26.4.14

Israele e il mito degli antenati ebraici (Shlomo Sand)

Nell'ottobre 2011, nel corso del FestivalStoria di Torino dedicato a Risorgimenti, ricostruzioni, rinascite, uno degli incontri di maggiore successo fu quello con lo storico Shlomo Sand, professore all'Università di Tel Aviv e autore del saggio L'invenzione del popolo ebraico (Rizzoli, 2010), molto criticato nel suo paese.
Una trascrizione del suo intervento (quella qui ripresa) fu pubblicata dal “manifesto” per la cura e la traduzione di Francesca Chiarotti. Il meccanismo che viene studiato ed evidenziato da Sand è quello tipico dei risorgimenti nazionali ottocenteschi europei, in cui gruppi intellettuali animati da un preciso disegno politico reinterpretano, riscrivono e talora inventano il passato in funzione del presente. I miti che ne derivano spesso non si limitano a sorreggere la formazione di uno stato “nazionale”, ma facilmente degenerano in un nazionalismo aggressivo ed imperialistico.
Israele sembra rispettare questa parabola, ma con due differenze importanti. Primo: la base del mito identitario è la trasformazione della “storia sacra” in “storia civile”. Secondo: il “popolo ebraico” disperso nel mondo ha una identità debole fino all'inconsistenza, mentre il “sionismo” continua a negare identità a un popolo che ha una sua esistenza oggettiva, quello degli israeliani dello stato d'Israele. Lettura molto interessante, vivamente consigliata. (S.L.L.)
Shlomo Sand
Il ricorso al termine fluido di «popolo», ha conosciuto molti avatar nell’epoca moderna. Se in un lontano passato, il termine si applicava a gruppi religiosi come «il popolo di Israele», il «popolo cristiano», o ancora, «il popolo di Dio», nei tempi moderni, il suo uso è diretto alla designazione di collettività umane che hanno in comune componenti culturali e linguistiche laiche.
In generale, considerando il periodo precedente l’avvento della stampa, dei libri, dei giornali, e dell’educazione controllati dallo Stato, è molto difficile utilizzare il concetto di «popolo» per definire un gruppo umano.

Un unico ceppo
Finché il livello di comunicazione tra le tribù da un villaggio all’altro era debole ed episodico, finché il miscuglio di dialetti differiva secondo le vallate, e il contadino o il pastore disponevano di un ristretto vocabolario, limitato al proprio lavoro e alle proprie credenze religiose, la realtà dell’esistenza dei popoli, può essere seriamente messa in discussione. La definizione di «popolo» relativa a una società di contadini analfabeti, mi è sempre sembrata problematica, e intrisa di un inquietante anacronismo
Sempre legati ai documenti scritti, trasmessi, all’occorrenza, dai centri di potere intellettuali del passato, gli storici sono stati imprudentemente inclini a generalizzare, e ad applicare alle società, nel loro insieme, le identità proprie di un sottile strato di élites, di cui davano testimonianza i documenti storici. Nei regni e principati, dotati di un linguaggio amministrativo, per la stragrande maggioranza dei soggetti, il grado di identificazione con l’apparato statale era, nella maggior parte dei casi, molto vicino allo zero. Se una forma di identificazione ideologica col potere è potuta esistere, essa era legata alla nobiltà terriera e alle élites urbane; queste compiacevano il sovrano, e davano una base al suo potere.
Cinquecento anni fa non esisteva il popolo francese, italiano o vietnamita, e, parimenti, non c’era neppure un popolo ebraico disperso per il mondo. Esisteva invece, fondata sulla pratica del culto e sulla fede religiosa, una importante identità ebraica, più o meno forte a seconda del contesto e delle circostanze; più le componenti culturali della comunità erano lontane dal culto, più si contaminavano con le pratiche culturali e linguistiche degli ambienti non ebrei che le circondavano. Le considerevoli differenze nella cultura quotidiana tra le varie comunità ebraiche, hanno costretto gli storici sionisti a sottolineare un’origine «etnica» unica: la maggior parte, se non tutte le comunità ebraiche, deriverebbero da uno stesso ceppo: quello degli ebrei antichi. La maggior parte dei sionisti non pensavano a una razza pura, tuttavia quasi tutti questi storici, hanno fatto riferimento a un’origine biologica comune come criterio decisivo di definizione di appartenenza allo stesso popolo.

Dal seme di Adamo
Così come i francesi erano persuasi di avere come antenati i Galli, così come i tedeschi sono stati nutriti nell’idea di essere discendenti diretti degli ariani teutonici, così anche gli ebrei dovevano sapere di essere gli autentici discendenti degli ebrei fuggiti dall’Egitto. Solo questo mito degli «antenati ebraici» poteva giustificare la rivendicazione di un diritto in Palestina; sono in molti a esserne ancora convinti, ai nostri giorni. Ciascuno sa che, nel mondo moderno, l’appartenenza a una comunità religiosa non costituisce diritto di proprietà su un territorio,mentre, al contrario, un popolo «etnico» trova sempre una terra che possa rivendicare come quella dei suoi antenati.
Ecco perché, agli occhi dei primi storici sionisti, la Bibbia ha smesso di essere una impressionante narrazione teologica, per divenire un libro di storia laica il cui insegnamento è impartito a tutti i bambini israeliani ebrei, dal primo anno delle elementari fino alla maturità. Sulla base di questo insegnamento, il popolo d’Israele non è più costituito da «gentili consacrati», ma è diventato nazione direttamente dal seme di Abramo, così, quando l’archeologia moderna ha cominciato a dimostrare che non ci fu l’esodo dall’Egitto, e che il grande regno unificato da Davide e Salomone non è mai esistito, la notizia è stata accolta da reazioni dure e imbarazzate da parte del pubblico laico israeliano.
La secolarizzazione della Bibbia ha avuto luogo in parallelo con la nazionalizzazione degli «esuli». Il mito costituito dall’esilio del «popolo ebreo» da parte dei romani, è diventato la suprema cauzione dei diritti storici sulla Palestina, costruito, secondo la retorica sionista in «Terra d’Israele». Assistiamo qui a un processo particolarmente sorprendente di «formattazione» di una memoria collettiva: così, mentre tutti gli studiosi di storia ebraica nell’Antichità hanno sempre saputo che i romani non hanno esiliato la popolazione della Giudea (non si trova, d’altra parte, la minima ricerca
storica su questo tema), il resto dei mortali è stato convinto, e lo è ancora, che l’antico «popolo d’Israele» è stato strappato con la forza alla sua patria, così come si dichiara solennemente, nella Carta d’Indipendenza dello Stato di Israele.

Rampolli illegittimi
Se non c’è stato, in passato, un popolo ebreo, il sionismo non è forse riuscito a crearlo nei tempi moderni? Ovunque, nel mondo, quando si è trattato di creare le nazioni, ossia dei gruppi umani rivendicanti per se stessi una sovranità, o in lotta per conservarla, sono stati inventati dei popoli dotati di una lunga anteriorità, di origini storiche lontane. Il movimento sionista ha proceduto allo stesso modo. Tuttavia, se il sionismo è stato in grado di immaginare un popolo eterno a titolo retrospettivo, non è riuscito a creare, in prospettiva, una nazione ebraica mondiale. Gli ebrei di tutto il mondo hanno oggi la possibilità di emigrare in Israele, ma la maggior parte di essi hanno scelto di non vivere sotto una sovranità ebrea e hanno preferito conservare la nazionalità di altri paesi.
Se il sionismo non ha creato un popolo ebreo mondiale, e ancor meno una nazione ebraica, ha, fatto tuttavia nascere due popoli e, anche, due nuove nazioni, che esso recalcitra purtroppo, a riconoscere, considerandoli «rampolli» illegittimi. Esiste, oggi, un popolo palestinese, frutto diretto della colonizzazione, che aspira alla propria sovranità; esiste anche un popolo israeliano, pronto a difendere, con totale abnegazione, la propria indipendenza nazionale.
Questo popolo – a differenza di quello palestinese – non beneficia di alcun riconoscimento, benché disponga di una propria lingua, di un sistema generale di educazione, di una produzione letteraria, cinematografica e teatrale che esprime una cultura quotidiana viva e dinamica.

Movimenti incrociati
I sionisti, nel mondo, possono fare dei doni a Israele, esercitare una pressione sui governi dei loro paesi a favore della politica israeliana, ma, nella maggior parte dei casi, non comprendono la lingua della nazione che dovrebbe essere «la loro», e si astengono dal raggiungere il «popolo che è emigrato nella sua patria» e evitano di inviare i loro figli a partecipare alle guerre mediorientali. Nel momento in cui queste righe sono vergate, il numero di israeliani che emigrano verso i paesi occidentali, si rivela superiore a quello dei sionisti che vengono a stabilirsi in Israele.

“il manifesto”, 13 ottobre 2011


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