6.3.14

Tiri mancini. La foglia morta di Mariolino Corso (di Massimo Raffaeli)

Mariolino Corso con la maglia del Genoa insieme al portiere Spalazzi
«Participio passato del verbo correre», perché in effetti non correva ma trottignava per rientrare a momenti nel gioco con affondi impensati e letali; o anche «il piede sinistro di Dio» come ebbe a definirlo sotto il sole di un torrido pomeriggio 1961 a Tel Aviv un tecnico israeliano abbacinato dalla maestria pittorica di quel mancino che sembrava pennellasse; «Mandrake», perché nascondeva la palla e la faceva riapparire come un coniglio dal cilindro o «Matto Birago» (così lo chiamava Gianni Brera) in quanto lunatico, refrattario alla dinamica del gioco e, finalmente, «Mariolino», vezzeggiativo con cui lo apostrofavano i tifosi.
Nato nel veronese a San Michele Extra il 25 agosto del 1941, cresciuto nell’Audace, ala sinistra dell’Inter fra il 1959 e il ’73, anzi della Grande Inter guidata da Helenio Herrera, Mario Corso chiude l’ultimo endecasillabo di una formazione («Sarti Burgnich Facchetti...» ne era l’incipit, «Domenghini Suarez Corso» invece l’explicit) che i ragazzi di allora recitavano a memoria come fosse una poesia.
Non gioca da quarant’anni (chiuse la carriera con un biennio al Genoa, fra luci, ombre e un grave infortunio proprio al piede sinistro), ha avuto trascorsi non eccezionali da allenatore e da osservatore per la sua Inter, eppure Corso nel ricordo degli appassionati rimane un classico del nostro calcio, letteralmente un fuori-classe, cioè una figura di atleta o persino di artista che l’attuale calcio formattato (lo stesso che ha condotto sia la divisione del lavoro in campo sia il principio di prestazione atletica a livelli demenziali e in sostanza suicidi) oggi arriva a ritenere un fastidioso enigma, un problema e in certi casi un deprecabile inciampo. È noto peraltro come Helenio Herrera, preparatore ossessivo e ligio alla dittatura degli schemi, ritenesse Corso la più sfacciata e ondivaga smentita al credo tecnico-atletico di cui si sentiva profeta e dunque pretendesse, ogni anno, dal presidente Angelo Moratti la cacciata di un reprobo che, nel silenzio glaciale dello spogliatoio, pare replicasse agli ispirati incitamenti del Mago col sibilo della sua voce veneta e sardonica, insomma con un Tasi mona…; è noto, altrettanto, come la cacciata del reprobo fosse regolarmente impedita non solo dalla passione che Moratti nutriva per il suo indocile pupillo ma anche, e soprattutto, per la stima di un compagno di squadra che non avrebbe potuto essergli più antipode, Luisito Suarez, un genio cartesiano che bene intendeva la necessità, nell’automatismo degli schemi, di un simile e sempre imprevedibile outsider.
Non è un caso, nemmeno, che l’idolo di Corso fosse Omar Sivori, se in una foto del ’63, scattata al Comunale di Torino prima di un acerrimo Juventus-Inter, si vede il campione italoargentino stringere la mano a Corso mentre con l’altra gli accarezza, con evidente affetto, il viso. Sembra un passaggio di consegne. Intemperante, permaloso e narcisista com’era, per Sivori non è affatto un gesto usuale: chi scrive può testimoniare che il vecchio Omar, quasi in punto di morte, ormai stemperate le vistose asperità del carattere, si riferiva a Corso come a uno dei più grandi campioni con cui aveva avuto l’«onore» – così disse precisamente – di giocare.
Ora, la parabola di Corso è tracciata nel volume, redatto a quattro mani con Beppe Maseri, Io, l’Inter e il mio calcio mancino (Limina). Non si tratta di un libro-intervista e nemmeno di una biografia in senso tecnico o storico ma, piuttosto, di un racconto autobiografico che lo sparring sa tradurre e stilizzare nella voce della prima persona. (Beppe Maseri, va qui rilevato, non è solo un vecchio amico di Corso ma è un decano del giornalismo sportivo, avendo esordito nel ’73 sulle pagine del “Giorno” sotto l’egida di Gianni Brera …). La voce narrante non tratta il decorso esterno della carriera di Corso né si sofferma sui trionfi di una squadra leggendaria ma indugia, viceversa, sul romanzo di formazione: la famiglia operaia, le scarpe consumate all’oratorio e nei campetti di periferia, poi, da minorenne, il gran salto a Milano, l’esordio fra calciatori acclamati (per esempio Skoglund eAngelillo), il vedere la propria e progressiva affermazione al cospetto del boom economico, mentre tutto cambia vorticosamente all’intorno, dentro e fuori del campo da calcio, con le luci di San Siro in notturna, le trasferte memorabili (la prima Coppa dei Campioni a Vienna, nel ’64, l’Intercontinentale contro l’Independiente prima a Buenos Aires poi aMadrid per lo spareggio), il riconoscimento di una classe sovrana, sia pure prodigata a momenti e a ritmi, per così dire, ditirambici. E alcuni paradossi lì per lì insondabili: l’ambiguo, difficile, rapporto con la Nazionale (appena 23 presenze e 4 gol), forse spiegabile con l’annoso dualismo tra Mazzola e Rivera che impediva la presenza di un terzo atipico, ma resta che Corso, incredibile dictu, non ha mai disputato un Mondiale; il fatto che lo scudetto più suo lo abbia vinto al tramonto della Grande Inter, nel campionato 1970/71, giocando da trascinatore e uomo squadra, correndo come non aveva fatto mai in una irresistibile rimonta sul Milan di Rocco. D’altronde il suo repertorio era di pochi colpi, essenziali e micidiali: il dribbling portato da fermo, la rifinitura e talvolta la conclusione in gol, più spesso la beffarda stoccata di un Cyrano del football.
Sua firma vera e propria era la punizione «a foglia morta», calciata ovviamente di sinistro e preferibilmente dal vertice destro dell’area, un colpo inferto con l’interno del piede e capace di attivare una parabola all’apparenza molle, prevedibile, ma di colpo spiovente e inabissata in rete. (Chi scrive ha potuto ammirarne la bellezza plastica durante un’amichevole estiva, in provincia, quando Corso indossava la maglia del Genoa: ancora più stempiato e svagato del solito, leggermente appesantito, anche in quella occasione tuttavia la foglia morta, il suo autentico coup de
theatre, non aveva mancato il bersaglio scatenando un applauso plateale).
«Sono sempre stato una persona timida e di poche parole», così comincia il racconto autobiografico di Mario Corso. Nella sua svagatezza, e lo si scopre via via dal racconto, c’è una forte, mai esibita, emotività ed è struggente per esempio venire a sapere come tre anni fa, la notte del trionfo interista sul Bayern a Madrid, quest’uomo si fosse impedito di vedere la partita in tv e si aggirasse invece nelle strade vuote del centro di Milano, con il cuore in allarme, in attesa trepidante di un sollievo e perciò di un boato. C’è una umanità sottaciuta, una malinconia sottile che esce paradossalmente dalla immagine estrosa del campione, il senso lancinante di un bene perduto nell’Italia di oggi, quello che riesce ad associare in una stessa persona un enorme talento e la perfetta normalità. A tutto ciò si riferiva, fingendo di parlare dell’Italia di ieri, un analista sociale troppo presto mancato, Edmondo Berselli, juventino di Campogalliano, il quale aveva dedicato a Mario Corso Il più mancino dei tiri (’96), un libro a futura memoria.

alias-il manifesto, 6 ottobre 2013



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