8.12.13

Nel mio piccolo... Barthes ed io (S.L.L.)


Nel 1990 “Rinascita”, il mensile fondato da Togliatti nel vivo della Guerra di Liberazione (1944) poi divenuto settimanale, visse la sua ultima stagione. Se ne andava a poco a poco insieme al Pci, al puer malitiosus et robustus che lo stesso Togliatti aveva allevato perché fosse come una “scure alla radice” dell’albero del capitalismo. Fu, nonostante tutto, un bel morire: il formato rotocalco, le foto generalmente belle e pertinenti, la direzione intelligente di Asor Rosa. In questo suo canto del cigno il settimanale divenne luogo privilegiato di un dibattito teorico-politico, che faceva i conti con la storia di tutto il movimento operaio, di un bilancio del comunismo e del socialismo novecenteschi, che poi non s’è più fatto, per dare luogo a perniciose rimozioni o a sommarie liquidazioni, anche “da sinistra” (penso a Revelli, per esempio).
Da un ritaglio di quella “Rinascita” che andava a morire riprendo il brano che segue, parte di un’intervista di Mariella Di Maio ad Antoine Compagnon, della Columbia University di New York, dedicata a Roland Barthes nel decennale della morte del maestro francese. Compagnon era stato tra i primi a dichiarare conclusa l’epoca del “primato della teoria” nell’approccio ai testi (letterari e non solo), a vedere nell’ultimo Barthes l’esempio di un pensiero più incerto nelle scelte di metodo, più aperto alla libera interpretazione, agli scarti della soggettività. Barthes, peraltro, sembra compiere il passaggio prima degli altri, in maniera più spontanea, naturale, senza alcun disegno o intenzione prestabiliti.
Nel mio piccolo è accaduto anche a me. Gli anni Settanta erano tempo di grandi innovazioni didattiche e io stesso ne seguivo gli sviluppi nei supplementi di “Riforma della scuola” e nel lavoro di Carmela, allora mia moglie, appassionata sperimentatrice di nuove metodologie. Ma personalmente, come insegnante, io ero all’antica: facevo lezione, anche se non sempre dalla cattedra. E tentavo di fare belle lezioni.
Ogni tanto, d’altronde, mi piacevano e, se non avessi avuto paura del ridicolo, mi sarei applaudito da solo. Più raramente piacevano agli alunni, ma gli applausi arrivarono solo in circostanze eccezionali… e mai sugli amatissimi Leopardi, Lucrezio o Gozzano.
Il più delle volte facevo lezione nel senso originario, etimologico, del termine, cioè lettura e interpretazione di testi. Il lavoro andava preparato, ma gli spunti migliori scaturivano quasi all’improvviso nel rapporto tra testo e contesto e con la cooperazione anche silente della classe. Purtroppo di quelle ore scolastiche non c’è registrazione e il buono che si produceva, poco o tanto che fosse, è andato perduto.
A questo modo di essere insegnante, di cui riconosco i gravi limiti (non c’è alcun protagonismo dell’allievo, per esempio), sono rimasto fedele. Eppure, come per Roland Barthes, senz’accorgermene, sul finire dei Settanta, intensi e tragici, il mio approccio cambiò. Prima avevo sempre cercato, anche senza riflettere, il rigore teorico, mentre soggettivismo ed eclettismo erano banditi; da allora, invece, si fece strada anche nelle mie lezioni l’erotica del testo che  finivo con l’elevare a teoria, ma senza alcun rigore. Dichiaravo di “fare l’amore col testo” ed all’analisi critica sostituivo spesso quella che  – maschilisticamente – chiamavo “lettura femminile”, in cui non è il lettore a penetrare il testo ma piuttosto si lascia penetrare e agire dal testo, il quale feconda le sue stesse pulsioni, le sue memorie, le esperienze intellettuali e sentimentali, generando senso. (S.L.L.)
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Appendice
Barthes e il suo tempo
Rinascita: - Tu hai scritto nel 1983 (La Troisieme Republique des Lettres) che «lasciamo un'epoca nella quale è stato sovrano l'approccio teorico al testo letterario». Puoi spiegare in che modo Barthes (i «due» B.: analisi strutturale e piacere del testo) ha segnato questa svolta, questa fine di un'«episteme»?
Compagnon: - L'evoluzione di Barthes rappresenta un’epoca ed e tuttavia rigorosamente personale. Dal marxismo alle scienze umane, poi al «piacere del testo», come segnalavo per il caso di Proust, Barthes non ha seguito il «movimento», lo ha diretto insieme a pochi altri. Ma se paragoniamoci testi teorici degli anni Sessanta con quelli dei suoi contemporanei, vediamo che la cura, la pretesa scientifica sono molto meno nette. Barthes ha seguito soprattutto la propria strada. La scienza è stata una delle sue maschere. In Critica e verità, spinto dalla polemica, ha dato il suo testo più duro e più programmatico. Ma subito dopo si è spostato verso quello che chiamato il «piacere del testo», verso una lettura estremamente personale, quasi identificativa, come quella di Werther nei Frammenti di un discorso amoroso. È vero che l'approccio teorico alla letteratura non è più dominante come un tempo, è vero che Barthes ha anticipato questo spostamento, ma il suo tragitto è stato talmente individuale che esiterei a identificarlo con una mutazione di «episteme» o una svolta scientifica. Gli scrittori coincidono male con questo genere di cose. (da un'intervista a Mariella Di Maio, su “Rinascita”, 20 maggio 1990)

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