7.2.14

Carducci senza enfasi. "Pianto antico"

     

Carducci senza retorica è il titolo di uno dei più bei saggi di Luigi Russo, forse la monografia più importante del critico deliano, dopo quella su Giovanni Verga. 
Il titolo e l’approccio nascevano da un preciso contesto storico, quello del fascismo, che del poeta ottocentesco tendeva a valorizzare primariamente l’elemento patriottico e nazionalistico. Al termine retorica Russo dava il valore non positivo che era tipico delle poetiche romantiche, intendendo il ricorso a figure, costruzioni, tecniche espressive, in origine tipiche dell’oratoria, in grado di affascinare e trascinare l’uditorio, spesso senza autenticità e sincerità: insomma un’arte che denuncia l’artificio e che alla fine è d’ostacolo alla poesia. 
Oggi c’è meno diffidenza verso la retorica, verso la parola e verso la cosa: s’è diffusa la consapevolezza che tecniche e artifici sono ineliminabili, connaturati all’espressione letteraria e che, generalmente, il rifiuto della retorica esprime un altro tipo di retorica, cioè altre tecniche, altri artifici, anch'essi finalizzati alla persuasione.  
Dagli eccessi della retorica classicista bisognerà comunque liberare Carducci, “poeta professore” che spesso gode del suo stesso tecnicismo, del suo linguaggio altisonante. E, nello stesso tempo, bisognerà liberarne l’opera da un difetto che non gli si può addebitare interamente e che proviene dalle letture scolastiche.
Mi riferisco in particolare al dire gonfio ed esagerato, all’enfasi che maestre e maestri di scuola aggiungevano a quella già presente nel poeta. Il ridicolo che promana dal “T’amo pio bove” per esempio deriva assai più dal “t’amo” strascicato e dal vocativo isolato ed evidenziato dalla voce recitante che dalla poesia in sé e per sé.
Così anche per Pianto antico, dove certo la retorica non manca, ma è quella misurata di Orazio. In quel tipo di retorica si iscrive la costruzione simmetrica dell’antitesi tra l’albero e il figlio morto, peraltro assai efficace a comunicare il disagio per il reale che è una delle prime molle del fare poetico. Da una parte c’è il mondo vegetale che sembra partecipare del tempo ciclico assai più di quello umano, per cui il risveglio primaverile può apparire illusoriamente una rinascita, come accade nel verde melograno; dall’altro l’irreversibilità del tempo lineare che prevale nella vita dell’uomo e dentro di essa lo scandalo e l’assurdo della morte delle persone care, che distrugge ogni consolatoria illusione.
Io oggi, in minimetrò, ho provato a recitarmela quella poesia, tra me e me, depurandola da ogni gesticolazione visibile o invisibile, da ogni enfasi. Nessuna mano levata a indicare l'albero, nessuna sottolineatura dell’apostrofe “tu”, quella che nella recitazione elementare diventava “tuuuu”, nessuna valorizzazione delle altre anafore. Lettura a bassa voce, monotona, asciutta, secca, materialistica come il messaggio implicito nel breve testo. La retorica allora risulta del tutto funzionale alla comunicazione e Pianto antico, liberato dal peso della tradizione scolastica, appare per quello che è: un piccolo capolavoro. E commuove fino alle lacrime. (S.L.L.)

Pianto antico
L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,

Nel muto orto solingo
Rinverdí tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo unico fior,

Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.

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