30.4.14

I corvi e le gru (Francesco Lanza)

I corvi sentono l'acqua e la chiamano:
- Qua! Qua! acqua! acqua!
Se alto nel cielo passa il triangolo delle gru, e una avanti che fa strada, l'acqua è appresso.

Da Almanacco del popolo siciliano in Mimi ed altre cose, Vallecchi, 1946

Cinquemani e un orecchio (f.d.b.)

A firma f.d.m. e con titolo lievemente diverso («L'orecchio a Cinquemani non l'ho morso né staccato io») l'articolo è stato pubblicato sulla prima delle pagine di cronaca dell'edizione agrigentina di un quotidiano catanese. Non mi pare il caso di aggiungere commenti. (S.L.L.)
Il giudice Francesco Pizzo durante un'udienza del Tribunale di Agrigento
«Io non ho staccato l'orecchio ad alcuno, non so chi sia stato, sono stato chiamato dopo due mesi dai carabinieri per qualcosa che non ho mai compiuto». Davide Dispensa di 34 anni, imputato per lesioni aggravate a danno del concittadino Luca Cinquemani ieri mattina dinanzi al Tribunale si è difeso - è proprio il caso di dirlo - «con i denti», rispetto all'accusa della parte civile e della Procura.
Dispensa nell'agosto 2009 venne denunciato perché nei pressi di un locale di San Leone il «Big Mamas» sarebbe stato autore di un presunto atto di quasi cannibalismo. Secondo quanto raccontato dalla parte lesa, Dispensa avrebbe puntato Cinquemani (trasferitosi dopo il fattaccio con la famiglia a Trento) reo - secondo lui - di averlo guardato in un modo ritenuto lesivo, facendolo reagire in maniera violenta.
Sempre secondo l'accusa, Dispensa avrebbe aggredito, Cinquemani tanto da farlo cadere, non prima di avergli staccato con un morso un pezzo di lobo di un orecchio, sputandoglielo addosso. La difesa dell'imputato - rappresentato dall'avvocato Monica Malogioglio - ha sempre evidenziato come non sia mai stato provato il riconoscimento da parte di Cinquemani del proprio vero aggressore. Ieri hanno deposto il medico Drago il quale ha confermato come Cinquemani abbia riportato lesioni estetiche moderato-gravi. Il collegio giudicante (Pizzo presidente, a latere Marfia e Ricotta) - su richiesta della procura e della parte civile ha deciso di citare la psicologa trentina Laura Dondé per la prossima udienza del 19 giugno.
Il protagonista dell'udienza è stato però l'imputato, il quale ha tracciato uno scenario opposto a quello che gli viene addebitato. «Con Cinquemani ci conoscevamo da anni. Nel 2005 ebbi un incidente in moto con sua sorella. Loro dopo qualche tempo volevano risarcito il danno, ma io non risarcii niente perché lei aveva torto». 
Poi il fatto: «Ero con mia moglie e amici, quando abbiamo notato urla e una rissa dal Big Mamas di San Leone. Ci siamo avvicinati e a un tratto Cinquemani mi ha sferrato una gomitata. Volevo reaggire, ma mia moglie e un amico mi hanno tirato via e ce ne siamo andati. Dopo 2 mesi mi hanno chiamato i carabinieri dicendomi che avevo una bella dentatura, ma non capii a cosa si riferissero. Ancora oggi non capisco cosa voglia da me Cinquemani. Perché non mi ha denunciato subito, se davvero gli avessi staccato l'orecchio? » ha chiosato Dispensa.
A ruota le dichiarazioni di Francesco Prinzivalli, teste a difesa.

“La Sicilia”, martedì, 29 aprile 2014

Il papa polacco (Agostino Spataro)

Puntodue.it è un sito canicattinese animato da Vincenzo (Vicio) Sena, uno dei pilastri della democrazia e della cultura di base in quella famigerata cittadina fin dai tempi del Cineforum. Nei giorni scorsi il sito ha diffuso un brano da un recente libro (I giardini della nobile brigatadi Agostino Spataro,  ex dirigente e deputato comunista dell'agrigentino. Contribuisco anch'io – nel mio piccolo – alla circolazione del pezzo, breve e sugoso, dotato di un finale fulminante. (S.L.L.)

Ormai dovrebbe essere chiaro, anche ai semplici che hanno esultato, che l’elezione del “Papa polacco” è avvenuta con l’intento di assegnare al Vaticano il ruolo di “spalla” al progetto neo liberista di globalizzazione dell’economia, di regressione culturale e sociale, portato avanti dalla coppia Reagan- Tachter.
Ruolo, probabilmente, rifiutato da Giovanni Paolo I, l’onesto Papa Luciani, la cui (molto) sorprendente morte spianò la strada all’avvento di Giovanni Paolo II.
A conti fatti, il Papa polacco si è rivelato una grave disdetta per l’umanità più povera e la più grande “fortuna” per i padroni ai quali ha spianato la strada della globalizzazione economica.
Egli è stato un formidabile globetrotter, non c’è dubbio. Ha incontrato milioni di persone. Però è stato molto selettivo perfino nei saluti. Sapeva distinguere e distingueva.
A Managua rifiutò l’omaggio deferente del prete-ministro della rivoluzione sandinista. A Santiago del Cile, invece, non disdegnò di affacciarsi, sorridente, con il dittatore Augusto Pinochet, dal balcone della “Moneda” a salutare la folla. Dimenticando che in quello stesso palazzo, violato e bombardato dai golpisti di Pinochet, fu assassinato il presidente legittimo Salvador Allende.
Il sangue dei giusti, presto lavato e dimenticato. 
Santo subito! Prima che qualcuno se ne accorga.  

La nicosiana (Francesco Lanza)



La nicosiana, che è che non è, se la fece col compare; e tutte intorno a domandarle: - O come fu, comare? Insegnatelo a noi, che non siam pratiche.
E quella: - Lo volete sapere? Venne il compare e si mise a toccarmi, e io lo lasciai fare dicendo: - vediamo che vuol fare il compare. - Poi tutta mi baciava e mungeva, e io dicendo: - vediamo che vuol fare il compare. - Poi cominciò a spogliarmi e ci coricammo insieme nel letto, e io: - vediamo che vuol fare il compare. - Poi mi montò addosso, e fece quel che giusto gli parve; e quando finì io finalmente ne fui accorta, e gli domandai spaventata: - O che avete fatto, compare ? - E lui: - E che ne so io? Ho voluto sentire come eravate di sapore: e siete più dolce della pasta di casa, e me ne congratulo con vostro marito.

dai Mimi siciliani, Brancato 2001

E' dolce nella sete... Una poesia di Asclepiade (III secolo a. C.)

Al centro, quasi a disegnare un cerchio,
la costellazione della "Corona Borealis",
grecamente
Stéfanos
E' dolce nella sete dell'estate
bagnare le labbra con la neve,
e dolce ai naviganti rivedere
al cessare dei freddi la Corona
di stelle che ci annunzia primavera.
Ma più dolce è vedere sotto un solo 
lenzuolo due ragazzi innamorati
a celebrare Venere di Cipro.

Da Antologia Palatina, V, 168 - Traduzione Salvatore Lo Leggio

Commento
Da vecchi - e abbiamo ragione di credere che Asclepiade lo fosse al tempo di questo epigramma - ci si contenta di guardare, immaginare, ricordare.


29.4.14

I rasoi automatici (Karl Kraus)

13 maggio 1909
I rasoi automatici consentono all'uomo di avere un viso liscio senza che sia toccato da mani estranee: ma in tal modo l'uomo perde quella eccitazione intellettuale che, fino alla scoperta dei rasoi automatici, il barbiere gli offriva. La maggior parte degli uomini, da quando hanno acquistato questo aggeggio, stanno nella più nera desolazione. Non conoscono più barzellette, non hanno più opinioni politiche, non sanno se fa bel tempo, non vengono a sapere che il dottor Maier, quel signore grasso che si fa sempre lavare i capelli, si è sposato. Per farla breve, stanno davanti allo specchio con il rasoio in mano e hanno un vuoto interiore. Cessano di esistere.
Che differenza con il passato, quando il modo ancora personale di radersi provvedeva a rallegrare lo spirito! Che spettacolo si presentava ai miei occhi quando entravo in una bottega di barbiere! Ecco un signore apparentemente altolocato che si curvò sul lavandino ansimando e sbuffando per l'umido piacere che provava. Ebbe ancora la presenza di spirito di asserire: «È di un Bismarck che abbiamo bisogno!».
Il garzone al quale erano rivolte queste parole, annui e cominciò a parlare delle abitudini di un ministro austriaco che aveva l'onore di servire. «Ma che mi dice: con la pomata?», ribatté il cliente sbalordito, e così, una parola dopo l'altra, la bottega si riempì del germe della fecondazione spirituale, e una risata generale proveniente da quattro poltrone dimostrò che il ponte fra i conflitti di classe lo gettava l'umorismo. La macchinetta ha eliminato questa fortuna, e ora qualcuno sbadiglia di fronte a uno specchio in cui non vede altro che la sua faccia.


In Aforismi in forma di diario, Traduzione e cura di Paola Sorge, Newton Compton, 1993

"La Repubblica" e il Quirinale (S.L.L.)

“La Repubblica” di oggi spara in prima pagina come “Berlusconi-show” l'accusa a Napolitano di aver negato la grazia.
Il quotidiano di Mauro, Scalfari e De Benedetti - ovviamente – nei giorni scorsi ha censurato e nascosto (e tuttora censura e nasconde) le accuse più gravi che il cavaliere caduto da cavallo ha rivolto a Napolitano, quando era ospite da Vespa: 1) di aver organizzato la "congiura" di Fini promettendo a costui il premierato (B. ha detto di aver 12 testimoni che hanno sentito, registrata, la promessa telefonica di Napisan); 2) di aver cospirato con non si sa quali ambienti finanziari per costringerlo alle dimissioni attraverso la pressione sul debito pubblico italiano (e di avere poi collocato al suo posto Monti, un premier al servizio dei tedeschi).
Queste accuse – a maggior ragione – sono state ignorate dagli “ambienti del Quirinale” e dal “Quirinale” stesso, che in genere, per molto meno, reagisce stizzito in ogni suo mattone. 
In verità la mancata grazia è un'accusa ridicolizzabile perfino dai granatieri di quel palazzo romano, le altre accuse - certo stravaganti se lanciate da un uomo politico che poi ha rieletto Napolitano tra squilli di trombe - richiederebbero comunque una riflessione sul ruolo del trasformista partenopeo in molti recenti passaggi della storia politica su cui si preferisce stendere un velo pietoso.

28.4.14

L'Italia che frana. La questione territoriale (Piero Bevilacqua)

Sui giornali toscani del 7 marzo 2014 si leggeva: “Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, questa mattina è tornato a occuparsi di dissesto idrogeologico con un sopralluogo sulla frana di Panicaglia, a Borgo San Lorenzo, durante la tappa mugellana del suo viaggio in Toscana: «Non possiamo sopportare che la Toscana abbia strade franate o ponti divelti dalla furia delle acque come è accaduto nel senese». È stata l’ennesima occasione per stendere un triste bilancio dell’emergenza perenne che interessa il territorio toscano: quella del dissesto idrogeologico. Ad oggi, ricordano dalla Regione, sono 150 le frane censite in Toscana”. Il mese prima, nella stessa regione la frana di Roccalbegna, nel grossetano, aveva spaccato in due una comunità, con gravissimi danni economici.
L'articolo che segue è vecchio, del novembre 2011, e trovava occasione nei disastri di quella stagione, affronta il tema in termini generali. I fatti dimostrano che quella materia resta attualissima. Credo che se ne dovrebbe parlare nella campagna elettorale europea in corso di svolgimento, come in quelle di molti Comuni. Ma sono certo che non si farà. Ho il sospetto che al ceto politico non dispiacciano le “emergenze”: non dico che le procurino appositamente, ma se capitano sono contenti, perché gli interventi per le emergenze si fanno con più discrezionalità e meno controlli nella spesa. (S.L.L.)
Roccalbegna (Gr)
Chi, ormai da decenni, studia la storia del territorio italiano, di fronte alle frane e ai morti delle Cinque terre e ora al disastro di Genova, oltre al dolore per le vittime prova oggi uno scoramento profondo. La voglia di non dire nulla, il senso dell’inutilità di scrivere e protestare. Chi scrive è troppe volte dovuto intervenire per commentare simili tragedie, tentando di mostrare le cause morfologiche e storiche che sono normalmente all’origine delle cosiddette calamità naturali nel nostro Paese. E, per la verità, lo ha fatto insieme a voci sempre più numerose e agguerrite di geologi, meteorologi, esperti. Tutto invano. E nell’ultimo ventennio più invano che mai, considerata la qualità intellettuale e morale del ceto politico di governo che ci è capitato in sorte e che del territorio italiano si è occupato per darlo in pasto agli appetiti speculativi.
Tuttavia, l’obbligo di contribuire alla riflessione collettiva su fatti così gravi finisce col vincere sul senso di frustrazione. Senza l’ostinazione e la tenacia, d’altronde, la lotta politica, specie per chi sì è ritagliato una piccola frontiera di critica e di opposizione, non sarebbe neppure concepibile. Oggi, di fronte agli eventi catastrofici che si susseguono, bisogna denunciare con chiarezza l’emergere di una grave questione territoriale in Italia. Non si tratta di una novità assoluta, le vicende del territorio hanno un corso lento, lasciano il tempo per essere osservate, ma essa oggi si presenta con caratteri assolutamente nitidi e drammatici per un insieme di ragioni. Mettiamo da parte, per brevità, la Pianura Padana, che ha problemi particolari, ma che ospita, ricordiamolo, il più complesso sistema idrografico d’Europa, essendo il ricettacolo dei grandi fiumi alpini.Si tratta dell’area più stabile del nostro Paese, eppure, anch’essa, è percorsa da sistemi di forze che possono assumere carattere distruttivo in caso di eventi climatici estremi.
Il problema principale si chiama Appennino. La dorsale montuosa con i suoi innumerevoli corsi d’acqua e gli ingenti materiali d’erosione che trascina incessantemente a valle. Un tempo, la centralità dell’Appennino nell’equilibrio complessivo della penisola era chiaro anche agli uomini politici, quando questi possedevano un proprio profilo culturale oltre al curriculum politico. Meuccio Ruini, ad esempio, che fu anche presidente del Senato, ricordava nel lontano 1919, come «contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma dell’Italia peninsulare è signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’impronta». Ora, è noto da tempo, l’Appennino è in stato di abbandono. Ma soprattutto in condizioni di abbandono si trovano le terre pedemontane e collinari interne, quelle che per secoli sono state presidiate dalle abitazioni contadine, che sono state tenute sotto manutenzione dal lavoro quotidiano degli agricoltori. Una delle ragioni della diffusione e della durata storica della mezzadria nell’Italia di mezzo (soprattutto Toscana, Marche, Umbria) che dal medioevo è arrivata sino alla seconda metà del ’900, è legata al fatto che essa prevedeva l’insediamento della famiglia mezzadrile nel fondo, impegnata a governare
un territorio instabile.
Ora, anche questo è noto, da tempo le colline mezzadrili sono state abbandonate, o sono coltivate industrialmente, con poche macchine e senza uomini. Tale situazione, nota da tempo ai pochi esperti e appassionati della materia, conosce oggi un aggravamento dovuto a più fattori evolutivi. Da una parte, il progressivo, ulteriore abbandono dell’agricoltura da parte dei piccoli coltivatori che non ce la fanno a reggere i bassi prezzi con cui viene remunerata la loro impresa. Un fenomeno a cui gli economisti agrari di solito plaudono, perché il modello competitivo – nel pensiero economico astratto - è naturalmente la grande azienda, senza alcuna considerazione di ciò che accade al territorio, quando scompare un presidio. Di norma, quando la piccola impresa non è accorpata a una azienda più ampia, il terreno viene progressivamente invaso dalla vegetazione spontanea.
Negli ultimi anni, tuttavia, a tale fenomeno si è aggiunto un sempre più largo uso edificatorio del suolo. Il cemento ha preso il posto degli ulivi o degli alberi da frutto. I comuni hanno fatto cassa svendendo il loro territorio.
Nel frattempo il circolo vizioso demografico si è venuto sempre più accelerando. Se si abbandonano le aree interne tutto tende a gravitare nelle zone di pianura, che nella Penisola solo prevalentemente le aree costiere. Qui oggi si accentra oltre il 66% della popolazione peninsulare. E qui sono insediati
industrie, servizi, infrastrutture, la ricchezza materiale italiana. Ma anche qui, negli ultimi devastanti decenni dei governi di centrodestra (e nella pochezza e brevità di quelli di centrosinistra) si è continuato a cementificare con furia da “accumulazione originaria” cinese. Ora, l’ultimo elemento che completa il quadro riguarda la frequenza degli eventi estremi, vale a dire, nel nostro caso, la straripante quantità d’acqua che oggi cade in poco tempo in delimitate aree territoriali. Si tratta di un fenomeno dipendente dal riscaldamento globale, che il climatologo inglese John Houghton, definì, nel 1994, come «frequenza e intensità di eccessi meteorologici e climatici».
Dunque, come in questi ultimi anni, le piogge tenderanno in futuro a presentarsi sempre più come eventi particolarmente intensi. E le acque, dalle colline abbandonate o cementificate, mal regimate, precipiteranno lungo le pianure costiere dove il verde – la spugna che un tempo assorbiva le piogge – è diventato sempre più raro, impermeabilizzato da chilometri quadrati di cemento.
Che cosa possiamo aspettarci? Davvero pensiamo di affrontare tale gigantesca questione organizzando meglio la protezione civile? Rendendo più efficaci i sistemi di allarme? È evidente che qui ci si presenta una sfida che è anche una grande opportunità per il nostro Paese. Sia per creare nuove occasioni di lavoro, sia per ridare orizzonti progettuali alla politica sprofondata nel tramestìo quotidiano. La prospettiva è: riequilibrare la distribuzione demografica e valorizzare le vaste aree interne della Penisola. Un grande progetto per scongiurare disastri, ridando vita a una vasta area territoriale in cui gli italiani hanno vissuto per secoli. Il che si può fare con una molteplicità di interventi concertati, che puntino alla selvicultura e all’agricoltura di qualità, allo sfruttamento economico delle acque interne, al potenziamento del turismo escursionistico, al recupero – anche per insediarvi centri di ricerca - di tanti borghi e centri cosiddetti “minori”: spesso gioielli monumentali che fanno l’identità profonda di una parte estesa d’Italia. Un insieme di iniziative e pratiche che potrebbero offrire lavoro alla nostra gioventù e a tanti giovani extracomunitari, oggi perseguitati da una legislazione criminogena.
L’urgenza e l’assoluto vantaggio economico di procedere in tale direzione potrebbe fornire anche nuova forza al grande e specifico problema di tutela e conservazione del nostro paesaggio. Un bene inestimabile che stiamo compromettendo. Naturalmente, per realizzare tale obiettivo, che col tempo potrà salvare l’Italia da perdite umane ed economiche sempre più gravi, occorre utilizzare risorse. E le risorse – per definizione sempre scarse - oggi lo sono più che mai. Ma proprio per questo appare necessario, in questo momento, un atto di coraggio anche da parte di tanto ceto politico e giornalismo che, talora in buona fede, ha visto nelle cosiddette grandi opere (Tav, Ponte dello Stretto) un’occasione di sviluppo per il nostro Paese. Bisogna avere la forza di ricredersi. Se le risorse finanziarie andranno alle grandi opere verranno a mancare per le piccole con cui noi oggi dobbiamo affrontare la questione territoriale italiana. Se si realizzerà il Tav, le risorse pubbliche saranno prosciugate e, per la salvezza del nostro territorio, resteranno le briciole. O l’uno o le altre, tertium non datur. Senza dire che le due scelte si presentano incompatibili anche sotto il profilo storico e culturale.
Le grandi opere sono il frutto recente di un modo di procedere del capitale finanziario, in concerto con i poteri pubblici, per costruire infrastrutture – di più o meno provata utilità collettiva – e in genere contro la volontà delle popolazioni che vivono nei luoghi interessati. Senza dire che il nostro è un territorio delicato, che mal sopporta il gigantismo delle costruzioni fuori misura.
Al contrario, le piccole opere per risanare l’habitat italiano possono esaltare la partecipazione popolare, iscriversi nel solco di una tradizione secolare che ha fatto dell’Italia, per mano di anonimi artisti popolari, quello che resta ancora del Belpaese.


“il manifesto”, 8 novembre 2011

Filosofi. Lo squadrismo e la marcia su Roma secondo Giovanni Gentile


Sorse così lo squadrismo. Giovani, risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato.
Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l'insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle Provincie, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l'ammirazione ed infine il plauso universale. Onde parve che ad un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.


Il brano è tratto dal Manifesto degli intellettuali fascisti, che Giovanni Gentile stilò e di cui fu primo firmatario. Venne pubblicato dai giornali italiani il 21 aprile 1925.

La legge antiomofobia e l'emendamento Gitti (S.L.L.)

Il deputato Gregorio Gitti (Scelta Civica)
Si parla tanto dell'emendamento del deputato Gitti (Scelta Civica) che ha modificato alla Camera il testo della legge antiomofobia già approvato in Senato. Vediamo di che si tratta.
A Palazzo Madama il progetto di legge aveva avuto l'approvazione di Sel e Cinquestelle, ora contrari perché, a detta dei loro esponenti, l'emendamento snaturerebbe e sterilizzerebbe l'intera normativa. Il relatore Pd, Ivan Scalfarotto, dice che la legge, seppure emendata, resta una buona legge e auspica che il Senato la confermi senza ritardi.
Lo schema piddino di politica parlamentare sembra insomma quello collaudato sul “voto di scambio”. Per “portare a casa il risultato” al Senato si fa maggioranza con Sel e Cinquestelle, ma alla Camera dove il Pd dispone di una forza vicina alla maggioranza assoluta, si aggiusta il testo per ottenere il consenso delle forze di destra. La nuova formulazione al Senato viene classificata come inemendabile, perché – si dice – l'approvazione di una legge – seppure imperfetta - è indilazionabile. Questa volta, però, qualcosa non ha funzionato e la compattezza del gruppo Pd alla Camera è venuta meno. I voti sono risultati in numero inferiore al previsto.
Per capire meglio che cosa tutto ciò voglia dire al di là delle tattiche conviene in ogni caso leggere l'emendamento in questione, che così recita: “Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente, ovvero assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione, ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni”.
Per i critici l’emendamento Gitti rischia di annullare l’intera legge anti-omofobia, relativizzando termini come “discriminazione” o “istigazione alla discriminazione” e liberalizzando almeno in parte le prese di posizione antigay di movimenti politici, religiosi ecc. Io credo che non si sbaglino. Sulla base dell'emendamento Gitti se - per esempio - un Giovanardi a un convegno del Nuovo Centro sulla famiglia (istituzione tutelata dalla Costituzione) dicesse: "Gli omosessuali sono malati e le loro pratiche sono segno di disordine psicologico ed etico", non dovrebbe essere perseguito. Se lo dicesse un prete nell'omelia, lo farebbero addirittura santo senza aspettare il suo ritorno nella casa del padre. Subito.

La poesia del lunedì. Boris Pasternak (1890 - 1960)

Amare gli altri è una pesante croce
ma tu sei bella senza obliquità
e il segreto della tua grazia
è pari al mistero della vita.

A primavera si avverte il fruscìo dei sogni,
sussurro di novità e certezze.
Tu sei del seme di quei sogni
e il tuo senso spassionato come l'aria.

Non è difficile svegliarsi e veder chiaro,
pulire il cuore dal pattume delle parole
e vivere senza ingorghi prematuri.
E' una piccola astuzia - tutto ciò.
1932

da Poesie, Newton Compton, 1978
Alla traduzione di Bruno Carnevali ho apportato qualche modifica, a mio giudizio migliorativa.

Canapa curativa (da "micropolis" - 27 aprile 2014)

La demonizzazione, che negli Stati Uniti d'America colpì la canapa indiana fin dagli inizi del secolo scorso attraverso vere e proprie campagne d'opinione, aveva connotazioni se non razzistiche almeno etnocentriche. Il nome con cui si chiamarono le sigarette riempite con le foglie di quella pianta, marijuana (“mariagiovanna”), ne designava la provenienza dal Sud, dalle terre degli “ispanici”, e ad esse vennero subito associati comportamenti criminali piuttosto gravi. Anche per gli effetti di lungo periodo di quelle campagne, il proibizionismo verso il fumo di quelle foglie e quello dell'hascish, diffuso in tutto l'Occidente industrializzato, ha creato una sorta di barriera non solo intorno alle varietà di Cannabis (l'indica, appunto, e la sativa) che contengono in quantità elevate il famigerato THC, l'agente che rende psicotrope foglie e resine, ma perfino intorno alle canape usate per i tessuti, in cui il principio attivo è assai poco presente. Particolarmente grave è stata poi la proibizione dell'uso terapeutico dei derivati della cannabis. Sebbene ostacolati dalle autorità esistono ormai da decenni studi seri, con sperimentazioni più che attendibili, che comprovano l'efficacia di farmaci a base di “cannabinoidi” in numerose patologie e particolarmente contro certi dolori quasi insopportabili. La scelta dei governi è stata però, in genere, quella di ostacolare la produzione e l'uso della cosiddetta “marijuana terapeutica”, proibendo ogni coltura della pianta, con la scusa dell'esistenza di farmaci ugualmente o maggiormente efficaci. Tutto ciò ha spinto diversi sofferenti, singoli o in gruppo, sulla via dell'autocoltivazione illegale oppure a costose importazioni.
La battaglia politica per la legalizzazione delle cure a base di canapa, iniziata una trentina di anni fa, ha ottenuto buoni successi negli Stati Uniti, ove – in seguito a referendum popolari – una decina di Stati ha spezzato il proibizionismo, ma continua una sorta di guerra – a volte aperta a volte sotterranea e strisciante – delle istituzioni federali antidroga per sabotare le nuove, più tolleranti legislazioni. In Italia la strada per una legislazione regionale favorevole alla marijuana terapeutica distribuita dal servizio sanitario pubblico è stata aperta nel 2010 dalla Puglia. Leggi analoghe sono state promulgate negli anni successivi da altre regioni, specie dopo che il governo Monti ha emanato direttive che in sostanza convalidavano l'efficacia delle cure. Il Consiglio Regionale dell'Umbria, ai primi d'aprile, sulla spinta del pronunciamento contro la Fini-Giovanardi della Corte Costituzionale, ha finalmente approvato con un voto trasversale (contrari solo i Fratelli d'Italia) una legge in materia: la Regione è la nona del gruppo e la sua legge, a sentire gli esperti, è ben fatta, la più avanzata, giacché i farmaci a base di derivati delle canape, dopo il placet ospedaliero o specialistico, saranno dispensati gratuitamente con ricettazione del medico di base. In più s'è deciso – per ridurre i costi – di avviare sperimentazioni produttive controllate nel territorio regionale. Il nostro augurio è che questa vittoria del buon senso scientifico apra le strade in Umbria e in Italia a politiche sulle droghe che abbiano come criterio la riduzione del danno individuale e sociale e che contemplino la legalizzazione, ormai più che matura, dell'uso di droghe leggere controllate. La nostra preoccupazione è che in Umbria accada quel che è successo nelle vicine Marche, ove al Consiglio Regionale, nel marzo scorso, una interrogazione dei Verdi denunciava come la legge sulla marijuana terapeutica, emanata un anno fa, sia tuttora totalmente disattesa.  

La nuova religione delle cellule antenate (Marco d’Eramo)

È sconfinata la boria mentale con cui ci pensiamo «moderni» (o «postmoderni»)! Ma in tutte le epoche ogni uomo si è sentito moderno, secondo la bella frase di Walter Benjamin (e immaginiamo
con che disdegno ci guarderanno i posteri). In questa nostra prospettiva dall’alto in basso, l’alterigia c’impedisce di riconoscere che tante nostre accanite discussioni replicano credenze antiche, addirittura primordiali, che pensavamo ormai sepolte come fossili sotto innumerevoli strati geologici di «civiltà».
Una di tali credenze riguarda quello che potremmo chiamare l’«animismo cellulare». Questa credenza ha un significato addirittura letterale quando trapela dal dibattito sulle cellule staminali, dove persino alla singola cellula è attribuita un’anima. Ma laici incalliti potrebbero pensare che si tratta di un residuo di superstizione, come il sangue di San Gennaro.

Cugini, nipoti, ex mariti
Più stupefacente è che lo stesso schema concettuale affiori in un best-seller internazionale scritto da una laureata in biologia, divulgatrice scientifica del “New York Times”, un saggio scelto come «miglior libro del 2010» da più di 60 media, subito tradotto in 25 lingue, tra cui l’italiano (è già uscito presso Adelphi).
Sull’oggetto del saggio «Alias» ha già pubblicato il 24 settembre uno splendido dossier di Alessandro Delfanti che in quel contesto ha usato il libro stesso solo come fonte, senza discuterne né l’impostazione né la filosofia. Sto parlando delle cellule cosiddette ‘He La’ e del libro La vita immortale di Henrietta Lacks di Rebecca Skloot.
Il libro racconta la storia delle cellule tumorali (di un tumore all’utero) di una signora chiamata Henrietta Lacks: nel 1951 queste cellule furono le prime a essere riprodotte ad libitum in una coltura di laboratorio (questo lignaggio cellulare è chiamato «He La» e sotto questo nome è noto ai ricercatori biologici e medici di tutto il mondo) e quindi a essere cedute – o vendute – e spedite ai laboratori di tutta la terra.
Il libro di Rebecca Skloot racconta con molti dettagli non solo le peripezie tecnico-commerciali e scientifiche di queste cellule e delle loro innumerevoli discendenti, ma anche la vita, la morte, gli amori, le manie, le depressioni, le repressioni, le gelosie, le superstizioni non solo di Henrietta Lacks, ma anche dei suoi parenti, nonno paterno bianco, mamma e papà, sorella, primo marito, cugino (e secondo marito), cinque figli, svariati cugini, nipoti, matrigna dei suoi figli rimasti orfani, marito divorziato di sua figlia, e molteplici amici e conoscenti. Il libro molto si commuove sul fatto che, benché il giro di affari intorno alle cellule He La sia assai consistente, i consanguinei di Henrietta non abbiano mai visto un centesimo. Ancor più il libro – che più politicamente corretto non si può – si commuove perché cellule tratte da una persona nera siano servite alla ricerca che tante vite bianche ha salvato.
Il tono è già dato dal titolo. Presupposto che queste cellule tumorali hanno il doppio dei cromosomi di qualunque cellula umana e quindi difficilmente possono essere catalogate come «umane», in che senso le He La costituiscono «Henrietta» in tutta la sua complessità, tanto che il loro riprodursi si traduce nella sua «vita immortale»? Supponiamo che le cellule di una radice dei peli della mia barba
siano riproducibili in vitro per millenni. Può l’immortalità della mia radice pilifera farmi parlare di una mia «vita immortale»? Quest’idea di «immortalità» ricorda la visione di quei popoli che mangiano gli organi dei defunti per appropriarsi del loro valore che si trasmetterebbe attraverso l’ingestione di un pezzetto della loro carne, un po’ di coratella. Se alla base del libro non ci fosse quest’assunzione di «animismo cellulare» – cioè l’idea che l’immortalità delle cellule He La è di fatto una forma di immortalità della signora Henrietta Lacks – raccontare le storie, e le fisime, della sua famiglia allargata sarebbe del tutto non pertinente. Sarebbe come raccontare le peripezie sentimentali del portiere di casa Einstein per spiegare alcune caratteristiche della teoria della relatività. A lunghezza di pagine, i parenti della povera Henrietta continuano a immaginare «Henrietta» sottoposta a esperimenti di laboratorio, ne soffrono, ci si arrovellano. Viene il dubbio che a instilllare nei suoi personaggi queste ansie sia l’autrice del libro.

Antirazzismo sospetto
Questa visione della cellula è conforme alla concezione maschilista del gene che la grande filosofa della scienza Evelyn Fox Keller accomuna all’homunculus di Lacan, al «piccolo uomo dentro l’uomo», al frammento infinitesimale che riproduce (e già contiene in potenza) il tutto. Certo che se questa concezione implicasse anche solo una briciola di verità, sarebbe una visione orripilante quella di miliardi di esemplari di te stesso/a sottoposti a tutti i tipi possibili di manipolazioni in migliaia di laboratori diversi (al momento in cui il libro è stato scritto, erano usciti più di 60.000 articoli scientifici basati su ricerche condotte su cellule He La). Ma appunto, che senso ha se non in un contesto animistico dove il culto degli antenati è sostituito dal culto delle cellule antenate (per di più tumorali)?
Questo animismo è interessante perché può essere coniugato insieme al più rigoroso scientismo, senza che l’uno arrechi disturbo all’altro. Infatti Rebecca Skloot si guarda bene dal formulare apertamente l’animismo cellulare, ma senza questa implicita assunzione il suo libro non avrebbe né capo né coda. Senza di essa, perché mai dovrebbe importarci qualcosa della razza di Henrietta o della razza dei malati che hanno tratto sollievo e vantaggio dalle ricerche sulle riproduzioni delle sue cellule tumorali? L’immortale vita di Henrietta Lacks trasuda di tanto nobile antirazzismo da farti sospettare che l’autrice un po’ razzista lo sia, se attribuisce alla razza una tale rilevanza ontologica. Francamente, cosa cambierebbe nella ricerca medica se invece cellule asportate da una cinese o da una caucasica fossero servite a guarire pazienti neri?
Vi è poi un secondo problema, oltre a quello dell’«animismo cellulare». Ed è il «capitalismo genetico». È vero che diciamo «il mio corpo», come diciamo che «il piede mi appartiene». Ma questo «appartenere» non significa «essere proprietà di», significa «essere parte di». In logica matematica questo legame è designato del simbolo di appartenenza di un elemento all’insieme che lo contiene e che è formato proprio dagli elementi che gli appartengono. Per esempio: ogni italiano appartiene al popolo italiano, nel senso che ne fa parte, e che a sua volta il popolo italiano è costituito dagli umani che appartengono a quest’insieme, che per questa ragione sono detti «italiani». Ma ciò non vuol dire che un italiano è proprietà del popolo italiano, che potrebbe quindi venderlo o comprarlo: certo, è vero che oggi alcuni poveracci sono spinti a vendere un proprio rene od occhio per poter sopravvivere, ma è altrettanto aberrante quanto i monarchi africani che «vendevano» i propri sudditi ai negrieri bianchi.

Avere e possedere
È vero che quando un ragazzo muore per esempio in moto, ci vuole il permesso dei famigliari per asportargli degli organi. Ma il permesso è necessario per ragioni di ordine etico e religioso, non perché i suddetti parenti possono mettersi a vendere gli organi o bandire un’asta sul fegato, sul cuore e sui reni! Se questo è vero a livello di organi, immaginiamo a quello cellulare. Perciò una cellula «apparteneva» a Henrietta Lacks nel senso che «faceva parte» di essa e che Henrietta era l’insieme costituito da tutte le sue cellule;ma questo non implica che fosse una proprietà commerciale – e quindi vendibile – della famiglia Lacks. Dire che i medici che hanno asportato e riprodotto in coltura un frammento di tessuto da una biopsia effettuata su una paziente afflitta da tumore terminale, hanno «defraudato» i figli e i nipoti, o hanno «sfruttato» Henrietta, anzi che i soliti bianchi hanno «sfruttato» la donna nera, è un ragionamento del tutto subalterno alla mercantilizzazione dell’universo e di ogni relazione umana e biologica. Discutere di questo problema – seppur per prospettare una soluzione diversa – significa sussumere tutte le possibili diverse relazioni di appartenenza all’unica forma di relazione proprietaria. Ma «appartenere», «essere parte di» possono avere, e per fortuna hanno, significati molto diversi non riducibili allo scambio di mercato e al rapporto proprietario.
Proprio come il verbo «avere» (e persino il verbo «possedere») non significa solo «essere proprietario»: per esempio, «avere grande intelligenza» o «possedere una sensibilità delicata» non significa essere proprietario di queste due doti, tantomeno di poterle smerciare. Solo una concezione paranoica della realtà, dell’universo come mercato, può farci intenerire (come succede a Rebecca Skloot) perché il terzo cugino o il bisnipote di Henrietta non percepiscono le royalties sulle repliche delle sue cellule tumorali (che per altro, dopo tanti passaggi, hanno subito tante di quelle mutazioni che sarebbe difficile ricollegarle con l’«originale»). Tanto è vero che perfino una legislazione dei brevetti e della proprietà integralista del mercato come quella vigente, riconosce che le cellule asportate non sono proprietà dell’essere umano da cui sono tratte. Anche qui: Rebecca Skloot si guarda bene dall’avallare il «capitalismo genetico», ma tutta la sua commozione sulla famiglia Lacks che non ha profittato del commercio di He La non ha senso alcuno se non proprio in una prospettiva «proprietaria» delle cellule.

Un coro di osanna
Mala faccenda più curiosa è non l’animismo cellulare, né il razzismo di rimbalzo all’antirazzismo, e neanche il capitalismo cellulare. No, è che nelle centinaia di recensioni che osannano il libro, nessuno abbia notato o messo in evidenza questi problemi. Anzi tutti si sgiuggiolano sui problemi «etici e razziali nella ricerca medica» che l’autrice esamina. Forse la recensione più disincantata è la breve segnalazione del «New Yorker»: «Questo resoconto straordinario ci mostra che professionisti del miracolo, credenti e truffatori popolano non solo le chiese ma anche gli ospedali, e che anche una scrittrice scientifica può trovarsi a recitare una parte centrale nella mitologia di qualcun altro».


“il manifesto”, 5 novembre 2011

Un gioco dell'oca contro le imposture dei preti (Lanfranco Binni)

Dall'ultimo numero de “Il Ponte” la recensione di un libro-gioco, che ha l'aria di essere una cosa seria. Mi capita spesso di dire che, se i preti cattolici appaiono e talora sono davvero più tolleranti dei loro colleghi di altre credenze, se l'hanno finita con le Inquisizioni e con i roghi degli eretici, delle streghe e degli omosessuali, lo si deve all’Illuminismo settecentesco e alle rivoluzioni che lo coronarono. E dentro l'illuminismo un ruolo importante giocò l'irrisione delle ridicole “fole” che i preti mettono a fondamento del loro potere: il Voltaire dell'Affaire Calas e del Trattato sulla tolleranza è complementare a quello del poemetto su Giovanna d'Arco, la pulzella santificata. Dalla recensione (e dalla serietà di autori e prefatori) si direbbe che libro di cui Binni discorre può dare una mano sia alla critica argomentata sia all'irrisione che la completa e ne potenzia l'efficacia. (S.L.L.)

Le religioni non sono una cosa seria. Se ne dovrebbero occupare soltanto l’antropologia e la storia delle culture. Ma in un paese come il nostro, educato da secoli alla morale cattolica dell’eteronomia e del servilismo, la critica delle imposture religiose è necessaria. Provvede efficacemente Oca pro nobis. Controsillabo giocoso e irriverente di Carlo Cornaglia, Filippo D’Ambrogi, Walter Peruzzi, Maria Turchetto, prefazione di Carlo Augusto Viano (Roma, Odradek, 2013), un agile e divertente “gioco dell’oca” che permette di razzolare liberamente e con giuliva leggerezza tra dogmi di fede, nefandezze di storia temporale, «fole religiose» (il termine è leopardiano).
Oca pro nobis non è soltanto un gioco di parole. Con stupore e sorpresa, un’oca ingenua e volterrianamente candide saltella, di casella in casella, dalla partenza al paradiso, per le 63 stazioni di un’improbabile via crucis: in ogni stazione (“Schiavi, obbedite ai vostri padroni”, “Chi dice donna dice danno”, “Non c’è piacere senza peccato”, “Va’ a troie ma sfila con la Cei”, “Il mortale flagello dei libri”…) è commentato puntualmente il tema della pia sosta con sintetiche schede storiche e irriverenti canzonette. Uno degli autori, Walter Peruzzi, ha attinto al suo documentatissimo lavoro Il cattolicesimo reale, (Roma, Odradek, 2008) “attraverso i testi della Bibbia, dei papi, dei dottori della Chiesa, dei Concili”, opera di riferimento per atei praticanti e antiteisti ostinati. Nelle sue schede di gioco Peruzzi ci ricorda le posizioni storiche della chiesa cattolica a favore della schiavitù, del colonialismo, del fascismo, della guerra, contro la donna, contro la sessualità: strutture forti di dottrina imposte con violenza e che hanno operato in profondità nel corso dei secoli. Insistono sui temi le canzoni di Carlo Cornaglia (“Sarà un giorno molto bello: / per accogliere l’appello / battagliero della Cei / si farà il Family day”) di cui è possibile ascoltare le esecuzioni musicali di Filippo D’Ambrogi collegandosi al sito , e i disegni di Maria Turchetto, studiosa di marxismo e direttrice dell’«Ateo», bimestrale dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti.
Ne risulta un istruttivo gioco multimediale, un irriverente controsillabo in cui la critica della religione cattolica e della sua istituzione impiega i diversi linguaggi (versi, musica e figure) con cui, come ricorda Viano nella prefazione, «per secoli si è cercato di incantare le menti umane».

Nell’Italia di oggi, incantata ancora una volta dalla presenza “umana” di un papa “buono” a copertura di un’istituzione teocratica irriformabile, l’anticlericalismo e la critica delle religioni hanno assunto, anche a sinistra, un sapore arcaico, ottocentesco. Dopo secoli di pensiero critico, dall’antichità classica all’illuminismo, al socialismo, la religione è di nuovo un tabù, un dato di realtà da non mettere in discussione se non sul suo stesso terreno. Ma si tratta di una regressione culturale. «Perciò - conclude Viano - è particolarmente apprezzabile la proposta costituita da Oca pro nobis, che rappresenta una novità e rompe un tabù. Essa mette in scena con disegni, prose, versi e musica idee e atteggiamenti correnti della chiesa, prendendo di mira soprattutto tre cose: le credenze arbitrarie della dottrina cattolica, la pretesa degli organi ecclesiastici di sottrarsi alla solidarietà nazionale per conservare privilegi economici e le regole sessuali, che i preti pretendono di imporre a tutti attraverso leggi dello stato. Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II e il pontificato di Giovanni Paolo II la chiesa è sembrata disposta a rivedere alcune delle proprie posizioni, a riconoscere errori commessi e addirittura a chiedere perdono alle vittime. Nessuno intende sottovalutare l’importanza culturale di questi fenomeni, ma gli autori di Oca pro nobis hanno appuntato l’attenzione su un altro aspetto, spesso trascurato. Quasi sempre le correzioni apportate dagli organi ecclesiastici hanno riguardato il passato e hanno presentato gli errori commessi come applicazioni scorrette di principi rimasti inalterati. Non soltanto temi fondamentali del cristianesimo non hanno subito revisioni, ma correzioni e richieste di perdono si sono limitate al passato e non sono mai state accompagnate da impegni a non ripetere più le nefandezze commesse. Anzi, quando chiese perdono per ciò che secondo lui cardinali sprovveduti avevano indotto a fare a Galileo, Giovanni Paolo II si affrettò a dire che i biologi avrebbero dovuto sottomettersi al giudizio dei papi, che di meccanica magari no, ma di vita se ne intendono […]». E un papa è sempre infallibile.

27.4.14

Elezioni Comunali a Spoleto (Aurelio Fabiani – Casa Rossa)

Aurelio Fabiani, della Casa Rossa di Spoleto, è un compagno “maoista” che conosco dai tempi della prima Rifondazione e stimo per la coerenza e il coraggio, anche se m'è accaduto non di rado di dissentire dalle scelte, che giudicavo sterili e piuttosto settarie, sue o del suo gruppo. Qualche giorno fa mi ha mandato per e-mail un testo sulle imminenti elezioni comunali nella sua città, in cui a una crisi industriale devastante si sono accompagnate politiche comunali che hanno prodotto guasti urbanistici, ambientali e finanziari. Non conosco fino in fondo la realtà di quel comune, ma molte delle valutazioni di Aurelio mi paiono condivisibili ed estensibili ad altre realtà. (S.L.L.)
Il Municipio di Spoleto
A Spoleto non ci sono né liste comuniste né liste operaie, quindi ci asteniamo.
La corsa al camuffamento continua, è sufficiente dare una scorsa ai nomignoli scelti da chi ha deciso di partecipare alla competizione per un posto nel Consiglio Comunale per comprendere come nascondere la propria identità sia diventato un tratto caratterizzante il fare “politica” oggi.
Il nome Spoleto campeggia ovunque. Spoleto? Sì, Vince, a Sinistra, ma anche a Destra, Prima! no anche dopo, in questo mondo, no! in tutte e Due i mondi. Oggi? no anche domani. Una sola delusione, non c’è la lista Spoleto per Don Matteo. Una volta si volava più in alto: “Proletari di tutti i paesi unitevi”, o più "alti" ancora “un posto un voto, in nome di Dio padre onnipotente”, o più larghi ma solo per ariani “Alleanza nazionale”.
Quante liste sono ? E’ un conto difficile da fare, appena piove (d'altronde è primavera) ne spunta una nuova, la scommessa si potrebbe fare sul fatto se ci saranno più liste che posti in Consiglio o viceversa. Neanche un posticino per lista? forse no. Peccato!
Immagino i dibattiti in Consiglio: la buca? ha detto della buca? chiede il consigliere distratto mentre guarda sul tablet la formazione della propria squadra del cuore. No! Il lampione! parla del lampione! ah ho capito, la buca.
Ci sono è vero i partitoni nazionali, la stella azzurra della risorta, liftata, mummificata, Forza Italia, quindi la stella grigia degli eredi dell’asinello che hanno portato alla politica la gioventù che si è fatta le ossa nei quiz televisivi, con i loro cespugli multi colorati, di scudo crociato, di verde rosa ambientale. E anche i pentastellati che i cespugli ce l’hanno dentro casa, dal profondo nero al rosso tinto.
Chi è di Destra, chi è di Sinistra ? Questa si che è una domanda! un dilemma che richiede una riflessione infinita e inutile. A me sembrano tutti uguali, sono tutti di Centrodestrasinistra, tutti vogliono rappresentare tutto e tutti. Quelli meglio intenzionati hanno una confusione da fare spavento, i male intenzionati spaventano per quello che possono fare.
Basta scorrere le liste per vedere come anche gli uomini oltre i simboli sono stati presi, pur di esserci, da una frenesia di ricollocamento orizzontale che un po’ mi fa ridere. Spontanea alla mente mi sorge l’immagine del vigile urbano in mezzo a un traffico della M… Tutti gli girano intorno caoticamente, c’è chi viene da destra e va verso sinistra, chi si sposta da sinistra verso destra, chi è in mezzo prende la rotatoria verso sinistra ma sul punto di uscire cambia idea e continua fino all’uscita opposta e viceversa. Delle formiche (i cespugli) salite sul tettuccio del mezzo che hanno scelto, pateticamente e con moto lentissimo si muovono nella direzione opposta a quella della macchina che procede a tutta velocità. Neanche il comandante dei vigili sarebbe in grado di dirigere questo traffico di trasformisti di tutte le ore.
Avremmo voluto sostenere una lista fatta da venti operai della Pozzi, che avesse portato in Consiglio, uno o più di loro, che avrebbero potuto dire: ora tocca a noi e stiamo qui per fare casino fino a che il lavoro sarà certo e i diritti garantiti. Sarebbe stato un fatto importante perché i lavoratori non devono delegare la loro rappresentanza a chi fa della loro condizione solo un mezzo per mediare con padroni e deregolamentatori dei diritti degli operai, perché la loro mediazione non serve a garantire il lavoro agli operai ma il loro ruolo di mediatore (più o meno come succede con i sindacati confederali+Ugl).
Ci abbiamo anche provato a dare vita a questa lista, con operai della Pozzi, di Baiano, della Cementir, ma non è andata, non per volontà degli operai ma di chi ha preferito fare il gruppettaro elettoralista del XXI secolo.
Non ci sono liste comuniste e noi siamo comunisti, non ci sono liste operaie e per noi che siamo comunisti la contraddizione fondamentale è e rimane quella tra capitale e lavoro, quindi non andremo a votare.


Aurelio Fabiani - Associazione Culturale CASA ROSSA

Casa Pintor (Luciana Castellina)

Per noi che con Luigi Pintor abbiamo lavorato, e anzi vissuto, fianco a fianco per tantissimi anni, questo libro che raccoglie le lettere della sua mamma Dedè Dore Pintor ha evidentemente un sapore speciale (Da casa Pintor. Una’eccezionale normalità borghese: lettere familiari, 1908-1968. A cura di Monica Pacini, Viella). Perché ci fa entrare nell’intimità della sua famiglia, nella sua storia, un lungo tragitto fra Cagliari e Roma, attraverso il Novecento – dagli inizi fino a poco dopo la nascita del «manifesto» – dandoci conto di affetti, gioie, dolori, riflessioni sul presente e sul passato, ipotesi sul futuro; restituendoci a tutto tondo la personalità dei suoi famosi zii che per via dei cenni frammentari ma affettuosi che ne tracciava Luigi nelle chiacchiere ci sono col tempo diventati quasi familiari: lo zio Fortunato, il più anziano dei Pintor, austero direttore della Biblioteca del Senato e collaboratore di Gentile; la sorella Cicita, con cui ha sempre vissuto e nella cui casa di Roma un giovane Giaime era venuto a vivere nel Trentacinque, abbandonando Cagliari per frequentare un liceo della capitale; lo zio Pietro, generale, morto nel Quaranta in uno strano incidente aereo (come Balbo) alla vigilia di esser nominato capo di stato maggiore al posto di Badoglio; lo zio Luigi, funzionario di alto rango e vice governatore nientemeno che della Cirenaica nei primi anni Venti.

Critica ma non dissidente
Dedè muore nel ’73, ma i nuovi media l’hanno negli ultimi anni disamorata all’abitudine della corrispondenza e infatti si chiede perplessa cosa ne sarà della parola scritta. (E ancor più me lo chiedo io ora, proprio riflettendo sul valore di questo libro: da quando c’è la teleselezione nessuno più scrive a nessuno e i rapporti si inaridiscono dentro frettolosi messaggi o si sperdono in parole lasciate al vento. Sarà difficile ricostruire la memoria dei nostri anni).
Ma le lettere di Dedè Pintor hanno un interesse che va ben oltre quello che naturalmente suscita in chi di Luigi è stato amico. Intanto sono piacevolissime, non – o non solo – come ci si potrebbe aspettare, quelle dolorose di una madre che ha avuto in sorte di sopravvivere per ben trent’anni al figlio dilaniato da una mina sulla linea Gustav, nel Molise. I suoi scritti sono una testimonianza ironica e spiritosa del suo tempo, un’acuta osservazione dell’Italia fascista e postfascista, vista con gli occhi della borghesia colta, né fascista né antifascista, distaccata sebbene imparentata con l’establishment, spesso critica ma non al punto di essere dissidente, come già altri, per esempio i Lombardo Radice, con cui pure si frequentavano molto. Normale, insomma:la politica, l’impegno, fino al sacrificio della vita, sono cose che arrivano solo con la seconda generazione, quando la storia afferra e la scelta si impone anche a chi, come a Giaime, aveva pensato solo alla letteratura, o a Luigi, che avrebbe voluto essere pianista e invece ha fatto il militante (ma il suo pianoforte, però, l’ha sempre rimpianto).
Una donna molto simpatica, Dedè – l’ho conosciuta già anziana e molto sorda, nella casa di via Nizza, dove, dopo il trasferimento a Roma, erano andati ad abitare i Pintor) – anche per il suo modo di vivere la propria condizione di donna. Ne scrive con molta autoironia, per il destino di madre e di sposa cui finisce per piegarsi, pur nella consapevolezza dello spreco del proprio talento che questa induce e cui si ribella scrivendo moltissimo, prima per riviste e manuali didattici, poi lettere e lettere a parenti ed amici, vere cronache del suo tempo. «Quando Giaime sarà diventato un grand’uomo – scrive al cognato nel 1920, il primogenito vecchio di neppure un anno – i biografi, per esaltarne meglio l’autodidattismo, diranno: nato da un modesto impiegato, dilettante d’arte da strapazzo, e da una madre dominata dall’innocente mania di maneggiar la penna a dritta e a rovescio».
Da casa Pintor ha comunque un interesse politico generale che va ben al di là della testimonianza di un tempo. Tanto più se posto in relazione con il libro di qualche anno fa scritto da Maria Cecilia Calabri: Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, non a caso assai spesso citato dalla curatrice Monica Pacini. Perché l’integrazione delle lettere di madre e figlio consente di fare ulteriore chiarezza su un tema che ha dato luogo recentemente a una dura controversia su come interpretare un passaggio fondamentale della storia italiana.
C’è chi ha infatti sostenuto che chi non era antifascista puro e duro prima e lo è diventato dopo, anzi, addirittura comunista, è stato un voltagabbana. Di Giaime, che pure è morto perché ha sentito il dovere di attraversare le linee per congiungersi alla Resistenza, pur essendo in salvo nell’Italia già liberata dalle truppe alleate, è stato persino detto che era un agente dell’intelligence britannica.

Una generazione di redenti
In ballo sono stati tirati in tanti, praticamente tutti gli intellettuali italiani della generazione maturata
negli anni ’30: Vittorini, Quasimodo, Gatto, Penna, Brancati, Pratolini, Bilenchi, Alicata, Ingrao, Galvano della Volpe, Zavattini, così come i pittori, Guttuso e Mafai fra gli altri. E questo perché avevano appartenuto al Guf, o partecipato ai Littoriali e perché scrivevano sulla rivista di fronda promossa da Bottai, «Primato», tutti «redenti» nel dopoguerra «grazie al passaggio sul fonte battesimale del Pci». Ma chi mai avrebbe potuto trasmettere antifascismo a quella generazione? Non poteva il vecchio antifascismo, liberale ed élitario, di prima della marcia su Roma, che non aveva sostanza capace di affascinare; non potevano essere gli antifascisti della sinistra perché in esilio o in prigione. Dice Laura Lombardo Radice Ingrao ricordando quei tempi in una testimonianza raccolta da sua figlia Chiara in Solo una vita: «I maestri di vita dovemmo cercarli altrove. Non nella generazione precedente, dell’anteguerra, nobili ma sconfitti, messi nell’angolo». Il «lungo viaggio» fuori dal fascismo, cominciò con l’essere fascisti e capire che non si doveva esserlo – testimonia Vittorini, e molti altri. Le vie furono più articolate e complesse. Ma proprio per questo il processo fu assai più ricco. Passa attraverso una stagione, quella degli anni Trenta, in cui l’Italia è isolata, la stragrande maggioranza della popolazione agnostica, persino affascinata dagli aspetti modernizzanti del regime, ancora non scossa dall’orrore dei bombardamenti e della guerra, quando, ma solo allora, comincia a formarsi una consapevolezza che sbocca per molti nell’impegno della Resistenza.
La singolarità della vicenda italiana sta nel fatto che, in gran parte grazie al coraggio di Palmiro Togliatti, fu proprio questa generazione ad esser promossa alla guida della sinistra, sacrificando, anche con amarezza, compagni eroici che uscivano dalle prigioni o tornavano dall’esilio, e che avevano però necessariamente perduto il contatto con la realtà italiana. Il comunismo italiano è stato migliore di quello di altri paesi anche per questo.
Le lettere di Dedè Pintor ci consegnano in questo senso una testimonianza preziosa, facendoci capire meglio le complessità, le sfumature, le contraddizioni di un passaggio storico per nulla netto e schematico.


“il manifesto”, 5 novembre 2011

Berlinguer: “Ne valeva la pena”. Intervista a Mixer (1983)

Si tratta della celebre intervista televisiva rilasciata a Giovanni Minoli, conduttore di "Mixer", l'11 giugno 1983. E' ricordata soprattutto per alcune battute (quella sul “giocatore di poker” soprattutto), ma ci sono – a mio giudizio – passaggi assai più importanti. (S.L.L.)

Onorevole Berlinguer, in una battuta nota, l'onorevole Pajetta ha detto che lei, di nobile famiglia sarda, si è iscritto fin da ragazzo alla direzione del Pci. La considera una critica o un complimento?
«Un complimento, non del tutto vero, perché all'inizio della mia milizia comunista ho fatto il segretario di sezione».

Sempre parlando di potere, in televisione lei recentemente ha ammesso, sia pure con molta reticenza, che rifare il segretario del partito comunista, dopo dieci anni, le fa ancora piacere. Ecco, ma perché tanta reticenza nell'ammetterlo?
«Mi ha dato soddisfazione l'ampiezza del consenso con la quale sono stato designato».

Ma per lei cosa è il potere?
«Il potere è uno strumento insufficiente ma necessario per realizzare gli ideali in cui credo io e in cui credono i miei compagni».

Ma a lei cosa piace invece di più del potere?
«Mi piace la possibilità di far avanzare la realizzazione di questi ideali».

E di meno?La cosa che le dà più fastidio?
«Di meno, parlando non soltanto a titolo personale ma parlando come segretario del partito comunista, mi dispiace che il nostro potere sia ancora insufficiente, insufficiente per la realizzazione dei nostri obiettivi».

Senta onorevole Berlinguer, ma che differenza c'è tra l'austerità che predicava lei e il rigore invocato oggi dalla Confindustria e dalla Democrazia cristiana?
«Il punto fondamentale è chi paga, prevalentemente, le spese della fuoriuscita dalla crisi e del risollevamento economico e sociale del Paese. Da questo punto di vista noi rifiutiamo che a pagare siano i soliti, siano gli operai, siano le masse popolari; e riteniamo che, se sacrifici devono esserci, e tutti in misura proporzionale vi debbono contribuire, debbono servire a raggiungere determinati traguardi e non a far tornare indietro il Paese».

Ecco, però, a proposito di questo rigore, si dice che lei avrebbe in testa, per dopo le elezioni, quel governo diverso, composto da tecnici e personalità scelte fuori e dentro i partiti, una sorta di governo del presidente, diciamo, al quale il Pci darebbe il suo sostegno. È vero o no?
«Abbiamo indicato dei criteri di formazione del governo diversi di quelli seguiti sinora, in base ai quali il presidente del Consiglio dovrebbe scegliere liberamente, e non attraverso le imposizioni e designazioni delle segreterie dei partiti, i ministri, fra uomini di partito e al di fuori del partito. Questo ritengo che sia un criterio valido per qualsiasi governo, compreso un governo di alternativa democratica».

Quindi, non c'è un'alternativa tra governo diverso e governo dell'alternativa?
«No, non mi pare. Perché il problema che abbiamo posto, ripeto, di criteri non più fondati sulla lottizzazione, sulla spartizione dei ministeri deve riguardare qualsiasi governo, anche un governo che non sia di alternativa democratica».

In complesso, lei come giudica oggi la stampa italiana?
«Nella media, non inferiore, per certi aspetti superiore, per esempio per quanto riguarda la ricchezza dei notiziari politici, a quella di altri Paesi. Il difetto più importante...». 

Troppo...
« ...no, non direi, perché mi pare che il popolo italiano conserva un interesse politico maggiore di quello che vi è nella maggior parte degli altri Paesi dello stesso occidente. Troppo, forse, nel senso che qualche volta prevale il commento sull'informazione».

Ecco, ma qual è il giornalista italiano che lei preferisce?
«Luigi Pintor, dal punto di vista delle qualità giornalistiche».

L'unico?
«No, lei mi ha detto quello che preferisco...».

E perché?
«Perché mi pare che abbia veramente la stoffa del giornalista di alta qualità».

Senta, onorevole Berlinguer, qual è l'ultimo romanzo che ha letto e che le è piaciuto?
«La "Cronaca di una morte annunciata" di Garçia Marquez».

Perché le è piaciuto?
«Mi sembra una combinazione felicissima di poesia e di crudo realismo».

E l'ultimo film che ha visto e che le è piaciuto?
«L'ultimo è E.T.».

E perché le è piaciuto?
«È un film pieno di poesia, di fantasia e soprattutto è un film che mi pare faccia appello ai sentimenti migliori dell'infanzia».

Alla televisione, lei che programmi segue?
«I telegiornali, lo sport, qualche film».

Senta, ma lei pensa che l'arrivo delle televisioni private abbia migliorato o peggiorato, complessivamente, la qualità dei programmi proposti al pubblico?
«Dal punto di vista spettacolare, migliorato. Dal punto di vista culturale, non direi, o comunque non ancora».

Parliamo dell'evoluzione del suo modo di essere comunista. Nel '44 lei fu arrestato a Sassari per la rivolta del pane, e rischiò la pena di morte - leggo - "per insurrezione armata contro i poteri dello Stato, per devastazione e saccheggi, per detenzione di armi, associazione e propaganda sovversiva". Era colpevole o innocente?
«Fui prosciolto in istruttoria per non avere commesso il fatto».

Ecco, ma allora era più giusto... voglio dire era più ingiusto quello Stato che, comunque, dopo tre mesi, l'ha processato e l'ha assolto, per non aver commesso il fatto, o lo Stato italiano di oggi che, più o meno per le stesse imputazioni tiene per esempio quelli del 7 aprile e tanti altri, come Negri e altri, da tanti anni in prigione senza giudicarli?
«Penso anch'io che sia un'assurdità questa detenzione così lunga».

Senta, Franco Piperno, l'ex leader di Potere operaio, qui a Mixer ha detto che l'elemento scatenante del terrorismo fu la politica del compromesso storico, nella versione diciamo tradizionale, perché impediva all'opposizione di avere il suo spazio. Lei cosa ne pensa?
«Penso che l'analisi sia sbagliata, ma confermi che uno dei bersagli del terrorismo era il Pci».

E il compromesso storico nel suo insieme...
«No, il Pci con tutta la sua politica e tutta la sua strategia realmente innovativa dell'assetto sociale e politico italiano».

E' morto Moro, però, per il compromesso storico.
«È morto Moro, perché Moro era l'interlocutore più valido e più intelligente del Pci».

Senta, nel '76, a Giampaolo Pansa, il giornalista che la intervistava, lei disse di sentirsi più sicuro sotto l'ombrello della Nato. Lo pensa ancora?
«Sì, ma nel senso che precisai allora. Che, se l'Italia facesse parte del Patto di Varsavia, e non della Nato, evidentemente non potremmo realizzare il socialismo così come lo pensiamo noi. Ciò non vuol dire che qui, sotto l'ombrello della Nato, nell'ambito del patto Atlanlico, ci si voglia far realizzare il socialismo».

Onorevole Berlinguer, ma qual è il suo peggior difetto?
«Forse una certa spigolosità del carattere».

E la qualità a cui è più affezionato?
«Quella di essere rimasto fedele agli ideali della mia gioventù».

E la cosa che le dà più fastidio sentir dire di lei?
«Che sarei triste, perché non è vero».

Lei ha una famiglia di origini nobiliari e tradizioni massoniche. Ecco, in che rapporto è con queste tradizioni?
«Dell'origine nobiliare, non mi importa niente».

E delle tradizioni massoniche?
«Mio padre si iscrisse alla massoneria, mi pare, nel 1925-26, nel momento in cui la massoneria fu vietata dal fascismo».

Quindi, in funzione antifascista. E lei è massone?
«No, per carità».

Ma, se lo fosse, si meraviglierebbe a dirlo?
«Non lo sono. Quindi non riesco a mettermi nello stato d'animo di chi lo è».

Senta, ma il «grande maestro» della massoneria, Corona, a Nizza ha detto che non c'è incompatibilità tra essere massone e essere comunisti. Vero?
«Secondo me c'è incompatibilità, perché essere iscritti alla massoneria significa addirittura giurare fedeltà ad una associazione i cui interessi, i cui obiettivi possono entrare in conflitto, in contrasto con quelli del partito comunista, cioè di un'altra associazione alla quale si aderisce liberamente».

Onorevole Berlinguer, per lei cos'è più importante nella vita: la politica o la vita privata?
«La politica, però non la politica in senso generico, perché io non ho fatto la scelta della politica. Io ho fatto la scelta della lotta per la realizzazione degli ideali comunisti».

Ecco, ma la famiglia quanto conta nella sua vita, allora?
«Conta molto».

Lei ha quattro figli. A quanto del suo essere padre, e anche marito, ha rinunciato, per fare politica?
«A una parte, certamente. E me ne rammarico continuamente».

Non ha mai pensato che non ne valeva la pena proprio per davvero?
«Non valeva la pena di rinunciare? No, questo non l'ho mai pensato e spero di non pensarlo mai».

Se un suo figlio le dicesse: «Non sono comunista», lei come reagirebbe?
«Rispetterei il suo giudizio e la sua opinione».

Ma i suoi figli sono comunisti?
«Lo chieda a loro».

Lei non lo sa?
«No, io in genere non rispondo a domande che riguardano i miei familiari. Chi vuol saperne qualche cosa, chieda a loro».

Ma lei si sente tollerante, in casa, oppure autoritario? Cioè, ha un rapporto di che tipo?
«Cerco di essere comprensivo».

Onorevole Berlinguer, qual è l'uomo politico italiano, vivente, che lei stima di più?
«Pertini».

Perché?
«Mi pare che, a parte la sua... le sue doti personali, egli abbia costituito e costituisce tuttora un punto di riferimento e di fiducia fondamentale per le istituzioni democratiche».

E il suo avversario politico più duro, ma più leale, incontrato nel corso della sua vita politica, lunga oramai. Chi è? Italiano, naturalmente.
«Un avversario leale è stato Zaccagnini».

Senta, lei come definirebbe Craxi? Una definizione breve.
«Un buon giocatore di poker».

De Mita?
«Persona astuta, anche intelligente, ma un po' imbonitore».

Fanfani?
«Fanfani: uomo di spirito, tanto che è riuscito a risorgere sempre dopo non poche sconfitte».

Senta, ma lei ha degli amici veri, che non siano comunisti ?
«Sì, diversi».

In Berlinguer. Parole e immagini, I libri dell'Altritalia, 1994


statistiche