29.11.13

Esenin, un demonio con gli occhi azzurri (Cesare G. De Michelis)

La poesia di Sergej Esenin (leggi: Jessjénin) ha avuto una sorte singolare nel nostro paese. E' stata tra le prime, della moderna letteratura sovietica, a venire importata, grazie soprattutto ad un fervente eseniniano come Renato Poggioli, che tra il 1928 e il 1940 s'ingegnò di partecipare al pubblico letterario dell'Italia fascista il grande mito del poeta campagnolo russo; ma anche grazie alla versione di Requiem, fatta nel 1930 da Giuseppe Ungaretti, e alla bella pagina che ne scrisse Benedetto Croce nel 1944. In compenso, non è stata particolarmente coltivata dai traduttori (fatta eccezione per Iginio De Luca), né ha destato particolari riflessioni o analisi critiche. Curioso esempio, si diceva tempo fa con Giovanni Raboni, che sta a testimoniare come la ricezione 'poetica' e quella 'culturale' d'un poeta straniero non necessariamente coincidono, anzi son cose diverse.
Ecco in qualche misura spiegato anche perché il primo grosso volume che compare in Italia sull'autore di Inonija, del Breviario campagnolo, dell'Uomo nero, non è opera d'uno studioso italiano bensì d'uno scrittore polacco, Wiktor Woroszylski (con la collaborazione di Elwira Watala: Vita di Sergej Esenin, Vallecchi).

Teppista drogato
Personalmente, non sono mai stato un patito di Esenin; il mio confuso disamore, che con gli anni è divenuto sempre meno confuso, deriva dalle medesime ragioni che in altri suscitavano entusiasmo: la poesia contadina (sì, ma d'un contadino approdato a Pietroburgo in abiti civili, che si mascherava da mugiko per imbrogliare gli intellettuali cittadini alla ricerca della campagna); i biondi capelli e gli occhioni azzurri (angelici, sì, ma per circuire le sprovvedute impiegate che 'gli si concedevano' per ritrovarsi poi madri nubili); le pose da scita, da rivoluzionario agreste, ma in attesa di scappare a far baldoria in Europa e in America; il teppista, il drogato, l'alcolizzato, il mettiscandali; l'anima vomitata senza ritegno, ma bisognosa d'un pubblico che applaudisse. E soprattutto: quel viscerale amore per la Russia, anzi la Rus', «vasta, boschiva, cerulea», che celava nel profondo la becerità antisemita, antioccidentale, anti tutto quello che non fosse il proprio compiaciuto orgoglio grande-russo (non starò certo a pagare tributi al leninismo di maniera, se ricorderò qui la denuncia fatta da Lenin dell'alterigia nazionale grande-russa: del resto, è da essa che discendono — utilizzando non di rado Esenin — tanto il 'russismo' dei settori più retrivi e ottusi tardo stalinisti, quanto quello, certo più sofferto, ma non per questo meno retrivo e ottuso, dei dissidenti 'alla Solgenitsyn'). E insieme a tutto ciò: il giovanotto che gioca a fare il 'vecchio-credente', mentre all'osteria «sputa il corpo di Cristo»; ovvero, l'ateo, il bezbozhnik militante, che piagnucola: «Ho vergogna d'aver creduto in dio, / ho amarezza di non credervi più». Insomma, sì, l'eseninismo.
Questa ponderosa biografia eseniniana rappresenta e documenta da capo a fondo tutto ciò; con evidente compartecipazione, ma senza riuscire a coinvolgere il lettore che (come nel nostro caso) non ne fosse già attratto. Wiktor Woroszylski è uno scrittore polacco d'un certo rilievo che, dopo aver militato per anni tra i 'duri' dell' ortodossia politica, si ritrova oggi, poco più che cinquantenne, tra i 'clandestini'. Formatosi all' Istituto «Gorki» di Mosca (vi hanno studiato molti dei più noti scrittori sovietici odierni), non è nuovo a ricostruzioni biografiche; anni fa stava per essere pubblicata in Italia quella dedicata a Majakovskij.
Documentatissima, la sua biografia eseniniana non si lascia sfuggire uno solo dei molti aspetti del poeta, che ne fanno davvero personaggio da romanzo: dal giovanile rapporto con Kljuev (che nutriva per lui un'attrazione omosessuale) ai tre successivi e disastrosi matrimoni, con Zinaida Raich — sarà poi la compagna del regista Vsevolod Mejerchol'd —, con la celebre ballerina americana Isadora Duncan, infine con una nipote di Tolstoj, Sofja Andreevna (poco prima di sposarla, confessò ad amici tra i fumi dell'alcool: «Le ho sollevato un po' la gonna, e ti vedo certe gambe pelose... Se la tenga pure Pil'njak, io non la voglio, non posso sposarla...»; insigne esempio di romanticismo) e alle molte altre relazioni, agli scandali per mezzo mondo, alla cupa disperazione finale, confinante con la demenza, che lo spinse trentenne al suicidio. Quello che resta un po’ in ombra, in questa turbolenta storia degli anni folli è la poesia di Esenin, il nesso tra l’eccentricità del personaggio e la sua voce poetica che, come scrisse Jurij Tynjanov, è una «banalità epica», che scivola verso «la sciattezza della poesia generica», dando luogo a versi fatti per una lettura 'leggera', «spesso cessando d'essere versi».

Carica libertaria
All'indomani del suicidio di Esenin (28 dicembre 1925), si scatenò in Urss una violenta campagna contro l’eseninismo, che tendeva a rovesciare sullo sciagurato poeta tutti i modelli di comportamento 'antisociale' immaginabili: teppismo, ubriachezza, cinismo, individualismo, misticismo, e — appunto — suicidio. Ne furono interpreti sia i portavoce dell'ormai vincente linea staliniana (insomma, gli scrittori 'proletari'), sia i loro più acerrimi nemici, i 'futuristi': Aleksej Krucenych nel solo 1926 pubblicò nove opuscoli antieseniniani (Carla Solivetti ne ha dato una silloge, due anni fa, su “La rivista europea”, in uno dei quali proclamava — senz'avvedersi dove avrebbe portato la via indicata — che «Esenin è richiesto e favorito da: 1 ) banditi e prostitute; 2 ) quelli che fanno le fiche nelle tasche... Speriamo che siano prese misure perché questa produzione velenosa (le opere di Esenin) non venga pubblicata».
Non credo che si debba oggi riprendere quella polemica, assai datata, sull'eseninismo; né accortamente lo fa Woroszylski. E' anzi da tener presente che una qualche carica libertaria le poesie di Esenin debbono ben averla, se sono lettura emblematica del 'non integrato' sovietico; e se, come ricordava Poggioli, venivano avidamente lette, in traduzione, dai nostri partigiani in montagna.

Tuttavia, questo non smentisce che si tratti di «versi fatti per una lettura leggera»; e tanto meno sono una ragione per farsi un mito di «un ragazzo di Rjazan» convintosi d'essere il poeta più grande, cui sia (dannunzianamente) tutto concesso.

da un ritaglio senza data da "la Repubblica", probabilmente 1980 

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