12.4.14

Cancro. Biografia di un eroe maligno (Franco Voltaggio)

L'articolo, esposizione sintetica e critica di un'ampia ricerca, è ricco di notizie e animato da un forte senso storico. (S.L.L.)

Cellule di  un cancro al seno (Crafty_dame - Flickr)

Il cancro, indipendentemente dal sito e dalla parte, organo o sistema dell’organismo investito, è una patologia dei tessuti specifica e sempre identica a se stessa, contrassegnata da abnorme proliferazione di cellule irregolari che danno origine a una nuova formazione (neoplasia maligna o carcinoma) e, se il processo morboso progredisce, da una graduale dislocazione (metastasi) delle cellule maligne in siti relativamente distanti dal focolaio principale. La sua malignità è tale da farlo percepire come il principe incontestato di tutte le malattie, un essere vero e proprio la cui storia può essere ricostruita alla stregua della biografia di un eroe malvagio.
È quel che ha fatto Siddharta Mukherjee, medico e oncologo indiano, docente nella Columbia University di New York, Premio Pulitzer 2011, in un libro per molti versi straordinario: L’imperatore del male. Una biografia del cancro, Neri Pozza, 2011.

L’ipotesi di Galeno
Il cancro era conosciuto già nel XIII secolo a.C. dell’Egitto faraonico, ma solo nel V secolo a.C. i medici greci della Scuola di Cos, fondata da Ippocrate (460-370 a.C.), ne dettero una descrizione precisa e fu, pare, lo stesso Ippocrate a chiamarlo karkínos (alla lettera «granchio» – donde il nostro «cancro» – per la forma assunta nel suo sviluppo). Proprio dalla scuola di Cos comincia l’indagine sulla causa della malattia per mettere a punto la cura, ma l’indagine è disperante. Il tumore maligno non appare come un morbo epidemico, tale da ipotizzarne la genesi in un male esogeno di natura divina che «visita» una popolazione (il termine greco epidemía significa, per l’appunto, «visita a un demo»), ma piuttosto come una patologia degenerativa apprezzabile soprattutto in individui anziani e perciò quasi una malattia rara data l’allora modestissima attesa media di vita alla nascita (24-30 anni).
I tratti degenerativi tipici del cancro vengono così ricondotti a un fattore endogeno che, parecchi secoli dopo, il grande medico greco Galeno (128-200 d.C.), crede di cogliere nella condotta di uno degli umori, la bile nera (mélaina cholé) che, sovrabbondante, ristagna in una parte del corpo provocando ora la depressione o melanconia ora il cancro, ma, talvolta l’uno e l’altra, al punto che, per paradossale che possa essere, il secondo finisce con l’essere considerato (nella tarda tradizione galenica) una conseguenza della prima. L’ipotesi di Galeno si dimostrò comunque del tutto fantastica quando nel Rinascimento i progressi dell’anatomia evidenziarono la totale inesistenza della bile nera. La correlazione da lui stabilita tra cancro e «umor nero» aveva tuttavia un forte potenziale esplicativo. Metteva infatti in chiaro una verità che sarebbe emersa solo in epoca recentissima. La causa del terribile morbo va infatti ricercata non fuori,ma dentro il corpo umano.
A partire dalla seconda metà del ’700 i casi di cancro presero a moltiplicarsi rispetto al passato. Come oggi sappiamo, a causa dell’ambiente degradato dei centri urbani nella prima rivoluzione industriale, il cancro era ormai diventato una minacciosa presenza. Questa situazione rinverdì, da un lato, l’immagine medievale del morbo come quella di un mostro che dall’esterno si avventa sul corpo umano, dall’altro l’adozione, da parte della medicina istituzionale nel suo complesso, di una condotta cui si ricorre sempre a fronte di mali la cui eziologia è sconosciuta: pensare ai rimedi e poi, sulla scorta delle esperienze terapeutiche, rifarsi a queste per trovare la chiave per scoprire la causa.

Danni collaterali
A fronte dell’impellente esigenza sociale di una risposta tagliata sul bisogno, la medicina istituzionale rispose mobilitando la chirurgia che, ormai non più arte di barbitonsori, formava chirurghi degni di esser definiti “mani pensanti”. Protagonista di questa svolta fu tra gli altri il chirurgo scozzese John Hunter (1728-1793) che, acquisita una grande competenza di anatomo-patologo, asportò numerosi cancri (solidi) operando una sapiente distinzione tra quelli amovibili e quelli ormai diffusi nell’organismo (metastatici).
Sulla scorta di Hunter e di altri grandi chirurghi, all’inizio soprattutto inglesi e francesi, poi tedeschi e americani, la chirurgia nel XIX secolo fu a lungo la principale, se non addirittura l’unica arma strategica contro il cancro. Un’arma che affinava le sue tecniche rendendole sempre più efficaci come quando l’americano William Stewart Halsted (1852-1922) introdusse la mastectomia radicale, una procedura avverso il cancro del seno che oltre a comportarne l’ablazione totale, implicava altresì l’asportazione dei muscoli sottostanti e dei linfonodi relativi.
In buona sostanza, tuttavia, la chirurgia non eliminava il cancro, ma si limitava ad estirparlo, con l’aggravante che la sua natura invasiva era pagata a caro prezzo dai pazienti in termini di danni collaterali, nonché di vere e proprie (e spesso inutili) mutilazioni. Una procedura innovativa cruciale come l’introduzione dell’anestesia, pur migliorando certamente la fattibilità e la tollerabilità degli interventi, non ne ridusse il carattere invasivo. L’adozione dei raggi X per l’estirpazione del cancro, in sostituzione della chirurgia, anche se spesso a questa associata, portò tuttavia all’attuazione di strategie concluse spesso con remissioni.
Negli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale il cancro costituiva tuttavia un problema irrisolto. Nel 1937 la rivista americana «Fortune» pubblicava un articolo in cui se ne riassumeva la situazione nel mondo e in particolare negli Usa: crescita esponenziale dei casi, incertezza diagnostica, concentrazione esclusiva della cura nella chirurgia e nella radioterapia. Di lì a poco, tuttavia, le cose presero a cambiare e l’epicentro del cambiamento furono proprio gli StatiUniti. La sanità americana fu investita da un inedito interesse da parte del Governo e contemporaneamente cominciarono a intervenire decise novità nella ricerca. Attenzione governativa e della classe dirigente americana in generale, da un lato, e innovazioni terapeutiche corsero in parallelo avvitandosi in un circolo virtuoso.
A dare l’avvio all’opera di contrasto fu, indirettamente, la vicenda di un’epidemia infettiva e di un suo illustre malato, Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti dal 1933 al 1945, anno della sua morte. Roosevelt, già vittima nel 1921 della violenta epidemia di poliomielite che infuriava soprattutto tra i bambini (conosciuta perciò come paralisi infantile), candidandosi nel 1936 per la prima conferma del mandato, contro il parere dei suoi consulenti si presentò in pubblico in carrozzella e, una volta confermato, promosse nel 1937 una fondazione nazionale per sostenere la ricerca sulla paralisi infantile. Mostrando un’indubbia genialità politica, volle dimostrare agli Americani come per lui battersi per sconfiggere una malattia dei grandi numeri era una impresa non meno politica della lotta coraggiosa sostenuta per contrastare la Grande Depressione, essa stessa visualizzabile come una malattia dell’economia e della società.
L’esempio dato da Roosevelt nell’avviare un processo collettivo di contrasto di una grave tabe infettiva non restò senza conseguenze. Si cominciò a pensare che quanto si era fatto per la polio era
fattibile anche per i tumori maligni. Fu così che il cancro divenne oggetto di un crescente coinvolgimento dei privati nell’organizzazione e nel finanziamento della ricerca che per sua parte cominciò a presentare novità positive. Uno dei massimi oncologi americani, Sidney Farber (1907-1973) attivo nel Children’s Hospital di Boston dove seguiva i bambini malati di leucemia, lavorando nel laboratorio dell’ospedale, nell’estate del 1947 ebbe, per così dire, la sua «mela di Newton»: nell’assenza di una diagnostica strumentale (ecografia, TAC, risonanza magnetica) che permettesse di «vedere» la patogenesi e lo sviluppo del cancro in generale, la leucemia, tumore contrassegnato da una proliferazione patologica dei globuli bianchi (leucociti) nel sangue, si rendeva visibile al microscopio e poteva così essere quantificata. La stessa cosa si poteva fare con i tessuti di altri cancri. A questo punto diventava possibile pensare a farmaci in grado di aggredire e distruggere le cellule maligne al modo stesso in cui si procedeva nel trattamento delle malattie infettive, ma c’era un problema: come discriminare nella distruzione le cellule malate da quelle sane? Stabilito così l’obiettivo della sperimentazione, il paradigma di riferimento fu il principio dell’affinità specifica, già scoperto dall’immunologo tedesco Paul Ehrlich (1854-1915), vale a dire la proprietà di alcune sostanze di «legarsi» con i veleni del tessuto canceroso e di distruggerli, in una parola il principio base dell’immunità cellulare che fa sì che la tossina della cellula malata sia una sorta di serratura disposta a essere aperta, come da una chiave, unicamente da un’antitossina specifica per quella tossina. Come dire che per ogni tossina andava ricercata l’antitossina – più tardi ribattezzata anticorpo – congenere. Una volta individuata l’antitossina specifica, si trattava di produrre la molecola giusta e poi passare all’applicazione terapeutica.

Campagne di stampa
Era nata così la chemioterapia che, traendo origine dalle pionieristiche esperienze di Ehrlich, ebbe tuttavia il suo pieno sviluppo in America a partire dagli anni Cinquanta.
L’affermazione della chemioterapia richiedeva un enorme impegno di risorse finanziarie e umane non solo per la produzione industriale, ma anche per formare un personale in grado di organizzare e condurre la sperimentazione clinica. Per sensibilizzare il governo e i privati sul problema del cancro, si mobilitarono divi del cinema, imprenditori di successo e due filantropi milionari, i coniugi Albert e Mary Lasker che, sul finire della Seconda Guerra Mondiale rilanciarono una vecchia associazione per la ricerca sul cancro con una capillare campagna di stampa, appoggiandosi, per la necessaria copertura scientifica, a Farber, l’insuperato campione della lotta contro la leucemia. La cosa ebbe un successo tale da fare dell’associazione il referente privilegiato del Congresso per tutte le questioni relative al morbo. Ebbe luogo una sorta di americanization of cancer che toccò il culmine durante la presidenza di Richard Nixon quando nel 1970 il «New York Times» pubblicò un appello a prima pagina, a firma di Farber e di Mary Lasker, in cui si invitava il Presidente a sostenere la «Guerra contro il cancro». Al pubblico americano questa guerra, di cui si faceva intravedere la vittoria, veniva presentata come l’impresa di una grande nazione (meglio, della «Grande Nazione» per antonomasia) che avrebbe aggiunto un nuovo trionfo a quello dello sbarco sulla Luna nel 1969 e al «sicuro» esito della guerra in Vietnam.
La vittoria sul cancro per i Laskeriti poteva esser ottenuto perfezionando la chemioterapia, il che implicitamente incoraggiava Nixon a privilegiare il sostegno della ricerca applicata a tutto discapito della ricerca di base. Se in linea di principio è sempre auspicabile che questa non venga sacrificata, va aggiunto che la trasformazione di una malattia in un’entità tale da farne un nemico pubblico «numero 1», finì con l’avere conseguenze misurabili ad almeno due livelli: sotto il profilo operativo, perché venne indebolita l’opera di persuasione del pubblico ad adottare i corretti comportamenti di prevenzione; sotto il profilo etico, perché indusse a pensare che il cancro, alla stregua di un moderno diavolo, si impossessasse del malato colpevole di comportamenti illeciti e quindi quale peccatore suo complice (è del resto quanto è puntualmente successo negli Stati Uniti con il Sarcoma di Kaposi associato all’Aids allorché agli inizi degli anni Ottanta si conobbero i primi casi della terribile malattia: la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita venne definita Gay syndrome, dell’omosessuale», dal Center for Disease Control di Atlanta).

Crociata internazionale
A misura che il XX secolo si avviava alla fine, la cura del cancro, dei tumori solidi in particolare, prevedeva (e ancora prevede) un iter rituale: intervento chirurgico, chemioterapia, radioterapia. Certo non mancano i successi: le recidive sono meno frequenti e le remissioni prolungate spesso sino alla definita guarigione. I progressi clinici sono agevolati da una conoscenza più approfondita dell’epidemiologia, da una prassi sofisticata nell’allestimento e nella conduzione dei trials, dal monitoraggio degli stress ambientali e delle abitudini di vita (che investono soprattutto i costumi alimentari e notissime dipendenze come quella dal fumo), nonché dalle campagne mediatiche di prevenzione alle cui indicazioni il pubblico si mostra ora sempre più sensibile.
Nel frattempo comunque molte cose stanno cambiando. Per cominciare la «guerra contro il cancro» non è più una delle tante «crociate» americane. L’America resta certo la mecca della ricerca, ma una mecca decisamente internazionalizzata dalla presenza di cervelli in fuga dall’Europa e dall’Asia. Costoro non si limitano a diffondere conoscenze acquisite nella loro formazione remota, ma comunicano un modo diverso di considerare il cancro in sé. A molti di loro, come ad Howard Martin Temin (1934-1964) e David Baltimore (1934), allievi di Renato Dulbecco (1914), si devono ricerche genetiche che hanno prodotto un mutamento di prospettiva.
Il cancro non va studiato come una malattia (anche se ovviamente lo è) ma come un processo di crescita cellulare che sembra seguire un suo progetto consistente nell’attivare gli oncogeni e disattivare i geni oncosoppressori, agendo su meccanismi molecolari che agiscono da regolatori. Attivazione e disattivazione conseguono da mutazioni fuori dal nostro controllo. Come l’organismo normale è esso stesso un organismo in via di sviluppo e le sue cellule paiono programmate per produrre una vita «diversa» parassitaria.
È per questa ragione che il paziente lo avverte come un ingombro, un peso (è questo, d’altronde, il significato della parola greca ónkos che Mukherjee riconduce al radicale indoeuropeo nek).

La morale della compassione
Questo peso, tuttavia, al di là di un problematico intervento di ingegneria genetica inteso a «scaricarlo», si presta a essere declinato diversamente: o è una vita che tenta di sostituirsi a quella presente secondo scansioni che sono al tutto imprevedibili e che, pertanto, ci invita ad abituarci a convivere con il cancro invincibile come lo è il bíos, tenendo altresì conto del fatto che viviamo di più e meglio, per cui abbiamo maggiori occasioni di avere a che fare con i tumori maligni; oppure è un’occasione per vivere con una maggiore intensità, da medici in particolare, le disavventure non solo sanitarie dell’altro.

Nell’aura di affetti evocata dal medico e ricercatore indiano, un’aura nella quale la medicina si volge in un’austera morale della compassione, sembra davvero, come suggerisce Ingmar Bergman nel Posto delle fragole, che «il primo dovere del medico è quello di chiedere perdono».

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