14.3.14

Seneca. Di nuovo Fedra (Roberto Andreotti)

Il latinista Alfredo Casamento dell'Università di Palermo
«È noto l’amore di Fedra, è noto il torto di Tèseo», così Ovidio nei Fasti introduce il racconto della spettacolare morte di Ippolito, già affrontata nelle Metamorfosi. La fama sinistra del mito, in cui il casto figlio di Tèseo era stato rovinato malgré lui dalle brame della moglie del padre, la cretese Fedra, mentre questi era sceso nell’Ade per rapire Persefone –, fama potenziata da un morboso tabù, era arrivata al poeta augusteo da molto lontano.
Euripide lo aveva messo in scena due volte, prima un Ippolito velato, ritirato per aver dato scandalo e poi perduto; quindi l’Ippolito incoronato, viceversa decisivo per la fortuna antica e moderna della storia; perduta è anche (almeno) una Fedra di Sofocle in cui il cambio di titolare indica presumibilmente una diversa ottica drammaturgica, che spostava il fuoco dal destino infelice del ragazzo ‘di’ Artemide alla disperazione della seduttrice respinta.
Ovidio fra l’altro, grazie a uno di quegli strappi alle convenzioni letterarie che ne accrebbero la gloria, aveva virato la figura di Fedra, la figlia di Minosse e Pasifae – e perciò la sorella di Arianna e la sorellastra del Minotauro: mostri e unioni raccapriccianti nello stemma di famiglia – in una moderna eroina galante, capace addirittura di scrivere una ‘dichiarazione’ elegiaca al «figlio dell’Amazzone» (è la quarta Eroide). La strategia letteraria dell’epistola mostra tutta l’abilità di chi, per convincere l’amante ad abbandonare ogni remora e a capitolare, maliziosamente derubrica l’incesto assimilandolo al più accettabile adulterio, secondo la nuova legge, e il modello prolifico, dello stesso Giove. Perciò quando nel I secolo Seneca si confronta con il canone teatrale del mito di Fedra e Ippolito e decide di portare una serie di novità improntate all’ideologia romana del tragico, attingendo a piene mani a un immaginario fortemente espressivo ed «emotivo» (Regenbogen), egli può affondare le unghie nel pathos della vicenda anche grazie alla recente, e già autorevole, dieta ovidiana.
A riaprire questi dossier storico-critici sollecita una nuova edizione commentata di Fedra, a cura di un ricercatore dell’Università di Palermo, Alfredo Casamento (Carocci editore): commento ambizioso il suo, diviso sostanzialmente fra analisi retorico espressiva e psicologia dei personaggi del cast, con osservazioni fini e confronti condivisibili, ma appesantito da una certa verbosità. Forse poteva essere asciugato, e gerarchizzato con qualche accorgimento tipografico (fra l’altro il nocciolo interpretativo è già in gran parte anticipato nell’introduzione generale). Casamento ha affrontato anche la sfida della traduzione, còmpito non invidiabile quando si ha alle spalle, se non pendente sul capo, uno stilista e senechista come Alfonso Traina: quasi impossibile fare meglio, per quanto siano confrontabili la versione di Traina scritta per essere recitata (INDA di Siracusa 1983, poi Bur 1989) e questa che invece è interamente al servizio del testo latino e delle note.
Si diceva dei modelli che Seneca ha davanti a sé. Se ci inoltriamo in una lettura intertestuale, che privilegi il livello letterario della composizione, ci accorgiamo sùbito che Fedra e in generale il teatro senecano lavorano sistematicamente sulla ‘carriera’ latina del mito greco, i cui scatti di avanzamento erano stati ottenuti anche attraverso opere non teatrali come quelle appunto di Ovidio, e di Virgilio. Basterebbe ricordare la memoria latente e pervasiva del IV dell’Eneide, il Libro di Didone, nella drammaturgia amorosa di Fedra, con il dilemma cruciale che la tormenta, furor contro ratio: «vos testor omnis, caelites, hoc quod volo me nolle», «voi tutti, dèi del cielo, chiamo a testimoni che non voglio quel che voglio» (vv. 604 s.), e la condurrà pentita al suicidio di spada e non con la corda al collo dell’antecedente greco: «mucrone pectus impium iusto patet / cruorque sancto solvit inferias viro», «il mio petto empio si apre ad una giusta spada, il mio sangue è versato in tributo ad un uomo innocente» (vv. 1197 s.). D’altro canto, la «reinterpretazione psicologica dei miti euripidei» (Charles Segal) fa di Seneca tragico una grande stazione di rifornimento, e non di semplice transito, per il viaggio verso i Moderni. In particolare, la tensione stilistica con cui egli sbrana i precedenti, lasciando però sul piatto le tracce dei fantasmi testé trasformati, lo renderanno un interlocutore scelto del teatro elisabettiano – già sanguinario per sua natura, come ha mostrato T.S. Eliot in un capitale saggio. E anche se ufficialmente non figura tra i modelli dichiarati di Racine, il quale sembra averla rimossa limitandosi a dire che «il soggetto è preso da Euripide», tuttavia la versione di Seneca verrà abilitata dalla stessa stesura della Phèdre che smaschera così il suo reticente autore, segnandone il ritorno. Anche Francesco Orlando nella sua fortunata «lettura freudiana» di Racine individuò diverse spie senecane.
Ma torniamo al tabellone Arrivi della stazione, e cioè al Classico come formidabile rete di testi e di convenzioni letterarie (tramandate e infrante) a cui guarda anche questo nuovo contributo filologico con specifico interesse per le soluzioni ‘oratoriali’ e psichiche introdotte da Seneca. Non v’è dubbio che Seneca dia un bel giro di vite ai personaggi del mito e, se così si può dire, ai correlati fondali ideologici, per esempio mettendo Fedra in competizione – una gara perversa davvero – con Pasifae, la madre unitasi al toro, tara cretese che pesa sulla famiglia e sulla vicenda in corso: «Perché gravi di peccati la casa malfamata e superi tua madre? – la accusa la nutrice –: «maius est monstro nefas: / nam monstra fato, moribus scelera imputes», «un atto empio è colpa più grande di ogni mostruosità: gli atti mostruosi puoi attribuirli al destino, i misfatti ai tuoi costumi» (vv. 143 ss.). Assente Tèseo, proprio alla nutrice Fedra ha confidato, quasi nuova Didone, il suo doloroso e ancora più indicibile ‘ritorno di fiamma’, l’amore devastante per il figliastro. Ma questi, votatosi al culto e ai dominii di Diana (il bosco, la castità, la caccia con gli esclusivi rituali maschili sui quali si è alzato il sipario della tragedia), è del tutto sordo agli argomenti di Venere.
Torna qui un motivo già euripideo del quale si era appropriata l’elegia facendone un segnale di genere, cioè l’irresistibile attrazione che i boschi e i monti, l’arco e le frecce esercitano su Fedra in preda a Eros e ora non più all’opre femminili intenta: «mi piace invece inseguire di corsa le bestie dopo averle stanate e scagliare con mano delicata i giavellotti tesi...».
Ma è probabilmente la scena della confessione amorosa direttamente rilasciata al figliastro Ippolito quella in cui l’intreccio e la concatenazione del modello greco subiscono la torsione decisiva. Nel testa-a-testa con Fedra Ippolito non sospetta e non ‘realizza’ per molti versi (l’ammissione illecita di lei sembra essere un tabù letterario ancora operante nell’enciclopedia del ragazzo), come segnala l’innocente e paradossale esordio: «Madre, affida alle mie orecchie i tuoi affanni». Si sa come andrà a finire. Euripide aveva piazzato il suicidio di Fedra e la famosa tavoletta infamante Ippolito – secondo lo schema della seduttrice rifiutata noto come «motivo di Putifarre» –, a circa metà del dramma, e tutto quanto avveniva lontano dagli occhi, dietro le quinte; invece Seneca lo sposta alla fine, e soprattutto in scena, sopra il cadavere rimesso insieme (in senso letterale) del giovane, e l’arma ‘sublime’, come si è detto, è la spada (un tema, questo, studiato a suo tempo da Nicole Loraux).
Soffermiamoci solo un momento, facendo un passo indietro, sulla morte orribile di Ippolito precipitato nella nota spirale di bugie e irreparabili vendette, morte procurata dall’enorme toro marino. È stato Tèseo, di ritorno dall’Ade, a invocarla da Plutone sul figlio, credendolo colpevole d’incesto. Così tra lo sdegno e la maledizione lanciata a distanza verso l’«abitante dei boschi puro, vergine, inesperto», vola anche questa frase del padre carica di un’ironia e di una malizia degne di Ovidio: «a meo primum toro / et scelere tanto placuit ordiri virum?»  «Dal mio letto e con un tale crimine dovevi scegliere di cominciare a diventare uomo?» (vv. 924 s.). Attraverso la spirale descrittiva affidata alle parole del messaggero noi ‘vediamo’ la fine incredibile del bell’Ippolito travolto sul carro dal mostro, una scena atroce, e di nuovo ovidiana per la spettacolarità verbale, in cui Seneca dà saggio della propria famigerata indole truculenta: «questa splendida raccolta del cadavere fatto a pezzi», scriverà Edoardo Sanguineti ricordando a tanti anni di distanza la sua prova di traduzione della Fedra per Ronconi.
Solo i disiecta membra del ragazzo procureranno il rimorso tardivo di Fedra, e l’escamotage del suicidio non si sa se più per amore o per la vergogna (che è uno degli assi culturali del mito): «Ippolito, così vedo il tuo volto? Così l’ho ridotto? ... Ahimè, dov’è fuggita la tua bellezza? E i tuoi occhi, le mie stelle? Giaci senza vita? Avvicìnati ancora per un poco! Ascolta le mie parole. Non dico più nulla di vergognoso (nil turpe loquimur)...» (vv. 1168 sgg.).
Anche soltanto il montaggio di pochi fotogrammi lascia intravvedere la liturgia intellettuale che connota il teatro di Seneca e ha spinto più d’uno a delimitarne l’effettiva riuscita scenica (quella che il Leo chiama tragoedia rhetorica) oppure viceversa a metterne in valore la pregnante iperletterarietà di teatro recitato o «di parola», moderno: da Diego Lanza a Charles Segal, per il quale la retorica è la sostanza stessa dei personaggi di Seneca, il loro incrudelimento psichico.
Questa linea si può inoltrare sino a certi allestimenti teatrali contemporanei, portatori di buone intuizioni anche per i filologi: è il caso appena di nominare Peter Brook, e Luca Ronconi che nel gennaio 1969, mentre preparava un concitato, mobilissimo Orlando Furioso, allestì a Roma, antifrasticamente statuaria, la Fedra di Seneca, disponendo lungo una scalinata ripida gli attori fissi come cariatidi, che recitavano quasi leggendo all’interno di postazioni-cella.
Estremizzazione coreografica tutto sommato destinata a impallidire dopo la parossistica rilettura, borghese e ipersessuale, di una Sarah Kane.


“la Talpa – il manifesto”, 8 luglio 2012

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