7.3.14

La vita delle statue (Marguerite Yourcenar)

Museo archeologico di Siracusa. Venere Anadiomene
Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita. E' superata la prima fase, che, per l'opera dello scultore, l'ha condotta dal blocco alla forma umana; ora una seconda fase, nel corso dei secoli, attraverso un alternarsi di adorazione, di ammirazione, di amore, di spregio o di indifferenza, per gradi successivi di erosione e di usura, la ricondurrà a poco a poco allo stato di minerale informe a cui l'aveva sottratta lo scultore.
Non abbiamo più, inutile dirlo, una sola statua greca nello stato in cui la conobbero i contemporanei: scorgiamo appena qua e là, sulla capigliatura di una Kore o di un Kuros del VI secolo, lievi tracce di colore rossastro, comparabili oggi alla più pallida henna, che attestano la loro qualità antica di statue dipinte, con la vita intensa e quasi terrificante di manichini e di idoli che per di più sarebbero capolavori. Questi materiali duri modellati a imitazione delle forme della vita organica hanno subito, a loro modo, l'equivalente della fatica, dell'invecchiamento, della sventura. Sono mutati come il tempo ci muta. Gli scempi dei cristiani o dei barbari, le condizioni in cui hanno trascorso sotto terra i secoli di abbandono sino alla scoperta che ce li ha restituiti, i restauri sapienti o insensati di cui si avvantaggiarono o soffersero, le incrostazioni o la patina autentica o falsa, tutto, fino all'atmosfera dei musei ove nei nostri tempi, sono rinchiusi, ne segna per sempre il corpo di metallo o di pietra. Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla bellezza come l'ha voluta un cervello umano, un'epoca, una particolare forma di società, aggiungono una bellezza involontaria, associata ai casi della Storia, dovuta agli effetti delle cause naturali del tempo. Statue spezzate così bene che dal rudere nasce un'opera nuova, perfetta nella sua stessa segmentazione: un piede nudo che non si dimentica, poggiato su una lastra, una mano purissima, un ginocchio piegato in cui si raccoglie tutta la velocità della corsa, un torso che nessun volto ci impedisce di amare, un seno o un sesso in cui riconosciamo più che mai la forma del fiore o del frutto, un profilo ove la bellezza sopravvive in un'assenza assoluta di aneddoto umano o divino, un busto dai tratti corrosi, sospeso a mezzo tra il ritratto e il teschio. Così un corpo scabro somiglia a un blocco sgrossato dalle onde; un frammento mutilo si differenzia appena dal sasso o dal ciottolo raccolto su una spiaggia dell'Egeo. Ma l'esperto non ha dubbi: quella linea cancellata, quella curva ora perduta ora ritrovata non può provenire se non da una mano umana, e da una mano greca, attiva in un certo luogo e nel corso di un certo secolo. Qui è tutto l'uomo, la sua collaborazione intelligente con l'universo, la sua lotta contro di esso e la disfatta finale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme. Il suo disegno si afferma sin in fondo nella rovina delle cose.


da Il tempo, grande scultore, traduzione di G. Guglielmi, Einaudi, Torino, 1985.

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