15.1.14

La Bibbia della racchetta. Clerici cronista, filologo e scrittore (Massimo Raffaeli)

Un rovescio di Pietrangeli
Un cronista, un filologo e uno scrittore: è raro riscontrarne il combinato disposto in una sola persona ma, quando succede, ciò spiega il carattere eccezionale di opere quali 500 anni di tennis (Mondadori,), vera bibbia della racchetta che torna in libreria con i debiti aggiornamenti, mantenendo però lo splendore tipografico e l'accuratezza degli apparati bibliografici e documentari. Il biblista in questione, Gianni Clerici, l'aveva pubblicata nel '74, sotto l'egida di Gianni Brera, e una seconda volta nell'87', libro ponderoso, outsider anche nel formato e nella sontuosa impaginazione che alterna bianco-e-nero e sequenze fotografiche a colori, era da tempo irreperibile e di esso può dirsi, come di non molti altri, che se ne sentiva la mancanza. Né occorre essere appassionati di tennis, o dei praticanti, per apprezzarne tutta quanta la bellezza squadernata; anzi, un certo tasso di incompetenza o di relativa estraneità allo sport che pure fu l'emblema della borghesia in cerca di lustro e aristocratica eleganza induce paradossalmente il lettore a una ricezione più straniata, dunque più ricca e consapevole.
La parte del cronista, Clerici se la riserva nelle fitte didascalie al corredo fotografico, quasi un libro nel libro: che spieghi un servizio di Pancho Gonzalez, un rovescio di Nicola Pietrangeli o che sorprenda Marcel Proust in una buffa istantanea, mentre inginocchiato suona la racchetta a mo' di mandolino, lì ritroviamo la puntualità, la notazione precisa e senza un fronzolo di migliaia di articoli apparsi a sua firma prima sulla “Gazzetta dello Sport” e sul “Giorno” e poi per decenni su “Repubblica”. A Clerici filologo e storico dello sport spetta invece il compito della ricostruzione cronologica, del quadro ambientale e di costume tracciato con nitore e sicurezza critica, vale a dire con la capacità di distinguere e compulsare fonti storiografiche molto lontane, che vanno dalla genesi grecolatina alla penetrazione del gioco nell'intero bacino del Mediterraneo, fino alla pallacorda, le jeu de paume, con tanto di primi trattatisti sulle cui pagine il tennis, la pallina che in eterno va e viene, già simula la dialettica precaria e/o struggente ricomposizione.
E qui va ricordato che proprio da un nucleo di 500 anni l'autore ha tratto di recente Divina. Suzanne Lenglen, la più grande tennista del XX secolo (Corbaccio, 2002), una biografia che in effetti si legge come un libro di storia, o come una vicenda emblematica, circonfusa di mito e nostalgia, della Bildung secolare. A Clerici scrittore tocca infine la galleria dei ritratti, il vasto campionario degli atleti nella cui vicissitudine, ogni volta, egli isola un dettaglio fisico, una vera o potenziale attitudine, insomma qualcosa che sia capace di svelare il campione e pienamente umanizzarlo alludendo all'ambiente di origine, al percorso e alla formazione, a quanto in una parola potrebbe dirsi la sua cultura. Perciò i singoli gesti, prima che dettagli tecnici, rappresentano sempre metafore e vettori di altro, sono la zona emersa e in pieno sole di quanto resta in loro un segreto o un mistero appena adombrato. Stanandoli, alternando ardore lirico e ironia, Clerici li traduce in forma di quesiti esistenziali. Ecco allora emanciparsi dallo stato di enigma il drive classicissimo di Jack Kramer, la ritmica duale di Hoad e Rosewall, o l'antitesi perfetta di Borg e McEnroe, ascia bipenne contro racchetta lisergica. Così esordisce ad esempio il ritratto di Rod Laver detto il Genio, minuscolo australiano dai capelli rossi, un mancino che tagliava il rovescio con effetti lunari e per chiunque scabrosi: «Era una sorta di piccolo cowboy, ma non veniva dal Texas, il suo paese era più lontano, più duro e più brullo del Texas: bambino, andava ad appostare i canguri, con gli amici. (...) La prima cosa che il maestro Hollis insegnò a quel bambino dai capelli rossi, dal viso di triste Pierrot sommerso di efelidi, dalle gambe arcuate e dalle braccia lunghissime, fu che doveva vincere sempre 6-0, 6-0, e non mollare mai la palla, nemmeno se rimbalzava su un albero. Rod promise di essere obbediente, e Hollis si dedicò allora ai suoi colpi, soprattutto al rovescio».
Del resto, nemmeno la vocazione narrativa di Clerici è una novità, anche se non tutti i lettori conoscono I gesti bianchi (1974), originale romanzo dell'apprendistato che si dilata ad affresco (con notevoli intersezioni d'epoca, si pensi a Le piccole vacanze di Arbasino) tra Alassio 1939 (a pochi chilometri, cioè a Rapallo, Ezra Pound giocava le sue incredibili partite a tennis), la Costa Azzurra del 1950 e Wimbledon di dieci anni dopo; Baldini & Castoldi ha proposto il romanzo in integrale nel '95 con l'avallo di Oreste del Buono, firmatario di un risvolto dove è detto che Clerici «scrive del suo sport come nessun altro, senza le nostalgie adolescenti di Giorgio Bassani né le astrazioni velleitarie di Michelangelo Antonioni. Con fascino fitzgeraldiano e nervosismo arbasiniano, ma con indipendenza assoluta di ritmo, colpo d'occhio, tonalità di colori e di risposte del cuore a ogni provocazione, movimenta la pagina come fosse sempre in campo, in gara, sempre in tensione».
Una scrittura infatti di cadenza veloce, a tratti nervosa, ma solo quanto basta per vietarsi effetti eccessivamente liftati, e che dunque riuscirebbero decorativi; piuttosto, una scrittura che del tennis mantiene, nei rapidi trapassi di ritmo, quella specie di metronomo ideale che scandisce la partita e la contiene tutta in sé, sublimando lo sforzo e lo spreco di sudore in una compostezza sostanziale, in una trama di arabeschi volatili. È questa la metafora dei gesti bianchi, cioè fatica che diviene forma, l'arte come riscatto di un lavoro: gli stessi gesti che gremiscono, alla maniera di una totale ricompensa, la bibbia appunto intitolata 500 anni di tennis.


“alias – il manifesto”, 26 giugno 2004

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