25.3.14

1967. Fortini legge la “Lettera a una professoressa”, libro-uomo del prete Milani

Franco Fortini
Un testo intenso, difficile, bello e, quanto dev'essere, critico. 
E' la lettura, nell'immediato (siamo nel 1967, il sessantotto è alle porte, ma non c'è ancora), della Lettera a una professoressa del prete Lorenzo Milani e della sua scuola di Barbiana. Fortini non fa concessioni ideologiche al libro e senza disconoscerne la grandissima forza letteraria e profetica, ne mette impietosamente in luce i tratti populistici (un populismo assai più autentico di quello posticcio che oggi domina la scena). Questo gli permette di intravedere anche i contenuti duri e radicali del libro, che sfuggono ai più e ne costituiscono il nerbo. 
Nondimeno Fortini, in ultima analisi, si sbagliava . Per una sorta di eterogenesi dei fini questo libro di fede "senza politica" eccitò e motivò tanta politica.
Ho recuperato lo scritto dal sito del Centro studi Franco Fortini di Siena, che ha il nome di uno dei libri più provocatori del poeta e saggista, L'ospite ingrato, ma la sua originaria collocazione erano i “Quaderni piacentini” IV, 31, luglio 1967, pp. 271-281. (S.L.L.)
Il priore Milani nella scuola di Barbiana
La questione non è di dire a chi non l’ha letto che il libro Lettera a una professoressa dev’essere letto: basta una pagina e chi ha orecchi intende. Non è nemmeno di dire che è, quasi sempre, eccezionalmente ben scritto: l’intellettuale cretino che lo elogerà è già previsto e d’altronde (come dirò poi) quelle sue qualità di energia immediatezza violenza hanno anche un risvolto negativo.
La questione è di sapere a chi e a che cosa serve un libro così.
Si risponde: alla scuola e a tutti. È una parabola, si dice. I personaggi scolari e insegnanti sono figure di tutti noi.
Un momento. La cosa veramente importante è che nessuno di noi leggerebbe il libro se fosse soltanto un contributo ai problemi della scuola dell’obbligo e degli istituti magistrali. Quel che ci fa tenere il fiato è quel passaggio – ora oscuro ora aperto – da un problema particolare, grandissimo quanto si voglia, al tema della rivoluzione-salvezza. Dico subito: è un salto, non un passaggio. Al posto del passaggio c’è un uomo, una disperazione, “una mano tesa al nemico perché cambi”, la coscienza delle disuguaglianze, la coscienza; c’è una precettistica stupenda, una retorica di forza classica. Una fede e una letteratura. Non una politica.
Eppure il libro batte e ribatte ad ogni pagina sulla politica come vita. Insiste su alcune verità assolutamente politiche. Facchinelli le ha riassunte benissimo. Che cos’è che non gira? “Vendi quel che hai e dallo ai poveri” è il precetto. Ai “Pierini” si intima di sparire o di farsi maestri, ossia discepoli. I “poveri” sono, nel mondo intero, i “contadini”, gli uomini di un’altra cultura.
La parola populismo è stata usata, questi anni, a torto e a traverso. Se c’è un caso in cui bisogna usarla è questo. Nel senso di: lotta per i valori del mondo subalterno e per l’eguaglianza. Ma se la rabbia-amore ha da avere un senso e non rischiare il compiacimento non può che essere trasformazione dei rapporti reali ossia rivoluzione esteriore non rivoluzione interiore ossia conversione. Ora per la trasformazione della società (a partire dalla scuola) qui si propone, in sostanza, il volontariato, il “doposcuola classista”; la vocazione non l’organizzazione, l’immediatezza non il rapporto tattica-strategia.
Gli uomini come Milani e probabilmente tutti i veri uomini religiosi vogliono, come Antigone, essere dalla parte dei morti. Ognuno di noi, se conosce e quando misura l’irrimediabilità della sorte singola e anche di quella visibile del gruppo e dell’età umana cui si è toccati in sorte, si volge dalla parte dei morti, del non più o del non ancora. Antigone sepolta viva, nella condizione intermedia, nella grotta che comunica con il vuoto sotterraneo, pronuncia per la città leggi nuove.
E non ho a vergognarmi del vecchio privilegio di Pierino, che sa chi era quella ragazza greca: se per un verso gli esclusi, gli oppressi, sono più gravemente esclusi ed oppressi, oggi, proprio perché partecipano, non perché non partecipano, delle conoscenze della borghesia, per l’altro verso i Pierini cresciuti, noi insomma, non scontiamo soltanto la nostra colpa storica nei confronti del mondo “muto” dei contadini con la cecità verso più della metà del mondo ma subiamo la strangolamento, l’immiserimento caotico, la falsificazione.
È difficile valutare questo libro e l’opera di Milani perché è difficile parlare sotto un indice teso. Si rischia di reagire con ingiustizia. È difficile per la natura allegorica, l’ho detto, di queste pagine: può sembrare meschino e incomprensivo contestare – e può esser fatto senza difficoltà – molte affermazioni singole sulla scuola, gli insegnanti, le istituzioni, quando sai che la parola scritta ti chiama a ben altro. Ma d’altra parte la dimensione universalistica del discorso non può non rimandarti alla sua verifica immediata, al suo pretesto di partenza. Ancora una volta, il fascino, la chiamata di questo libro-uomo è nella pratica abolizione dei “corpi intermedi”: per quanto parli di collettività fraterna, senti che Milani ha in cuore l’Uno-Tutti, uniti dal trattino dell’immediatezza. E gli avversari, i nemici di classe devono essere combattuti ma perché cambino, sono in sostanza dei fratelli separati dall’errore e dall’avarizia.
A questo proposito vorrei mettere in evidenza per la sua straordinaria genialità e ricchezza la definizione di “opera d’arte” che si legge a p. 132: “Così abbiamo capito che cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra”; “Pian piano vien fuori quel che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. L’arte è veduta come mossa da una negazione, da un odio; la verità che ne esce è “mano tesa” e specchio e proposta di cambiamento (il “nemico” sono gli altri, la vita, te stesso...) quindi non è negazione reale e intera ma collaborazione (e in questo si distingue dalla prassi e dall’aut-aut del discorso scientifico...).
Ma qui va rilevato soprattutto che “opera d’arte” ha qui anche il suo etimo medievale, artigiano; e che è riferita esplicitamente alla costruzione del libro di cui si parla. Nell’intento dell’autore esso è “mano tesa al nemico perché cambi” ed è “opera d’arte”. Si chiarisce qui, fino in fondo, il carattere letterario, nel miglior senso della parola, di questo libro. Esso è opus rethoricum, come uno Specchio di Vera Penitenza o il Quaresimale di Bernardino da Siena. E cade qui opportuno dire che il rovescio dei più forti esiti di questa prosa sta in certi molto sgradevoli effetti d’eco (accenti che debbono aver tradito – mi dice chi l’ha conosciuto – l’uomo Milani, immune di retorica dei sentimenti e della missione); eco, voglio dire, del cattolicesimo di destra, toscano, degli anni Venti e anche dopo, da “omo salvatico” e da “Cento pagine di poesia”, con nomi autentici e meno autentici, certo Tozzi, certo Soffici, esaltazione della durezza contadina, della lingua soda, eco a sua volta di certo Péguy e di certo Bloy, ultimo rivolo della contestazione antiborghese e antidemocratica, su su fino a De Maistre.
Ultimo? Chi, come me, non ha fatto che mettere in guardia, con se stesso, i propri amici dall’inganno storico che riducesse la rivoluzione alla eredità democratico-giacobina e poi positivistica del marxismo, e poi dalla sua filiazione inevitabile, l’eurocentrismo operaistico, dovrebbe riconoscere e riconosce infatti nell’accento di un libro come questo il timbro d’una nuova lega metallica, risonante, come scrive Fachinelli, ai quattro angoli del mondo, nella volontà, entusiastica o ironica, di unire attimo e illimitato, fraternità e felicità, rifiuto del consumo e consumo di se stessi: “perché anche io ti amo, o Eternità”. Eppure – eppure sente di dover dire che qui, in questo libro e probabilmente in molti dei movimenti e dei momenti che oggi corrono il mondo, c’è o almeno prevale un aspetto dell’autentica passione religiosa e rivoluzionaria: l’aspetto della “nazione”, del “popolo scelto”, della “città dei santi”. Quanto più si insiste sul momento del “tutti”, più si privilegiano i poveri, gli oppressi, gli “idioti”, insomma gli eletti. La “cultura” dei “padroni” appare come qualcosa che contamina, sostanzialmente inutilizzabile (basta notare come il discorso annaspa, nelle sue analisi e proposte, quando si passa dalla Media Unica alle Magistrali: e peggio accadrebbe se parlasse di altri tipi di scuole). Insomma, qui si separano gli uomini troppo e troppo poco: troppo, nella misura in cui non si vuol vedere che la ideologia dominante pervade tutto il linguaggio e non ne esenta il parlar comune (onde ogni docente è, per posizione, bilingue e traslatore); troppo poco, perché la distruzione degli avversari è vista, amorevolmente e cristianamente, come una mano tesa per entrare nella square dance della fraterna gioia non come un processo, molto concreto, di spoliazione, perdita di diritti e di privilegi, immiserimento, umiliazioni, suicidi e fucilazioni. C’è, in fondo, un ottimismo disperato, quello di tutti i momenti catari della storia religiosa, di tutte le città assediate: “Ho li testimoni qui a Firenze. Io conosco che questa mattina io sono pazzo... bisogna combattere contro duplice sapienza... contro duplice scienzia... credimi che il coltello di Dio verrà e presto”.
So di aver appena sfiorati alcuni dei temi che questo libro-uomo suggerisce. Ma mi è chiaro che Milani è della specie d’uomini cui lo sterminio dei viventi e quello dei trapassati, l’irrecuperabilità degli individui, spinge alla rivoluzione che dovrebbe, nell’ordine della storia, salvarli. Ma è l’antico Iddio, non la storia, a salvare gli individui; la storia, se mai, potrà “salvare” la specie; e allora la “politica” sarà, necessariamente, il contrario di ogni abbreviazione, la “rivoluzione” il contrario di ogni entusiasmo, la “felicità” il contrario di ogni illusione. Chi non regge, scelga la mezza fede, la deviazione estetica, la morte-vita immediata. Altrimenti non resta che il lavoro senza luce e senza alcuna speranza immediata, che è della politica autentica; e che a nulla somiglia tanto quanto la fede autentica e la poesia vera.

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