5.3.14

Primo Levi. La scienza contro “il brutto potere” (Massimiliano Biscuso)

Nella cultura italiana è possibile riconoscere una linea di pensiero che ha tratto dalle scienze della natura le conseguenze più generali riguardo all’uomo (e alla donna) e al significato della sua esistenza, elaborando una «filosofia dolorosa ma vera»; una linea di pensiero che può essere definita leopardiana. Leopardi infatti è stato l’intellettuale italiano che più di ogni altro ha riflettuto sulla nuova situazione culturale prodottasi nel mondo moderno con l’emergere delle nuove scienze e del modo nuovo di farle e pensarle e che, in Italia, più si è interrogato delle scienze e quello della letteratura o della poesia. A questa linea, importante ma minoritaria, appartengono due tra i più significativi scrittori e intellettuali della seconda metà del Novecento italiano: Italo Calvino e Primo Levi.
Se a proposito di Calvino molto è stato detto riguardo al rapporto tra scienza e letteratura, non altrettanta attenzione ha ricevuto invece l’importanza della formazione scientifica sul pensiero di Levi, che prima della guerra aveva studiato chimica e dopo la drammatica esperienza del lager, a cui sopravvisse lavorando in un laboratorio chimico, fu chimico di professione in una fabbrica di vernici. Il bel saggio di Antonio Di Meo, Primo Levi e la scienza come metafora (Rubbettino), ricostruisce la personalità intellettuale complessa ma profondamente unitaria di Levi scrittore e insieme scienziato, facendo dell’autore torinese un protagonista di quella linea di pensiero leopardiano di cui si è appena detto.

Una metafora del vivere umano
Nello scrivere testi come Il sistema periodico, l’intenzione di Levi non è divulgativa ma «principalmente letteraria», e talvolta «assume tonalità di tipo morale e filosofico»; i suoi scritti «possono essere considerati delle vere e proprie operette morali».
Si pensi a racconti come Una stella tranquilla, con quel suo inizio rassicurante da favola per bambini («In un luogo dell’universo molto lontano di qui viveva un tempo una stella tranquilla…»), e con quel tono lieve nel narrare la catastrofe cosmica dell’esplosione di una Nova che annichila il suo sistema planetario, ma che per l’astronomo terrestre è solo «un puntino appena percettibile» sulla lastra fotografica.
Oppure allo scritto Il brutto potere, che fa sua la denuncia leopardiana della «forza, non invincibile ma perversa, che preferisce il disordine all’ordine, il miscuglio alla purezza, il groviglio al parallelismo, la ruggine al ferro, il mucchio al muro e la stupidità alla ragione», ed elogia la capacità del vivente di procrastinare la degenerazione conservando l’equilibrio, di lottare cioè contro la vita, la quale spesso ci cambia in peggio. «In generale, sulle lunghe distanze l’omeostasi non regge: ci pensa “la vita” a fare di te un altro, un pavido, un inerte, un avaro, un vizioso, un ipocondriaco, perché, a furia di rodere, ha distrutto le tue difese».
E si pensi soprattutto al Sistema periodico, i cui capitoli prendono il nome dagli elementi chimici, quasi segnavie della vita e dell’esperienza che di essa ha fatto Levi. Scrivere di scienza, e in modo privilegiato di chimica, per Levi è quindi molto più che divulgare, perché la scienza, anzi la pratica della scienza è una metafora del vivere. Di quel vivere umano che si oppone alla vita e al suo «brutto potere». La chimica praticata da Levi è una scienza che, al contrario di molte altre scienze naturali ma analogamente alla medicina, ha mantenuto una relazione positiva con le qualità secondarie dei corpi (gli aspetti qualitativi, non misurabili ma percepibili dai nostri sensi): si pensi all’importanza degli odori nel mestiere di chimico, alla capacità dell’olfatto addestrato di riconoscere sostanze diverse prima ancora la loro natura sia certificata dall’analisi; una pratica che si fa metafora della forza evocativa che gli odori conservano e che segnano la vita umana. Ma soprattutto la chimica è la scienza dell’individuale e della differenza: come lo stesso Mendeleev ha ricordato, l’atomo è, più che l’indivisibile, l’individuo. «La chimica, dunque, da questo punto di vista è una scienza della materia di cui, di necessità, il diverso si trova positivamente collocato all’interno di forme di relazioni multiple, nelle quali però ne viene salvaguardata l’individualità e la
cui dinamica dipende proprio da quest’ultima».

L’universo del lager
Il sistema periodico dona ordine al caos della materia, stabilisce differenze nell’indifferenziato, riconosce il positivo valore dell’individualità all’interno di un sistema razionale. Per questo la chimica, sostiene Levi, è intrinsecamente antifascista. «La filosofia del lager – e del fascismo e del nazismo più in generale – si collocava all’estremo opposto della filosofia sottostante al sistema periodico, poiché il fascismo e il nazismo, invece, avevano combattuto (e il lager annichilito) proprio il diverso e l’individuale».
L’esperienza del lager, centrale e dominante nella vita di Levi, si iscrive così nel libro di Di Meo all’interno della più generale concezione che la scienza ha rivelato agli uomini moderni: diventa un esempio, il più eclatante, di quel «brutto potere» che governa la natura tutta e che gli uomini possono scegliere o rifiutarsi di imitare. I libri di Levi sull’esperienza concentrazionaria rivelano «l’ostinata e quasi ossessiva volontà di capire»; ma dietro tale volontà di trovare un senso all’accaduto non c’è solo l’abito mentale dello scienziato che sa che se un evento è accaduto ci deve essere una spiegazione, c’è soprattutto quella che potremmo chiamare la natura etica del ragionare. La comprensione razionale – l’abbiamo visto sopra nel passo de Il brutto potere – è infatti il contrario della stupidità, della brutalità degli aguzzini, e soprattutto è la condizione di possibilità del soggetto morale, ciò che gli permette di scegliere di comportarsi all’inverso del «brutto potere», di non imitarne la forza distruttiva.

Una produzione di senso
La ragione crea la forma. E la forma si oppone alla vita. Costruire molecole, come scrivere, significa esercitare la ragione, cioè creare forme dentro e contro la materia informe. È questo l’aspetto centrale dell’attività intellettuale di Levi, che Di Meo mette in luce: la scrittura è creazione dal nulla, è produzione di un ordine intelligibile, è donazione di senso a ciò che di per sé senso non ha. Per questo soggiace al dovere morale di comunicare, di partecipare agli altri la propria donazione di senso. Ne I sommersi e i salvati lo scrittore torinese afferma lapidariamente che «rifiutare di comunicare è colpa». Per Levi, secondo Di Meo, «l’oscurità di uno scritto rinvia non solo all’esperienza del lager, dove aveva vissuto con molti altri deportati “l’incomunicabilità in modo più radicale”, ma anche di una situazione di angoscia profonda, atavica, senza nome, simile a quell’universo informe e vuoto – il tohù vavohù – che nel mito biblico precede la creazione universale; ossia un’angoscia riconducibile al momento che precede l’esistenza di un mondo realizzato come un discorso dotato di senso che l’uomo può e deve comprendere, e deve perché può. (…) Il caos delle origini del mondo, dunque, per Levi è analogo al caos linguistico del lager dal quale era necessario e vitale strappare frammenti di senso, “ritagliare un senso entro l’insensato”». E cosa altro sono la scrittura e la chimica, se non «ritagliare un senso entro l’insensato»?


il manifesto, 7 ottobre 2011

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