4.4.14

Seneca. Libero e morto (Lidia Storoni)

Tra le figure grottesche e turpi che compongono il cast del film Satyricon due sole si distaccano, nobili e austere: i coniugi suicidi. In quella coppia Fellini condensò una serie di stoici repubblicani del I secolo: gli oppositori, che si dettero la morte per «taedium vìtae» o in ossequio all' ngiunzione degli imperatori (Nerone, Domiziano). Non si sottoponeva un «Vip» ai laccio del carnefice; inoltre, il suicidio evitava alla famiglia la confisca dei patrimonio.
I processi, quando vi furono, e a dignità degli imputati, fornirono il modulo all'imminente martirologia cristiana. Ma scrivere l'elogio delle vittime del regime era pericoloso: chi celebrava il gesto supremo dei conservatori rischiava la morte.
L'opposizione era motivata da tradizionalismo politico e conservatorismo economico. I senatori, spesso patrizi d'antica famiglia, erano contrari (talvolta fino alla cospirazione) al nuovo corso impresso dai principato, che favoriva l'esercito e la borghesia produttiva a danno del latifondo e promuoveva il livellamento etnico e sociale. Il culto del sovrano, la deificazione di modello orientale, serviva a cementare l'unità degli spiriti, meta ambita da tutti gli imperatori, consapevoli della varietà delle stirpi e delle religioni nell'immensa compagine dell'impero.
Spesso le mogli, educate alla stessa disciplina morale, vollero condividere la sorte del marito: come la celebre sposa di Trasea, che si tagliò le vene per prima e gli porse il pugnale dicendo: «Non fa male». Anche Paolina, la consorte di Seneca, tentò di morire con lui, ma le fu impedito; e portò poi sempre sul volto la traccia di quel gesto e «il pallor della morte e la speranza».

Perenne compromesso
Tacito, nella sua apologia di quei patrioti — dei quali condivideva la fede repubblicana e la dottrina stoica, religione laica dell'élite — è tuttavia reticente nei loro confronti fino ad essere ambiguo; li definisce «rigidi, tristes». Si direbbe che il loro sacrificio gli apparisse teatrale, e sterile quella loro «mansuetudine da servi... quel sangue inutilmente versato... quel darsi supinamente la morte...». Forse perché non ebbe il coraggio di agire come loro? o perché, nel caso di Seneca, quella personalità complessa e contraddittoria sfuggiva alle caratterizzazioni delle sue categorie psicologiche? Seneca stesso, dal canto suo, ammirava Catone e Bruto, i più alti esemplari della martirologia repubblicana, ma non gli sfuggiva l'astrattezza utopistica dei loro ideali: era inutile, scrisse, voler restaurare un regime di libertà, quando non vigevano più i principi morali e i costumi nei quali quel regime era attuabile.
Seneca cercò dunque di adattarsi alla monarchia, riconoscendo che era necessaria e si mise al servizio di essa. Claudio l'aveva esiliato in Corsica — dove trascorse otto anni e scrisse la Consolatio ad Helviam, indirizzata alla madre — per una sua relazione con una ventenne della famiglia imperiale; richiamato da Agrippina, rientrò a Roma pronto a collaborare. Fu precettore di Nerone e suo consigliere, attuando il proposito, che era stato di Cicerone, essere l'eminenza grigia, il pensatore a fianco d'un principe filosofo. Forse fu connivente (o complice?) dei delitti di Nerone, certo dissentendo dalla sua politica finanziaria, che favoriva le classi meno abbienti, e dall'ideologia orientale teocratica. Esercitò funzioni da reggente, ne ebbe l'autorità: tutta la sua esistenza fu un perenne compromesso fra l'assoluto e il contingente, densa di quelle esperienze che un filosofo è tenuto a disprezzare come beni illusori: il piacere, la ricchezza, il potere.
Comunemente Seneca è visto come lo stoico moralista, fonte inesauribile di sentenze lapidarie da citare tra virgolette, intento a stendere opere di profonda meditazione nel più severo isolamento. In realtà, fu uomo di mondo, ricchissimo, letterato e politico oltre — o più — che pensatore; governò l'impero per cinque anni, vigile ai problemi finanziari e alla politica estera, sì che dopo la sua morte Nerone raccolse i frutti del suo sottile lavorio diplomatico, dal quale risultò rafforzata la supremazia di Roma sugli Stati d'oriente, l'Armenia, la Siria, i Parti; ma scrisse parole di fuoco contro i nefasti conquistatori di imperi, Alessandro e Cesare, e definì la guerra un assassinio non punito dai codice.
Più che ad espansioni imperialiste, Seneca mirava a un equilibrio duraturo nel quale Roma, naturalmente, avrebbe occupato una posizione egemone; ma rinnegò la patria dove ci si trova a nascere e anticipò Sant'Agostino nella sua visione d'una città interiore, nella quale sono cittadini coloro che praticano la virtù. Con spirito singolare per i suoi tempi, predicò l'eguaglianza fra schiavi e padroni («schiavi? ai contrario, umili amici...») e condannò gli spettacoli cruenti («l'uomo, cosa sacra per l'uomo, oggi si uccide per divertimento...»). Alieno dalle religioni iniziatiche d'oriente e incredulo degli Inferi, parla tuttavia dell'anima come di cosa celeste, destinata a far ritorno tra gli astri; forse sincero solo quando cede, con incerto tremore, all'ipotesi temeraria dell'immortalità: «mi lascio andare a una speranza così grande...». Per molti, le 124 Lettere a Lucilio — che la Bur ripubblica con il testo latino a fronte, introduzione di Luca Canali, a cura di Giuseppe Monti, — scritte negli anni del ritiro di Seneca dalla vita politica, nel 63-64 d.C., hanno contato quanto Le confessioni di Sant'Agostino per i cristiani. Vi si riconoscono, con uno scavo più profondo, pensieri già espressi nelle Opere morali o appartenenti ad altri filosofi, e ormai diffusi nella precettistica popolare: la filosofia, a Roma, perdeva il connotato speculativo, assumeva un tono didattico e le varie scuole finivano per emanare norme di condotta analoghe.

Colloquio con se stesso
In queste pagine, gli interrogativi fondamentali sulla vita e sulla morte trovano risposte che saranno poi riprese non solo dai seguaci della stessa scuola — lo schiavo Epitteto, l'imperatore Marco Aurelio —, ma anche dai mistici e, più tardi, da Piotino, da sant'Agostino, sì che ad alcuni parvero non improbabili le lettere apocrife fra Seneca e san Paolo (condannati negli stessi anni), tanto apparivano affini le due contestazioni.
Queste lettere non contengono l'auto-giustificazione d'uso nei memoriali dei politici a riposo o emarginati, ma solo l'itinerario d'un'anima, un compiaciuto colloquio con sé stesso. La libertas, esercizio giuridico di diritti conquistati nei secoli (leggi scritte in luogo di responsi oracolari, ricorso in appello contro i verdetti) fu parola d'ordine dei repubblicani, leit-motif ossessivo degli oppositori. Con Seneca, diventa possibilità estrema dì sottrarsi alla tirannide con il suicidio; sotto qualsiasi dispotismo, egli scrive, ti è aperta la via che conduce alla libertas; nel fondo del mare, nel laccio appeso a un albero, nel ferro che ti recide le vene.
Ormai amaramente convinto che il regime repubblicano fosse incompatibile con il dominio mondiale, Seneca morì vittima di quel sistema che aveva contribuito a rendere più forte, di quel principe al quale nel De clementia aveva prospettato l'immagine dei monarca ideale; espulso dal palcoscenico come attore d'un dramma ormai concluso, mentre interpretava scene di imminente programmazione, che sarebbero state rappresentate di lì a poco dai martiri cristiani. Privo del conforto della fede, credeva solo nella ragione e guardava serenamente in faccia la morte e Dio stesso, scrivendo: «Non obbedisco agli dèi, consento».


“la Repubblica”, 20 ottobre 1985

Nessun commento:

statistiche