2.1.14

Il rock ha un padre. Si chiama Sinatra! (Romano Giachetti)

Su un libro e un dibattito americani a proposito di “The Voice”, un articolo di tanto tempo fa (quasi trent’anni) che a me sembra ancora tuttora stimolante. La sua rilettura, peraltro, è stata sollecitazione a riascoltare memorabili interpretazioni. (S.L.L.)

Frank Sinatra, ormai settantenne, ha vinto molte battaglie (e quelle che ha perso non sono poche), ma nessuno si sarebbe mai azzardato a prevedere quest' ultimo suo trionfo: la critica musicale americana più giovane, composta di gente che quando "la Voce" abdicava per la seconda volta non era ancora nata, lo riconosce padre del rock' n' roll. Non Elvis Presley, ma Sinatra.
In un libro appena uscito, Sinatra: An American Classic, John Rockwell raccoglie le opinioni sparse di almeno una dozzina di critici dell'ultima leva e presenta la stupefacente affermazione. Quali sono i termini di questa strana equazione? Rockwell afferma: "Sinatra, nella storia della musica leggera americana, precorre la 'veracità' emotiva del rock migliore come nessun altro, anche se i due stili - il suo e quello creato da Elvis - non si sono mai incontrati direttamente. Lo sa Iddio quanto il rock' n' roll sia anche esagitato, gonfiato e super-retorico; è l'altra sua anima. Ma nelle sue manifestazioni più durature, hard o soft che sia, il rock si muove nelle convenzioni della ' sincerità' colloquiale, cosa che Sinatra faceva quando i divi di oggi non sapevano nemmeno cosa fosse una chitarra".
Per giustificare una tale affermazione, Rockwell riprende in esame la vita e la carriera di Sinatra come se fosse il primo a farlo (invece lo hanno preceduto almeno venti biografi). Ricchissimo di illustrazioni, il suo libro sembra una carrellata "visiva", la lunghissima sequenza di un'avventura che è sempre stata zeppa di colpi di scena. Tre volte, a partire dalla fine della guerra, la carriera di Sinatra è sembrata sul punto di essere finita; e ogni volta è ripartita in quarta. Comeback, il ritorno, è la sua parola d' ordine (ne sta vivendo uno proprio ora). Il magro ragazzo di Hoboken ce la fa a entrare nell' orchestra di Dorsey. Poi parte da solo. Incide dischi. Ogni decennio cambia compagnia discografica ed è come sfogliare un libro di storia (per molti di noi: la storia della nostra vita). Eccolo nei pantaloni super-abbondanti negli anni Quaranta. E' il disinvolto "padrone del mondo" negli anni Cinquanta, il "notabile" (con parrucchino) degli anni seguenti. E' con Franklin Delano Roosevelt nella campagna elettorale del 1944, alla Casa Bianca con John Kennedy, con Ronald Reagan al suo ballo inaugurale. Un camaleonte, un divinatore: l'anima opportunistica, arrogante, ambigua e mutevole di una generazione che, nell'esigenza di restare a galla non importa come, preannunciava perfino (direbbe Tom Wolfe) l'avvento della "me generation", cronologicamente tanto più giovane.
Sinatra (qui, e probabilmente, nella realtà) non è emblematico, ma a modo suo è esemplare. Inoltre (si chiedono molti critici) ciò che conta è la sua musica; la sua musica, e aggiungeremmo, i suoi film (almeno due: Da qui all' eternità e L'uomo dal braccio d' oro). Ma le immagini si soffermano sugli episodi amorosi, le molti mogli, i figli, le "virate" politiche, le cazzottate con i fotografi, quaranta anni di rapporti con la mafia (mai provati, ma sempre lì, nell'occhio della gente). Il padre (un emigrante italiano finito pompiere), i "Hoboken Four", l'intuito di Harry James, il suo piombare da idolo (voce di baritono, l'aria affamata, pronuncia da strada) tra i "bobby-soxers", i giovanissimi del primo anno di pace: è come l'arrampicata del protagonista di uno dei film in bianco e nero che partoriva Chicago (dietro c'è Nelson Algren, c'è James T. Farrell). Nel 1952, improvvisamente, le sue corde vocali si spezzarono. Sinatra si ribellò, divenne Maggio in Da qui all' eternità (8 mila dollari di compenso, un' offesa: ma avrebbe recitato per nulla): e vinse un Oscar. Vinse anche, daccapo, al microfono. Era ormai il "chairman of the board" dello show business.
Un uomo complesso, come sapevamo. Rockwell e gli altri trovano tuttavia che c'è un momento, nella sua vita, in cui la sua "verità" si scopre, ed è in quel suo primo comeback. Bing Crosby aveva indicato che si poteva cantare in pieno relax: Sinatra, superandolo, si appropriò di quella dizione naturale, ma sostenendola con un virtuosismo tanto accorto quanto apparentemente "ineducato". Fu in quegli anni che studiò il "belcanto" italiano, imparò a controllare il respiro.
Il massimo del suo registro "popolare" lo raggiunse negli anni Cinquanta su temi arrangiati e diretti da Nelson Riddle, ed è qui che oggi si trova la parentela tra Sinatra e il rock. Scrive Rockwell: "Super-sicuro di sé con le donne, ma emotivamente scoperto, vulnerabile, come se si confessasse". Sinatra, poi, percorse la sua strada, probabilmente inconsapevole di quanto aveva fatto per la musica pop. Quando pensò di saperlo, sbagliò: incise qualche motivo rock, fece una versione disco di Night and Day. Era fuori strada; e di nuovo tornò alla ribalta, ma come? Riprendendo Kern, Gershwin, Porter e Berlin: la tradizione che gli aveva dato la sincerità da passare ai più giovani.
La ripete anche oggi, e bene. Tutto questo teorizzare sul significato della sua parabola musicale può essere discutibile. A noi pare però notevole non tanto confermare o confutare la parentela tra Sinatra e il rock, quanto il fatto che il rock senta il bisogno di darsela, questa parentela (parlo del rock americano, naturalmente). Un altro ripiegamento nostalgico? Forse.


la Repubblica, 17 marzo 1985 

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