo inevitabile di ruberie, corruzione (Denaro-Potere-Denaro), sopraffazione. Ai sudditi delle classi subalterne è riservato uno pseudo-potere elettorale, guidato ed estorto, anche comprato. Non è una novità, nella tradizione di questo paese che è stato la culla del trasformismo, del fascismo e del berlusconismo dilagato anche a sinistra. Ma oggi questa politica ha un compito urgente: portare a compimento la dissoluzione della democrazia rappresentativa e dei suoi strumenti di controllo previsti dalla Costituzione del 1948. Il disegno di trasformare il Senato in una camera del sottogoverno locale (altro che autonomie!) rientra in queste urgenze; la legge elettorale ultramaggioritaria deve garantire mano libera a chi governa; in economia, bisogna portare a termine (e in fretta, per ragioni geopolitiche) la precarizzazione del lavoro e la privatizzazione dei «beni comuni», rafforzando le funzioni di controllo autoritario dello Stato (per questo il monarca Napolitano, dopo aver messo in guardia contro l’antimilitarismo della tradizione socialista, allerta i prefetti e le forze armate di ogni ordine e grado nella prospettiva della repressione “democratica” di chi, dal basso, può opporsi).
Della parola «democrazia» è stato fatto scempio, non solo dagli anni Novanta (basti pensare a quell’intruglio di populismo e autoritarismo che è stata la Democrazia cristiana in tutto il suo percorso); oggi si definiscono «democratici» i fascisti, i clericali, i liberisti. Il campo semantico della «democrazia» è stato distorto e occupato dalle oligarchie di ogni genere che ne hanno fatto la propria maschera, come ci ricordano Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky nel loro recente colloquio La maschera oligarchica della democrazia (Bari, Laterza, 2014). Contro queste imposture, bisogna recuperare il senso di quella parola nel lavoro teorico e nelle esperienze di azione sociale. Questo compito riguarda tutti i segmenti dispersi della resistenza sociale alle devastazioni politico-economiche del liberismo e alle complicità con i disegni geo-strategici del capitalismo in crisi. E allora torniamo alla riflessione sui risultati italiani delle elezioni europee. Nella “vittoria” di Renzi confluiscono gli aspetti peggiori della tradizione politica di questo paese: il mito fascista del “capo” energico e decisionista, l’asservimento dei sudditi al capo e ai suoi gerarchi, il primato dell’orrore economico sulla vita quotidiana di tutti, la denigrazione violenta di chi si oppone. Esattamente come Berlusconi, l’egolatra tuttofare di Pontassieve si autopresenta come l’incarnazione della volontà generale (il Pd comincia ad autodefinirsi Pnr, partito nazionale di Renzi, all’ombra della macabra tradizione del Pnf) e si appella al consenso di una pretesa maggioranza «senza se e senza ma». L’ultima del capo è un promesso decreto «Sblocca Italia» che garantisce mani libere a chi ha trovato ostacoli nei “lacci e lacciuoli” della pubblica amministrazione (e vedremo chi sono quelle povere vittime).
Ma nonostante le rappresentazioni dei media al servizio delle oligarchie italiane, il quadro sociale presenta altri caratteri: si sta estendendo l’area potenziale di un cambiamento radicale, rivoluzionario e dal basso. Di quest’area fanno parte le nuove forme precarizzate della classe operaia, il ceto medio dei servizi, gli schiavi dell’immigrazione. È in quest’area che si stanno sviluppando embrioni di progettualità alternativa al sistema politico, al modello di sviluppo capitalistico, alle strategie imperialistiche: segmenti separati, tematici, e spesso su un terreno di generica “cittadinanza attiva” (l’onestà è sicuramente un grande valore in un paese educato alla furbizia e alla corruzione, ma gli onesti sono comunque prigionieri di un sistema corrotto e complice delle tante forme di criminalità). Si tratta di trasformare, attraverso azioni di collegamento e confronto sulle esperienze, questa debolezza della resistenza sociale in progetto politico complessivo di attacco puntuale alle oligarchie (nelle scuole, nelle fabbriche, sulle reti telematiche senza sostituirle mai alla prassi sociale, in Parlamento) informando, sabotando, aprendo contraddizioni, nella prospettiva di una “democrazia diretta” da praticare ed estendere, capace di coniugare dal basso il metodo della democrazia e le soluzioni di un socialismo (altra parola distorta, occupata da farabutti e rimossa) consapevole e forte delle esperienze complesse del ventesimo secolo (il leninismo, lo stalinismo, la socialdemocrazia, ma anche e soprattutto il luxemburghismo, fino al socialismo libertario «liberalsocialista» degli anni Trenta-Quaranta, il «liberalsocialismo» di Capitini che niente ha a che fare con il preteso liberalsocialismo liberale rivendicato da Scalfari in una recentissima intervista televisiva).
E l’Europa? È interessante, e del tutto condivisibile, la conclusione dell’importante Manifesto per un’Europa egualitaria di Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitrou (Derive Approdi, 2014): «L’Europa di oggi è resa fosca da disoccupazione di massa, condizioni di lavoro precarie e dal progressivo smantellamento dei diritti democratici. Non è più l’Europa della Resistenza antifascista degli anni Quaranta. Si tratta dell’esatto contrario della Federazione europea che avevano in mente il socialismo di sinistra della Resistenza italiana, della Resistenza francese e di alcuni gruppi di resistenti tedeschi. Chi sa oggi che antifascisti berlinesi e del Brandeburgo hanno salvato moltissimi ebrei e creato un collegamento con le cellula della resistenza dei lavoratori deportati stranieri, poiché in questi passaggi vedevano la preparazione a una “Unione europea”? E chi ricorda il programma federale europeo dei socialisti italiani di sinistra, che dopo la fine della guerra cadde vittima dei vortici della Guerra fredda e fu così stravolto attraverso l’imporsi della concorrenza borghese, diventando materia a buon mercato per la liberalizzazione delle merci e del mercato capitalistico? Oggi, settant’anni più tardi, possiamo ancora rifarci a questa eredità. Naturalmente non in senso letterale. Eppure, i progetti dell’antifascismo europeo sono congeniali allo spirito e agli scopi di un’associazione per l’Europa egualitaria: la Federazione dovrebbe portare non solo la pace nel continente, ma anche diritti umani, democrazia del lavoro, proprietà comune e benessere. Vorremmo partire da questi progetti e svilupparli, in assonanza con i tempi attuali. Esortiamo gli attivisti e le attiviste della resistenza sociale, gli attori e le attrici dell’economia alternativa, le correnti di sinistra dei sindacati e dei partiti, così come gli intellettuali impegnati, a fare fronte comune per elaborare una prospettiva d’azione che apra la strada a un’Europa socialmente giusta, libera dalla violenza, federale ed egualitaria».
Non un «fronte comune» politicistico e «compatibile», per partecipare più o meno passivamente ai riti e agli imbrogli del dominio oligarchico, ma un fronte comune di soggettività rivoluzionarie capaci di agire all’interno e all’esterno del sistema politico: all’interno per disarticolare le catene di comando, per mettere a nudo le dinamiche di potere e ostacolarle con scelte di noncollaborazione assoluta; all’esterno per sperimentare «nuova socialità» (il termine fu introdotto nel 1944 dal Capitini sperimentatore dei Centri di orientamento sociale in Umbria) e costruire reti di contropotere nell’intera area di cambiamento potenziale. La «democrazia» è la lotta per la democrazia, il «socialismo» è il percorso politico e teorico di due secoli di esperienze da rielaborare e sviluppare in un progetto che ridisegni completamente l’assetto istituzionale di questo paese, sulla base della Costituzione del 1948, nella prospettiva di uno Stato federale costruito dal basso, fondato su reali autonomie locali, federato a sua volta su scala continentale e in relazioni di cooperazione a livello internazionale. All’interno di questo processo, la «democrazia diretta», il potere reale dei cittadini, l’«omnicrazia» (ancora un termine capitiniano: il potere di tutti) sono obiettivi di orientamento dell’azione sociale sul terreno di un «pubblico» non statuale nel quale i «beni comuni» sono soprattutto le pratiche di liberazione, di confronto e cooperazione tra donne e uomini, giovani e anziani, nativi e migranti, e la costruzione di una realtà capace di liberare le potenzialità di tutti.

Non c’è tempo da perdere. Ognuno si faccia «centro», partendo da sé per interagire con gli altri, per costruire relazioni e reti di «centri», collegando menti ed esperienze, in verticale nei territori e in orizzontale su scala internazionale. La prossima ondata rivoluzionaria, democratica e socialista, sarà planetaria. All’occupazione negata dal capitalismo finanziario e dalle politiche malthusiane opponiamo la piena occupazione nel lavoro politico di resistenza e di attacco, nei luoghi di lavoro e di non lavoro, usando i ruoli sociali e le competenze per avvelenare i pozzi del potere, approfondire la crisi del capitalismo, produrre soggettività liberate, costruire dal basso progetti di organizzazione sociale e contemporaneamente aggregare le forze necessarie a realizzarli. Il lavoro nelle condizioni del capitalismo è comunque miseria e sfruttamento, costrizione servile. La piena occupazione dedicata a cambiare la vita (la propria e altrui) e a cambiare il mondo (di tutti) è liberazione in atto. Con apertura e rigore, «candidi come volpi e astuti come colombe», raccomandava Fortini.

Il Ponte, Giugno 2014

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