31.10.13

Landolfi traduttore e il mistero di Cechov (Fabio Pedone)


Sarà pur vero che Tommaso Landolfi «si specchia» in questi due racconti di Cechov, come recita il retro di copertina del volumetto uscito nella «Minima» Adelphi (La lettura. Kastanka, nota di Giovanni Maccari, pp. 72, euro 6). Ma è uno specchiarsi meno quieto di quel che sembri, anche astraendo dal fatto che (parole sue) «per me il tradurre o appena il rileggere un qualunque scrittore è rendermelo come dire avverso»; a pelle, si potrebbe aggiungere recependo il successivo paragone landolfiano con le gigantesse di Gulliver.
Dopo il Dostoevskij del sottosuolo, Tolstoj e Turgenev, già riapparsi da Adelphi, ecco ulteriori disjecta membra dall'antologia Narratori russi proposta a Landolfi da Elio Vittorini per l'editore Bompiani e uscita nel 1948. Landolfi traduttore veniva dai Racconti di Pietroburgo, che gli avevano fruttato anche una polemica con Vitaliano Brancati sulla curvatura antirealistica impressa a Gogol', e da scrittore nutriva da sempre ammirazione per i russi: tanto modelli di stile comportamentale (nottivago, ozioso, dissipatore) quanto suscitatori in letteratura di un'indocile libertà di fronte al reale: visto non come un dato pacifico sancito in via univoca dal senso comune, ma quale estensione indefinita di possibilità da cui far scaturire l'eccezione che apre le porte dell'universale. Solo ricreando ogni volta se stessa e le proprie condizioni, la scrittura, come quella del prediletto Dostoevskij, potrà essere un'arte del possibile, convogliando nella propria energia l'abbandono al caso e a un errore necessario, ma anche una paradossale fiducia in un senso a venire.
A Cechov, «alquanto enigmatico per costituzione», Landolfi dedicherà negli anni '50, sulle pagine del «Mondo», ben cinque articoli e recensioni (poi raccolti in Gogol' a Roma) mettendone in luce l'indifferenza ai proclami e la renitenza alle prese di posizione immediatamente utilizzabili: «Cechov ci racconta e dice tante cose, e anzi in forma piana, suasiva, irresistibile, tuttavia non ci comunica né intende comunicarci nulla», poi per giunta «si guarda bene dal trarre conclusioni finali». E quel grande romanzo che soffrì di non aver scritto è in realtà la sua intera opera, in tutti i minuzzoli sparsi che gettano uno sguardo sul mondo composito come quello di un insetto (chissà che anche qui Landolfi non stesse pensando in parte a se stesso).
Malgrado il riserbo, malgrado il rifiuto di esaurirsi in una posizione dichiarativa, Cechov a parere di Landolfi «tutto quel che gli stava a cuore lo disse». E la sua vita va osservata come un mistero in piena luce, mediante la stessa via negativa che si riserva a un altro grande nato «sotto altra stella», quel Poe in cui il raziocinio non ha fatto che aggiungere potenza alla visione.
Narratore «prestigioso» e imprendibile, traduttore d'eccezione, cosa ritrova, se qualcosa intende ritrovare, Landolfi in questo Cechov giovanile? Il primo testo, nello schizzare gli esiti calamitosi della lettura di romanzi fra un gruppo di impiegati, rovescia nel comico le tendenze edificanti che vedevano nella diffusione della lettura un segno di progresso, e si può dire che nel suo estro bozzettistico, condizionato negli spazi e nei toni dalle costrizioni giornalistiche, ci sia qualche sintonia con aspetti dell'opera del conte giocatore, clown admirable del nostro '900: si pensi a certe scene con fumo di parodia della Pietra lunare o ad alcune pagine più feriali di Ombre.
Di qui parte per Landolfi una direttrice che sigla l'imperterrito stile di chi si sentì sempre lontano dal marciare alle parole d'ordine del presente. Mentre i temi inscenati da Cechov nella storia della cagna Kastanka, che si perde per le vie del mondo scoprendo esperienze e personaggi con suprema freschezza di sguardo, riporta, come segnala l'ottimo Maccari, a quella Favola che chiude la raccolta Il Mar delle Blatte: ma con una virata metafisica, di allegoria inconclusa, laddove l'autore russo si attesta sull'aneddotico nel segno di una calda tenerezza. E non serve ricordare l'importanza assunta da un bestiario quanto mai polimorfo (dai cani ai ragni, ad altri «animalini») in un'opera tra le più magnetiche della nostra letteratura. In una borgesiana coincidenza a ritroso, in cui lo scrittore italiano quasi crea il proprio predecessore, il curatore evidenzia tra una lettera di Cechov e un eccelso racconto landolfiano, La beccaccia, una situazione esattamente parallela: dove lo sguardo non si sa se implorante o alieno dell'animale che non riesce a morire scatena una tensione lancinante.
Come la scrittura è affetta da «mal di vuoto», la traduzione vive di per sé di insufficienza: «che farci», scriverà altrove Landolfi, «se la poesia è cosa tanto universale da restare in larga misura avvinta alle particolarità di una lingua?». Non è il solo caso in cui l'impossibile si configuri come per ciò stesso necessario. Più che interrogarsi su agonismo o discepolato nel cimento traduttivo, non va trascurato (e Maccari lo sottolinea) che forse Cechov rappresentava per Landolfi una possibilità di vivere e di essere scrittore, per via dell'«estrema pulizia della sua posizione artistica», assorbita solo dalla verità poetica del proprio fare, intrinsecamente morale.
Quanto alla lezione che di quell'esperienza permane viva, sarebbe riduttivo identificarla nel torcere il collo al realismo. È stato Landolfi stesso, in quella straordinaria soglia indiretta che è la sua introduzione a Narratori russi, a dirci che quegli scrittori hanno avuto il coraggio di guardare i fantasmi ridicoli o minacciosi del reale nei loro volti senza volto (…)

“il manifesto”, 11 agosto 2012 

Sempre caro... Una poesia di Toti Scialoja

«Sempre caro mi fu quest'erto corno»
pensa il rinoceronte
senza nessuno intorno.


La mela di Amleto, Garzanti, 1984

L'Ordine sacro (Leonardo Sciascia)

Su “L'Espresso” del 21 settembre 1980 Leonardo Sciascia commentava la (allora) recente uccisione, all’interno del Convento di Santa Maria di Gesù, a Palermo, di un frate, padre Giacinto, al secolo Stefano Castronovo, le cui attitudini e abitudini – tra cui quelle di girare armato di tutto punto e di organizzare in convento festini non casti - lasciavano pochi dubbi sulle sue relazioni con il mondo della mafia militante. (S.L.L.)


Negli anni della mia infanzia, ad ogni estate passava per le campagne un monaco raccoglitore: a cavallo di una mula, sudicio, barbuto e tenebroso. Era un'apparizione consuetudinaria ed attesa, e tuttavia dava una suggestione e soggezione che somigliavano alla paura. Attesa perché portava la cosiddetta "santa figliolanza": un foglio silografato con preghiere che si credeva servissero a scongiurare i lampi, che nei primi temporali dell'autunno facevano sempre qualche vittima. Per quel foglio, al monaco non bastavano quei pochi soldi che ne erano il prezzo: voleva sempre altro, frumento, olio, mandorle, pistacchi. A noi bambini si raccomandava sempre di non avvicinarlo: e ci raccontavano terribili storie di monaci con carabine sotto la tonaca e capaci di ogni scelleratezza.
Questa immagine, inscritta tra i terrori infantili, ha avuto poi tante conferme: il monaco di Santo Stefano Quisquina che aveva sparato sul vescovo di Agrigento, i monaci di Mazzarino...
Ricordo di essere andato con Enrico Emanuelli a Mazzarino, per i fatti in cui i monaci di quel convento erano implicati. Sentimmo tanti ridevoli e atroci aneddoti, ma atrocissimo ci sembrò quello - e mi pare Emanuelli l'abbia trascritto nel suo articolo - del monaco che, entrato nella farmacia il cui proprietario non voleva cedere al ricatto, si avvicinò a carezzare il bambino, su cui era stato mosso il ricatto, dicendo: "Quanto è bello, sembra vivo." Come a dire, visto che il padre non pagava, che si poteva considerarlo morto.
Ben lontani insomma e da fra Galdino e da padre Cristoforo. E a parte i casi eclatanti, credo che una tradizione di perversità, di delinquenza, di oscuri e sicuri ricetti e ricettazioni percorra la storia di certi conventi siciliani. E siamo a padre Giacinto. Ben conosciuto per i suoi libertinaggi e per i suoi intrallazzi, mai che un padre provinciale si sia scomodato a scomodarlo: magari a fargli fare un comodo viaggio fino a Rimini (dove, se ricordate, a piedi fu mandato padre Cristoforo da Pescarenico). In quanto agli altri poteri, credo se lo tenessero caro e se ne servissero: e ho l'impressione che la sua esecuzione sia stata decretata in quanto sospetto di delazione. Tra le tante attività, di cui parlano i giornali, una ne aveva padre Giacinto che è tipica del "confidente", e cioè l'usura. (In questo momento, a Palermo, credo che la mafia stia facendo pulizia di tutti i sospettati di "confidenza".) Che padre Giacinto lo fosse, non si può affermarlo: ma l'ipotesi è tra le più ragionevoli.
E viene da immaginare tutta una storia alla Graham Greene in versione siciliana: questo prete a un certo punto braccato e dal poliziotto e dal mafioso; il poliziotto per strappargli confidenze, il sicario mafioso per definitivamente impedirgliele. E l'Ordine, il sacramento dell'Ordine, dentro questo uomo spavaldo, avido, libertino: una piccola luce vacillante. Avrà avuto, sotto i colpi che l'hanno ucciso, un più vivido guizzo?

Ora in A futura memoria, Tascabili Bompiani, V ed. 2012

30.10.13

Il silenzio di Venere e il sibilo che porta lontano (Ferdinando Camon)

Da un’occasione di spettacolo cosmico, l’imminente passaggio di Venere davanti al sole, Camon ricava, per “la Stampa” una divagazione letteraria, notevole per varietà e puntualità di riferimenti. Felicissimo quello all’incipit del più celebre testo di Francesco di Assisi. (S.L.L.)


Mi preparo a vedere domattina il transito di Venere davanti al Sole, con la nipotina di 12 anni. I bambini si pongono le stesse domande che ci poniamo noi, solo che noi non abbiamo il coraggio di pronunciarle. La nipotina esclamerà: ma com'è piccola Venere! Siamo così lontani? Sì, siamo lontanissimi. E non si potrebbe andar più vicini? È il desiderio degli scienziati: avvicinarsi, toccare. La Luna l'abbiamo toccata? Sì, anzi calpestata. E toccare Venere? Toccare Marte? Vedere se ci sono uomini come noi, dargli la mano? Quello sarebbe il vero incontro.
Abbiamo inventato la stretta di mano per far sentire all'amico che non siamo armati: la stretta di mano è una reciproca perquisizione. Incontrare gli alieni, lasciarci perquisire e perquisirli, è il presupposto per un'amicizia cosmica. Poter cominciare domattina, con questa Venere che passa tra la Terra e il Sole! Ma come si fa ad andar là? Il barone di Munchhausen credeva che il mezzo più veloce per andare nello spazio fosse la cannonata: tu monti sulla palla di cannone e in un attimo scavalchi l'orizzonte. Per il barone, uno sparo potente ci potrebbe lanciare fino a Venere. Era anche la nostra idea, quand'eravamo piccoli: velocità-distanza-sparo. L'idea della nipotina, e dei bambini della sua età, è un'altra: il rumore che ti porta lontanissimo è il sibilo. La «s» è una consonante detta «sibilante». Nei fumetti, il sibilo è indicato da una scia di «s» seguita da un'h: sssh. Il suono sssh ti porta nell'immenso, il suono bum ti fa fare un salto e poi cadi.
Il viaggio nell'immenso non fa rumore: Venere transita in silenzio. In 2001 Odissea nello spazio non si sente mai un fruscio, i bambini si domandano se i motori siano accesi o no. Fino al Leopardi, «infinità» ed «immensità» erano sinonimi, più tardi l'uomo ha cominciato a sentire che «immensità» è più vasto di «infinità». Leopardi ha oscillato tra la prima parola e la seconda. L'Infinito è il titolo di un suo canto, familiare a tutta l'umanità, «M'illumino d'immenso» è la risposta di Ungaretti. Nella casa del Leopardi, a Recanati, il manoscritto di quel canto sta esposto in cornice come una fotografia, e il penultimo verso dice: «Così tra questa / immensità s'annega il pensier mio». Ma nella casa di Pablo Neruda, in Cile, sulla riva del Pacifico, sta esposta una fotocopia dello stesso manoscritto, e la parola «immensità» è cancellata da uno striscio orizzontale e sostituita con «infinità». Dunque Leopardi s'era pentito di «immensità». Più tardi si pentì del pentimento e ristabilì «immensità», che è la parola che noi leggiamo oggi. Il poeta aveva avvertito in maniera definitiva il bisogno di quella sibilante: come se avesse presentito, con secoli d'anticipo, che il suono con cui l'uomo entra nel cosmo non è il rombo, non è il tuono, non è lo sparo, ma è il sibilo.
Ci sono autori italiani, l'ultimo fu Raboni, i quali pensano che la poesia più bella di tutta la nostra letteratura sia la prima, Il cantico di frate Sole di Francesco d'Assisi: la nostra letteratura s'è aperta con un vertice, mai più raggiunto dopo. La prima parola del Cantico è: «Altissimu», in dialetto umbro. Francesco inventò quel canto all'alba di una notte insonne, tormentata da assalti di topi. Spunta il Sole, i topi scappano, Francesco alza le braccia e comincia: «Altissimu, onnipotente, bon Signore...». Quella parola con la doppia «s» colloca il destinatario a una distanza vertiginosa, e umilia il parlante schiacciandolo sulla Terra. A quella altezza è il Tutto, a questa bassezza il Nulla. Lassù transita Venere, quaggiù si festeggia una regina. Ma Venere ripasserà identica l’11 dicembre 2117, e chi sarà allora sul trono della regina nessuno lo sa e nessuno se lo chiede.

La Stampa, 5 giugno 2012

La talpa. Una poesia di Toti Scialoja

Calma la talpa sotto il chiar di luna
palpa le sue patate ad una ad una.

La mela d'Amleto, Garzanti, 1984

Flora e fauna a casa Darwin (Marco Mazzeo)


Sarebbe sciocco negarlo: gli animali domestici costituiscono per la vita umana un conforto emotivo, un aiuto pratico ma anche un perenne enigma. Si tratta di organismi allevati per millenni a nostra immagine e somiglianza allo scopo di farli entrare più facilmente in contatto con un animale, l’Homo sapiens, verso il quale le altre forme di vita nutrono di solito una diffidenza a dir poco motivata. Nonostante ciò ogni giorno abbiamo a che fare con animali comunque imprevedibili: invece di mangiare il topo, un gatto lo depone sull’uscio per rimarcare il legame che lo unisce a noi; un cane muore d’inedia perché si rifiuta di nutrirsi in attesa che arrivi il padrone scomparso; un pappagallo tropicale, fuggito dalla gabbia, si adatta mirabilmente al clima di Roma dando vita a una colonia urbana di pennuti verdi e arancioni.
La variazione degli animali e della piante allo stato domestico (Einaudi «I millenni) è l’opera di Charles Darwin che sfrutta questa inquietudine domestica per spiegare in cosa consiste la teoria dell’origine delle specie come «discendenza con modificazione». L’espressione, ampollosa e poco agile, tradisce la consapevolezza che il termine «evoluzione» contiene un equivoco al proprio interno, poiché sembra accennare a un processo lineare dotato di un fine prestabilito.
Anche se noto soprattutto per i suoi viaggi avventurosi nei mari del Sud, Darwin è innanzitutto un allevatore e un coltivatore: adora lo splendore sedentario delle orchidee e la modestia della cura dei giardini; studia i tanti animali che, insieme ai figli, gli gironzolano per casa. La variazione utilizza le fonti più diverse: esperienze dirette di allevamento e osservazione naturalistica, discussioni circa le teorie scientifiche più accreditate, citazioni di pubblicazioni specialistiche, aneddoti di allevatori e vivaisti raccolti da Darwin in dialoghi appassionati e informali. Non è però un’opera di erudizione: è un libro teoricamente decisivo, terzo anello della formidabile trilogia che, insieme all’Origine delle specie e all’Origine dell’uomo, ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo dei viventi.
In una edizione italiana ricchissima (…), La variazione propone più di ottocento pagine frutto di quindici anni di lavoro (1860-1875) nelle quali si affrontano con coraggio sfide che la teoria dell’evoluzione ancora oggi è chiamata ad affrontare. La selezione naturale è una forza inderogabile? Come si origina la variazione delle forme selezionate in natura?
Per capire il significato del libro occorre tener conto innanzi tutto della sua spregiudicatezza, in evidenza già nel titolo. L’accostamento tra selezione artificiale (l’agricoltore che cerca di rendere più resistente il mais o più profumate le sue arance) e selezione naturale (la forza alla base dell’estinzione dei dinosauri a vantaggio di animali piccoli e prolifici come i mammiferi) rappresenta ancora oggi un punto dolente. Ne Gli errori di Darwin (Feltrinelli, 2010), ad esempio, Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor affermano che questo parallelismo non regge perché presuppone l’esistenza in natura di un fine in base al quale effettuare la selezione. Nella Variazione Darwin dimostra di essere consapevole del rischio che corre nel proporre il paragone e per questo spiega il senso dell’accostamento. L’agricoltore imita gli eventi naturali nel tentativo di produrre una rosa blu o una pera più saporita. La somiglianza tra selezione artificiale e naturale non risiede in una intenzione comune e nascosta ma, al contrario, nel fatto che variazione e selezione si muovono lungo binari in entrambi i casi imprevedibili. Un allevatore di cavalli da corsa si trova di fronte a un dilemma pratico: per un verso far incrociare un animale particolarmente veloce con animali consanguinei vuol dire mantenere vivo il carattere che più gli interessa, la velocità. Per un altro, l’incrocio assiduo tra parenti prossimi aumenta le possibilità di malformazioni.
La gestione di queste due variabili non può che procedere per tentativi ed errori, in buona parte alla cieca. Difficile conoscere la precisa discendenza di ogni esemplare perché è possibile, ad esempio, che un carattere emerga dopo diverse generazioni di latenza. Può accadere che nostro figlio assomigli più al nonno che al padre; capita che la prole di piccioni striati esibisca un improvviso colore blu a tinta unita, retaggio di un progenitore allo stato selvatico vissuto parecchie generazioni addietro.
La lezione da trarre dalla domesticazione di piante e animali va dunque rovesciata: non solo la natura non agisce come un soggetto dotato di intelletto e finalità, ma anche chi lavora per dominare i meccanismi evolutivi è costretto a sottomettersi alla logica della contingenza. La selezione naturale è il protagonista indiscusso dei fenomeni evolutivi ma può agire solo sul materiale fornitogli dalla variabilità costitutiva del mondo naturale. Contro ogni vulgata teologica, gli animali cambiano: anche la Bibbia, osserva Darwin, contiene indicazioni su come allevare gli animali e gestire trasformazioni dovute ai fattori più diversi. Tra dettagli tecnici circa la conformazione ossea dei levrieri o le dimensioni dell’uva spina, emergono gli interrogativi di un Darwin rigoroso ma tutt’altro che ideologico. Il cambiamento delle condizioni di vita e l’uso degli organi può essere il motore della variabilità: una dieta diversa può contribuire all’allungamento dell’intestino dei maiali;
il cibo abbondante e il poco esercizio può portare i conigli di allevamento a dar vita a specie più corpulente.
Darwin seguace di Lamarck?
Niente affatto. Le abitudini di vita possono incidere sulle variazioni proposte dalle specie attraverso crescita e riproduzione, ma è sempre la selezione a stabilire cosa sia adatto alla sopravvivenza. Piuttosto, a tormentare Darwin è il modo nel quale possono essere ereditati i caratteri. Invece di geni (la genetica è scienza del Novecento), Darwin parla di misteriose «gemme riproduttive» che sarebbero presenti in tutte le cellule di un corpo vivente e in grado di farlo riprodurre. Si tratta di una teoria sbagliata, a volte contorta, ma non per questo banale. Darwin è alla ricerca di un principio che riguardi tutte le forme viventi, non solo gli animali ma anche i vegetali. È impressionato dai fenomeni rigenerativi delle piante, dalle loro capacità di innesto, talea e ibridazione: invece di mettere questi fenomeni sullo sfondo, come ancora oggi spesso accade, La variazione ha il coraggio di porli in primo piano come principi dell’ereditarietà.
Proprio perché colpito dalle capacità di rigenerazione dell’abete potato male o della salamandra tagliata in due, Darwin parla dell’ereditarietà in termini che oggi definiremmo «epigenetici». La trasmissione ereditaria non è un processo che avviene in blocco, alla nascita, ma ha un carattere continuo in grado di emergere nei momenti più diversi della crescita di una forma di vita.
Konrad Lorenz, il fondatore dell’etologia contemporanea, utilizzerà la metafora dell’autoaddomesticamento degli uomini per condannare la decadenza del mondo occidentale e aderire al nazismo. Per Darwin, invece, la domesticazione non indica né progresso, né degenerazione: incarna piuttosto la manifestazione più eclatante del carattere sfuggente di carattere sfuggente di quel che sul pianeta Terra vive.


“alias - il manifesto”, 12 novembre 2011

Madrid 1936. Una poesia di Pablo Neruda

Madrid sola e solenne, Luglio t'ha sorpresa 
nel pieno della tua allegria di povero alveare:
chiara era la tua strada,
chiaro il tuo sogno.

Un nero rancore
di generali, un'onda
di rabbiose sottane
ha franto alle tue ginocchia
le sue acque pantanose, i suoi fiumi di spurgo.

Con gli occhi feriti ancora di sogno,
con fucili e pietre, Madrid, con piaga aperta,
ti sei difesa. Correvi
per le vie
posando scie del tuo santo sangue,
chiamando a raccolta con una voce d'oceano,
con un viso per sempre mutato
dalla luce del sangue, come una montagna
vendicatrice, come una sibilante
stella di coltelli.

Quando nelle tenebrose caserme, quando nelle sacrestie
del tradimento penetrò la tua spada in fiamme,
non ci fu che silenzio d'aurora, non ci fu
che il tuo passo di bandiere,
e una gloriosa goccia di sangue sul tuo sorriso.

In Dario Puccini, Romancero della resistenza spagnola, Laterza, 1970


29.10.13

Ezra Pound, i fascisti, Pigì Battista (Massimo Bacigalupo)

Ezra Pound
Questa vulgata è da correggere
Pierluigi Battista, per dimostrare che non c’è da scandalizzarsi se gruppi neofascisti si fanno bandiera del nome di Ezra Pound, scrive (Corriere della Sera, «La Lettura», 15 gennaio, p. 5) che Pound «era così fascista che concepì i suoi meravigliosi Cantos vicino a Pisa, precisamente nel campo di Coltano, insieme a numerosi altri fascisti che lì erano internati dopo il 25 aprile». In realtà Pound cominciò a pubblicare i suoi Cantos nel 1917, parecchio prima del 25 aprile, nell’epoca dell’Ulisse di Joyce e della Terra desolata di Eliot, opere prossime anche per ispirazione al poema poundiano.
È vero che una sezione significativa dei Cantos fu scritta vicino a Pisa nel 1945, ma Pound non fu mai internato a Coltano con i repubblichini (una leggenda dura a morire) bensì a Metato, in un campo di detenzione e riabilitazione dell’esercito USA, con oltre tremila G.I. americani (le cui storie e battute riempiono appunto i Canti pisani – di uno di questi episodi si occupa Enrico Deaglio, La ballata di Emmett Till, «Diario», novembre 2009).
È anche per contribuire a correggere la percezione distorta di Pound di cui sono esempio le pur amichevoli affermazioni di Battista che ho firmato con altri sessanta scrittori e lettori la lettera di solidarietà a sua figlia Mary de Rachewiltz, la quale protesta per l’occupazione abusiva del nome del padre da parte di CasaPound. Questa comporta appunto l’identificazione totale del poeta col fascismo, senza tener conto della lunga e complessa storia dell’uomo e dell’opera.
Non si può non dare ragione alla figlia che non ci sta a vedere un uomo dai mille amori e furori ridotto a logo di CasaPound.


“alias domenica – il manifesto”, 29 gennaio 2012

28.10.13

Boxe, il grande teatro tragico dell’America (Marco Perisse)

«At the Fights». Il pugilato 
tra sport, spettacolo e letteratura
PER UN PUGNO DI DOLLARI
In un’antologia curata dai giornalisti Kimball e Schulian, la nobile arte raccontata come evocazione della storia sociale Usa.
Edita negli Stati Uniti, At the Fights è un’antologia che merita attenzione: perché attraverso la raccolta di articoli e scritti sulla boxe curata dai giornalisti sportivi George Kimball e John Schulian per i tipi della Library of America (pp.517) si profila uno spaccato della storia degli Usa più vivido e immediato di un trattato di sociologia o di una storiografia.
Che arriva al bersaglio pungendo come un jab. Come quando Richard Wright, in High Tide in Harlem, usa solo sette righe per lampeggiare il rematch tra Joe Louis e il tedesco filonazista Max Schmeling vinto dal nero dell’Alabama per poi filmare in un rutilante piano sequenza il giubileo di Harlem alla vittoria del simbolo di una comunità esclusa e umiliata. E non era colpa degli afroamericani – scrive Wright – se quel riscatto lo affidavano al pugilato visto che «non avevano avuto dall’emancipazione altra possibilità di partecipare al processo della vita nazionale».
Wright, iscrittosi al partito comunista nel ’33 quando feroci erano gli effetti della Grande Depressione e Hitler saliva al potere, fa pulsare quelle centinaia di migliaia di persone tracimate dal ghetto che celebrava non la vittoria del Negro (così per decenni si continuò a scrivere) sull’uomo bianco, ma contro il nazismo gridando «Tutti gli ebrei sono contenti oggi» e issando striscioni «Abbasso Hitler e Mussolini».
At the Fights si impone come un’avvincente collezione di racconti ricchi di metafore, immagini, dettagli, aneddoti e memorie sorretta da due big della letteratura americana: Jack London – sul match tra Johnson e Jeffries, «la Grande speranza bianca»: è sua l’espressione mai tramontata prima dell’attuale egemonia dei pesi massimi cresciuti nell’ex-Urss – e Norman Mailer che con una miscela visionaria di presa diretta e immaginazione confezionò il memorabile racconto sulla sfida di Kinshasa tra Ali e Foreman. Mailer coniò l’espressione narrative non-fiction per classificare il genere ibrido tra reportage e trasfigurazione creativa del suo The Fight che domina il corpo centrale dell’antologia.
Non si pensi però che la collana di perle che vi luccicano sia fatta di firme di giornalismo solo sportivo: sono sceneggiatori, autori, scrittori che dal ring hanno estratto un’evocazione della società americana trasposta anche in altri linguaggi – il cinema innanzitutto – o soggetti narrativi. Leonard Gardner che scriveva di boxe per “Esquire” – e che sarà per anni lo sceneggiatore del serial “NYPD Blue” - è l’autore di Fat City, la sublime novel che ispirò l’omonimo capolavoro di John Huston, felice di affidargli la sceneggiatura che ha dato vita al più bel film attorno alla boxe mai realizzato, quella Città Amara del sottotitolo italiano dei perdenti del sistema americano. E di perdenti alle corde di At the Fights ne pendono parecchi: il pugilato è il solo sport che abbia per statuto la distruzione fisica dell’avversario, dove il limite che non si deve varcare si spinge fino alla fatalità che separa il k.o. dalla morte come in Then all the Joy Turned to Sorrow di Ralph Wiley, uno degli scrittori afroamericani dell’ultima generazione, coautore assieme a Spike Lee; tramutandosi perciò in un’universale metafora della vita che consegna ai suoi cronisti una materia sanguinolenta e l’eroe solitario che vi si immola nel quadrato sacrificale.
John Sullivan è il primo campione del popolo dei migranti che sbarca senza posa a Ellis Island. Gli italiani avranno l’imbattuto Rocky Marciano. Irlandesi, ebrei, italiani e afroamericani si picchiano tutti contro tutti fin quando sul ring non salgono gli ispanici ultimi arrivati sotto i lembi dell’american dream dove fanno a pugni proletari di tutto il mondo: gli anonimi Firpo e Brescia che denunciano origini italianissime nascoste sotto l’invariabile nomignolo di Wild Bull of the Pampas che accomuna i pugili venuti dall’Argentina, o il nigeriano Dick Tiger per cui il ring è un’utopia oweniana a confronto dei massacri che sventrano il suo paese nel ’68, avvisaglia degli orribili genocidi che avrebbero poi sfigurato l’Africa di Ali e Foreman.
Lontanissimo dalla retorica celebrativa è il crudo ritratto Pity the Poor Giant tracciato da Paul Gallico (da un suo racconto Hollywood produsse L’avventura del Poseidon con Gene Hackman ed Ernest Borgnine, un Oscar alla musica e diverse nomination, il primo film del catastrofismo in mare) di un patetico Primo Carnera carne da macello per il circo boxistico della malavita. Mai fu pugile moderno – crede Gallico - piuttosto «un cavaliere medievale che nel Trecento avrebbe vinto guerre gloriose a colpi di mazza protetto da elmo e armatura», mentre sul quadrato era gigante dalla mascella di cristallo: un’anfora di coccio che proveniva dal baraccone bonario dell’esibizione finì frantumata dalla crudeltà dello show scandito dal profitto.
Da At the Fights trasuda un’altra delle verità che hanno fatto la boxe materia di business e di linguaggi espressivi: la natura ambivalente tra sport e spettacolo. Di Carnera ha scritto anche Budd Schulberg – qui grazie a The King is Dead – il solo al mondo ad aver vinto un Oscar, per la sceneggiatura del suo romanzo Fronte del porto, e a figurare nella Hall of Fame dei memorabili della boxe. L’ex-pugile protagonista del capolavoro di Elia Kazan con Marlon Brando è ritagliato sui personaggi che Schulberg incontrò nella vita reale prima come praticante e poi come scrittore. Ai suoi inizi il pugilato sportivo era uso della upper class alla quale apparteneva Schulberg, figlio di un produttore del cinema muto, e fra gli universitari fino agli anni ’30: fu la Grande Depressione a diffonderlo nelle classi subalterne come un mestiere per sbarcare il lunario. A Londra nel ’28 conobbe il gigante friulano che negli anni bui gli ispirò il romanzo The harder they fall del ’47 sul quale era costruito il film Il colosso d’argilla (’58), l’ultima interpretazione di Humphrey Bogart.
La compilazione segue una diacronia temporale riuscendo attraverso la catarsi del combattere a mettere assieme senza distonie premi Pulitzer come Kempton e Remnick con le memorie dei boxeur Patterson e Gene Tunney che – avido di letteratura già da pugile – racconta il successo sul più terribile picchiatore della storia dei massimi, il meticcio irlandese-cherokee Jack Dempsey. Ecco un’altra benemerenza di At the Fights: ti consegna la ricetta per vivere l’emozione del match, inghiottirne l’adrenalina, patirne ansie e attese senza rischiare di esser messo a dormire da un gancio
al mento. Ma non è la playstation: pulsano sentimenti, si annidano riflessioni sotto gli occhi gonfi, si consumano drammi, tracima umanità fuori del ring.
Nella stagione della lotta per i diritti civili e del Black Power, George Plimpton, cofondatore di The Paris Review, ci porta al cospetto di Cassius Clay – ancora per poco con questo nome – politicamente «guidato» da un Malcom X che lo seguiva come ombra. Ali è onnipresente in At the Fights, come si deve al «più grande» e alla carriera intrecciata di titoli, renitenza, battaglie politiche e ring: leggendaria quella con Joe Frazier, appena scomparso il 7 novembre all’età di 67 anni, culminata nel pathos distruttivo di Manila, in antologia con The Fight’s over, Joe di William Nack.
Joyce Carol Oates ha scritto che la boxe è il grande teatro tragico dell’America, il medium con cui la nazione ha portato in scena ferite e valori, iniquità e mobilità sociali, business e gerarchie, altari e polvere come accadde a Mike Tyson, di cui la Oates racconta in chiave antropologica il significato della condanna per stupro che lo portò in galera (Rape and the Boxing Ring). Poi iniziò la deriva del pugile che aveva evocato l’incubo di Sonny Liston, il «nero cattivo». Quando Tyson affronta Holyfield, afroamericano middle class integrato e timorato di Dio, è lo scontro tra due mondi, rap contro gospel. Tyson, nella frustrazione di una nuova sconfitta, gli strappa via con un morso il lobo dell’orecchio e firma la fine della carriera (David Remnik, Kid Dynamite blows up). «Il declino di un pugile si vede prima dalle gambe, poi dagli amici», diceva Joey Giardello, alias Carmine Orlando Tilelli, boxeur italoamericano di Brooklyn, una delle mille comparse di At the Fights dietro
le grandi figure, Robinson, Duran, Ray Sugar Leonard, De La Hoya, Marvin Hagler; i maestri Angelo Dundee e Cus D’Amato mistico e austero, l’uomo che per Patterson e Tyson – entrambi usciti dal ghetto di Stuyvesant a Brooklyn - fu padre prima che trainer; i promoter Bob Arum e Don King, diventati i padroni della scena dopo che la commissione antimafia del procuratore Robert Kennedy nel ’61 aveva allontanato dalla boxe Paolo «Frankie» Carbo e Frank «Brinky» Palermo – narrati da Barney Nagler in James Norris and the Decline of Boxing.
Guardi la boxe e vedi l’America. Negli anni ’70, sulla scia di Ali, a bordo ring cominciano a mostrarsi gli afroamericani. È un sintomo di mobilità sociale. Caduta la barriera di genere, Katherine Dunn traccia in The knockout il profilo umanissimo di Lucia Rijker, la cattiva di Million Dollar Baby di Clint Eastwood. Pagina dopo pagina i pugni scorticano la vernice delle narrative «melting pot», «bianco/nero», «multirazziale», per denudare l’osso della contraddizione di classe che nessuno dice meglio dell’afroamericano Larry Holmes ex-campione del mondo dei massimi: «È duro essere neri. Siete mai stati neri? Io sì, un tempo: quando ero povero». E allo sguardo d’insieme, At the Fights risulta uno splendido mural alla Diego Rivera sulla boxe come la storia sociale giunta fino all’elezione di Obama alla Casa Bianca.

“alias – il manifesto”, 19 novembre 2011


La poesia del lunedì. Toti Scialoja

Di tanto in tanto a Taranto
arde un cielo amaranto
nasce dal mare un rantolo
interrotto da un tonfo.

E' una tortura a Taranto
la ronda del tramonto
anima mia all'istante
moribonda tarantola.

da Scarse serpi, Guanda, 1983

27.10.13

John Trumper e le origini della 'ndrangheta (Claudio Dionesalvi)

Quel che segue è la prima parte di un articolo sugli studi storico-linguistici di John Trumper pubblicato due anni or sono dal "manifesto". (S.L.L.)
John Trumper
La 'ndrangheta? È molto più vecchia di quanto si pensi. Nata mille anni fa, è figlia di un'antica crisi politica ed economica. Ed è scaturita dalla necessità di colmare un vuoto di potere. Parola di John Trumper, uno degli esponenti della linguistica moderna. Lo spiega in un suo recente saggio intitolato Slang and Jargons, che non ha ancora visto la luce in Italia, essendo apparso sinora solo in inglese per i tipi della Cambridge University, nel volume Romance languages curato da Martin Maiden, John Charles Smith e Adam Ledgeway. Roba che scotta! E che quaggiù farà discutere non soltanto gli studiosi di lingue antiche, quando sarà tradotta in italiano.
È uno studio destinato a riscrivere la storia della 'ndrangheta dalle fondamenta. Si fonda sull'etimologia della parola.
Il prof non ha dubbi: «Andragatos è soltanto un nome, vuol dire "buon uomo". Per fare chiarezza, occorre osservare i verbi greci. Dai due elementi, cioè andros e agatos, si è creato un nuovo verbo greco andragatizo che significa: "in origine ho coraggio". Interessante, tuttavia, è l'uso dei due verbi nelle prime epopee popolari del medio greco. Ho studiato le tre edizioni del Digenes Acritas che è una famosa epopea popolare medievale. La più antica è quella di Grottafferrata, la seconda del monastero delle isole di Andros e la terza è nell'Escorial di Madrid. All'inizio sembra ci sia stato un conflitto: da una parte i termini andrio ("ho coraggio") con andria ("coraggio"), dall'altra andragatizo ("faccio il coraggioso") con il sostantivo andragathia. La seconda coppia (verbo e sostantivo) si specializza con il senso di "esercitare un ruolo di borghese o piccolo nobile che sa usare le armi". Sono quegli uomini che i Bizantini usavano per colmare i vuoti di potere della propria governance nelle terre periferiche».
Nell'amministrazione dell'epoca, per esempio, verso l'anno mille, c'è un famoso Andrea di Rende che diventa il giudice bizantino a Squillace. Lui è un giudice di carriera. Comunque, nel frattempo, molta piccola nobiltà bizantina, tipo i Malena, riempie gli spazi lasciati dal potere centrale in momenti di vacatio. «Eh sì - spiega Trumper - perché hanno studiato, allora possono leggere lo Ius civile di Giustiniano nella versione greca. Così riescono ad emettere sentenze in greco corretto. Ma sanno usare bene pure la spada, quindi hanno la capacità di comandare soldati. Per rendere esecutiva una sentenza, possono ordinare a una truppa di farlo. È gente che normalmente non ha una funzione amministrativa, però in casi straordinari, viene chiamata ad esercitarla».
In questa fase storica si verificano spesso vuoti di potere. «All'epoca i Bizantini cominciano a perdere terreno in Calabria. Già nell'880 riprendono Santa Severina e Amantea, occupate dagli Arabi. Li rispediscono in mare. Santa Severina è fortificata nell'ambito della riconquista dello Ionio. Amantea invece viene persa una seconda volta. Gli Arabi ci resteranno per più di cento anni. Infatti sono presenti ancora arabismi nel lessico dei pescatori. Termini che non trovi nel resto della regione. Per esempio, l'ambra, cioè la rosamarina, una gustosa e piccante specialità calabra. I pescatori di Tropea e Amantea la chiamano ambra, che è la parola araba per la neonata di pesce».
Dunque nel cuore del medioevo, a queste latitudini, i cambiamenti geopolitici sono improvvisi e ripetuti. Trumper sottolinea che «a un certo punto al generale Niceforo Focas non interessa più la Calabria, perché c'è un vuoto di potere al centro dell'impero. Allora ritorna a Costantinopoli e diventa imperatore. Nei suoi domini italici, l'amministrazione bizantina riesce a malapena a fare il censimento delle proprietà. Lo affida alla chiesa. A Reggio fa il censimento dei gelsi, del vino, delle altre produzioni. I Bizantini inventano il famoso kapnikon: "vedi un filo di fumo, calcoli le tasse". Oggi possiamo anche quantificare la popolazione del tempo, in base a questo criterio.
Di fatto, l'Impero d'oriente perde potere in periferia, eppure prova a trattenerlo. Quando nel 1060 arrivano i Normanni, trovano un paese allo sbando, con gli Arabi che invadono, depredano e si ritirano perché non possono gestire un territorio così tortuoso e vasto. Mantengono la Sicilia, ma non hanno i mezzi per controllare tutta la Calabria. Allora fanno delle scorribande. Una volta cercano persino di occupare Cosenza, ma muoiono tutti di malaria lungo il Crati. Arrivano fino a Montalto, addirittura a Gergeri. Cafaruni e Gergeri sono gli unici nomi arabi di Cosenza. Hafr vuol dire dirupo. Gergeri è il luogo in cui fanno crescere le canne da zucchero lungo il fiume».
Ma, con l'arrivo dei Normanni, la situazione sembra cambiare: presidiano alcune zone, normannizzano Cosenza, impongono la loro amministrazione, buttano fuori gli arcivescovi greci di Bisignano e Cosenza (Costantia), che erano suffraganei di Reggio, e li sostituiscono con Arnolfo I e Arnolfo II.
«Arrivano quasi a chiudere Vibo e Nicotera. Ruggero - spiega Trumper - ci sistema il suo scrivano, Goffredo di Malaterra, che è suo biografo, ne racconta la campagna militare. Ruggero istituisce il vescovato di Mileto per il suo scrivano. Lui pensa: "quando passo da qui, voglio una casa, pace, lo scrivano al mio servizio, che poi è il vescovo". Lancia un ultimatum all'arcivescovo metropolita di tutta la Calabria e la Sicilia, che è greco: "se vuoi restare qui, tu devi dire la messa in latino". Il vescovo non la prende bene: "io non celebro messa senza l'acqua calda", che per un ortodosso rappresenta il momento clou dell'anafora della messa. Quando si mescola l'acqua col vino, nella liturgia greca c'è l'epiklesis. Non è la recita delle parole di Cristo che crea il corpo e il sangue di Cristo, bensì la preghiera rivolta allo spirito santo nell'atto di versare l'acqua calda nel calice. Quello rappresenta la figura dello spirito santo. Il vescovo non ci sta: "noi non siamo latini, noi non consacriamo nulla con le parole di Cristo, noi consacriamo con le tre hypostaseis della trinità". In sintesi, sta dicendo a Ruggero: "io la messa latina non te la recito". Ruggero capisce perché con lui c'è Brunone che lo consiglia, e risponde: "c'è una nave che parte per Costantinopoli. Le auguro un felice viaggio". E istituisce il vescovato metropolita latino-normanno della Calabria».
Però neanche lui possiede abbastanza potere. Deve tenere la Sicilia. Sta arrivando a Palermo. La capitale bizantina è stata Siracusa. «Con gli Arabi - prosegue lo studioso - Panormos diventa Al Balarm. Il termine moderno Palermo deriva dalla pronuncia araba del greco Panormos. I normanni seguono l'esempio arabo, cioè scelgono Palermo capitale. In Calabria invece dominano il Tirreno cosentino, vibonese e reggino, ma di fatto lasciano lo Ionio. Lì rimangono i vescovi greci, però questi non possono chiedere ai Bizantini di intervenire. Non sono più vescovi sotto un imperatore di Bisanzio, non hanno più il potere di riscuotere le tasse, prerogativa che spettava loro in precedenza, come il potere di organizzare l'esercito. Sono il vescovo di Cassano e quello di Locri a mandare l'esercito contro Ruggero. Non riescono comunque a frenare l'avanzata normanna. Ruggero vince perché questi vescovi non hanno capacità strategiche nell'arte della guerra. Tuttavia, sono loro i livelli più alti dell'amministrazione bizantina. Non ci sono giudici, non c'è un generale. Nella battaglia di Cassano, il vescovo greco indossa l'armatura, monta a cavallo e guida le truppe, seguito dal protopapas mandato da Locri. Perde, perché non sa condurre una battaglia. I vescovi erano stati buoni solo a riscuotere tasse per mandarne una parte a Costantinopoli. In questa fase, dunque, la Calabria è allo sbando.
Ma neanche i Normanni istituiscono un forte governo. Si passa dal debole governo bizantino al debole governo normanno. Altrettanto fragile sarà anche quello angioino. Queste terre vivono per secoli in una palese debolezza istituzionale». Allora succede una cosa nuova: «gli uomini che prima esercitavano la funzione di giudici, formavano la corte, il tribunale, quelli che sapevano leggere e scrivere, gli andragatoi, diventano i nuovi capi. Andrangata è un deverbale che deriva dal verbo andragatizen. Se traduciamo andragatizen morfema per morfema dal greco al calabrese, arriviamo ad andragatiàri. Nel dialetto reggino la G velare di solito sparisce. La aguglia diventa aùgghia. Una gatta è la iatta. Per conservare il suono velare GH mettono davanti la N. Allora andragatiàri diventa andrangatiàri. Questa è la prova della provenienza reggina della parola. Il verbo reggino andrangatiàri è un deverbale, sostantivo: quelli che esercitano il potere di andragatiàri».
La conferma arriva dalla cartografia europea. Trumper segnala che «olandesi e inglesi, nel '400, chiamano la Calabria 'Andragathia regio', la regione della Andragathia, dove governa il non governo. Per primi riconoscono questo fatto. Ciò significa che la 'ndrangheta nasce, non solo come parola ma come istituzione, molto prima della camorra che emerge tra '600 e '700. Fare camorria significa fare compagnia. La camorra è una comitiva d'affari napoletana, a differenza della mafia siciliana che irrompe nel 1825. Incarna la ribellione contro gli inglesi che, dopo il congresso di Vienna del 1815, avevano ottenuto il controllo del commercio della Sicilia e nel centro del Mediterraneo. I nobili siciliani non se ne preoccupano, perché sono protetti, come i Borboni, dalla flotta inglese. E poi vanno a divertirsi altrove. Ma i loro intermediari, la nuova classe media, si ribellano, perché perdono la gestione dei traffici commerciali». 

il manifesto, 18 agosto 2011



Proposta fiscale. Un epigramma di Gino Patroni.

Una tassa
di successione
sulle
malattie 
ereditarie.

Da La vita è bella e scarso è l'avvenire, Longanesi, 1988

Popoli antichi. L’origine dei Veneti (Beatrice Andreose)

Da un vecchio “alias” riprendo gran parte di un bell’articolo che smonta alcune favole e ridicolizza alcuni riti. (S.L.L.)

(...) Grazie ai più recenti studi storici dei popoli antichi, si manda definitivamente in soffitta la leggenda delle origini celtiche del popolo veneto ritenute invece rigorosamente autoctone. Mentre nella confinante Lombardia i Celti arrivarono secoli prima conquistandola, nel Veneto angulus, cosi definito dai Romani, i Celti si insediarono a piccoli e pacifici gruppi solo attorno al V sec. a.C. e influenzarono più le leggi del mercato e della moda, a colpi di fibule ed orecchini a terminazione complessa, anelli e armille a sella o a viticci, che il sistema di potere del popolo veneto ritenuto dagli studiosi, nell’Italia antica, secondo solo agli Etruschi.
Teopompo ((380 a.C.) scriveva che nel IV sec. a.C. nel Veneto erano attive 50 città, tutte collegate col mare. Alcune come Adria vi sorgevano in prossimità, altre come Padova vi si collegavano attraverso il Medoaco, altre ancora come Vicenza o Oderzo erano collegate al mare tramite piccoli canali. Ateste sorgeva sulle rive dell’Adige, Atesis, prendendone il nome.
Grandi o piccoli centri che fossero fatto stà che nel V sec. a.C i Veneti vantavano già da almeno 400 anni una struttura statale ormai consolidata sia politicamente che economicamente e culturalmente. «Mentre nella vicina Lombardia i Celti si sono già stanziati dall’età del bronzo, in Veneto arrivano a piccoli gruppi e non riescono ad influenzare in modo rilevante la società. Le prime avvisaglie si registrano nel V sec. a.C. ma il celtismo sarà sempre una fenomeno della marginalità - spiega Angela Ruta Serafini, già direttrice del Museo Nazionale Atestino e autrice di numerosi saggi sui Celti nel Veneto – scelgono di stare ai margini della società, si insediano in centri poco importanti, si dedicano alla agricoltura o alla pastorizia. Costituiscono un ceto medio basso che svolge anche opera di mercenariato».
La leggenda che vuole Lombardi e Veneti uniti da origini comuni celtiche, dunque, è una ricostruzione errata delle vicende storiche per nulla confermata dalle testimonianze archeologiche né dagli studi epigrafici o linguistici. Il rito dell’ampolla non ha nulla a che fare, pertanto, con le origini dell’antico popolo chiamato dai Romani la X regio Venetia ed Histria la quale, già nel VI sec. a.C., vantava una propria tradizione scrittoria, segno di una evidente unità linguistica.
Il padovano Tito Livio narra di una prima calata di contingenti celtici tra l’inizio del VI sec. e l’incendio di Roma (390 o 396 a.C.). «L’inserimento dei Celti all’inizio avviene come una pacifica integrazione delle diverse etnie di Celti, Etruschi ed indigeni probabilmente su basi commerciali o come forza lavoro o di mercenariato» conferma la professoressa Loredana Capuis, docente di Civiltà dell’Italia preromana all’università di Padova, nonché membro dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici, nel suo volume I Veneti.
Le invasioni storiche legate al nome di Brenno portano gli Insubri nella Lombardia centro occidentale, i Cenomani tra Oglio e Mincio, fino a Verona, i Boi e i Lingoni in Emilia, i Senoni nelle Marche. Solo il Veneto viene risparmiato anche se nel territorio di frizione con i Cenomani, tra Mincio-Tartaro-Adige, i cambiamenti sul piano economico e culturale sono evidenti.
Per Adria, invece, non esiste alcun riscontro archeologico di una dominazione celtica: i pochi oggetti celtici ritrovati in alcune tombe del IV e III sec. sono parte di arredi pregiati che circolavano genericamente in quel periodo mentre la maggior parte degli altri oggetti di corredo, ceramiche, perle d’ambra o oreficerie, sono di tradizione etrusca. Cosi come le iscrizioni che sono per lo più greche ed etrusche tranne una, riferibile ad onomastica celtica.
Non risulta realistica nemmeno la tesi dell’occupazione celtica di Adria provata dalla sepoltura dei cavalli, rito funebre diffuso tra i Celti, assieme ai carri di cavalli. Tra i Veneti, infatti, le sepolture di
cavalli sono diffuse già dal VI secolo. «Non si deve mai parlare di origine ma di formazione di un popolo - spiega la professoressa Capuis - un popolo c’è, si trasforma per contatti commerciali con gli altri popoli. Certo non si possono escludere gli arrivi ma non quelli di massa. Tutti i grandi salti culturali sono legati agli arrivi di mode e di merci che portano nuove conoscenze e nuove tecniche, gli artigiani aprono nuove botteghe».
La calata dei barbari è dunque un mito antistorico. «Ci sono stati piccoli spostamenti, piccole migrazioni per lo più di stampo commerciale. Le invasioni sono eventi particolari ma non avvengono in epoca storica - conclude la studiosa - in Veneto poi l’arrivo dei Celti, a differenza di quello che succede in Lombardia, la penetrazione è lenta e di tipo commerciale e porta al diffondersi di mode celtiche, soprattutto di gioielli. Si insediano in territori poco sfruttati e si venetizzano con matrimoni misti. Gli scavi ci rivelano che si trattava di gruppi di agricoltori o di pastori. Ad esempio nelle tombe troviamo le cesoie tipico mezzo per tosare le pecore».
In quanto ai matrimoni misti nelle ricche tombe paleovenete (la Benvenuti 123 ad Este) compaiono nomi di donne venete con gamonimico di origine celtica o di donne di origine celtica con gamonimico veneto. Lo rivelano gli studi di Aldo Luigi Prosdocimi, professore ordinario di glottologia all’università di Padova nonché tra i più importanti studiosi delle lingue e dialetti dell’Italia antica. «Quando la romanizzazione è ormai una realtà nel Veneto si insediano piccole comunità di Cenomani in zone marginali come, nell’estense, Arquà Petrarca ai margini sud orientali
dei colli Euganei o Megliadino San Fidenzio, tra Montagnana ed Este».
Diversa è invece la situazione nel veronese dove i Cenomani arrivano nel III sec. a.C. in zone poco o per niente occupate dai veneti come Povegliano, Vigasio, Valeggio, Nogarole Rocca e Isola Rizza. Qui si integrano perfettamente nella comunità romana. Idem per l’area tra Lessinia ed Alto Vicentino, vicina all’area retica, dove luoghi di culto, lingua ed oggetti quali fibule, cesoie, falci, asce, indicano probabili presenze celtiche. Stabili comunità celtiche sono presenti anche nel Veneto orientale ai cui margini vivevano comunità carniche. A testimoniarlo sepolture di guerrieri con la spada deposta lungo il fianco destro.
Ma allora quali sono le origini dei veneti? «Molto probabilmente - spiega Ruta Serafini – si tratta di una popolazione autoctona trasformatasi a contatto con gli altri popoli». Pura leggenda anche le origini orientali dei Veneti, che li voleva originari dalla lontana Paflagonia. Una leggenda alimentata dai Romani che con Virgilio e Livio, voci ufficiali del regime di Augusto, in un clima di chiara propaganda politica, sponsorizzano la comune origine tra i due popoli e parlano di origine troiane dei veneti legate alla saga di Antenore ed Enea. L’obiettivo è legittimare, sulla base del mito, l’alleanza con Roma che porterà poi Veneti e Cenomani ad allearsi all’Urbe proprio in funzione anticeltica. Le stesse origini attribuite 700 anni prima, nel V sec. a.C. da Sofocle. Anche in questo caso per fornire legittimazione all’espansionismo commerciale di Atene nel mare Adriatico.


“alias - il manifesto”, 12 novembre 2011

26.10.13

Luciano Canfora. Potere, democrazia, rivoluzione (di Lanfranco Binni)

Lo strabismo analogico e il coraggio della storia
Hanno fatto il deserto e l’hanno chiamato democrazia. La democrazia è la lotta per la democrazia. Sono i temi centrali dell’Intervista sul potere di Luciano Canfora, a cura di Antonio Carioti, Editori Laterza, 2013.
All’analisi del «meccanismo elitario del potere» Canfora ha dedicato studi assidui, con un’attenzione particolare alle dinamiche continuità/mutamento nelle esperienze rivoluzionarie dell’Ottocento e del Novecento. La “democrazia”, istituita nell’Atene dei liberi e degli schiavi, è un processo conflittuale, è la lotta per il superamento dell’oligarchia. Ma sono le tradizionali dinamiche di potere, anche nelle fasi di rottura rivoluzionaria, a svolgere un ruolo determinante nei processi storici. Certo, nelle fasi rivoluzionarie (in Francia, in Unione Sovietica e nei paesi dell’est europeo, in Cina) si sperimentano percorsi di ampliamento della base sociale del potere politico ed economico, ma le dinamiche di continuità si riaffermano sistematicamente sul mutamento, coniugandosi con i retroterra nazionali. È la storia del socialismo nell’Unione Sovietica di Lenin e di Stalin, è la storia della “rivoluzione fascista” in Italia, del “socialismo nazionale” in Germania, del «nazionalsocialismo» (la definizione, folgorante, è di Canfora) nella Cina post-maoista. La storia richiede un esercizio continuo di attraversamento della complessità, con il coraggio dello «strabismo» (guardare contemporaneamente al passato e al presente) e del pensiero analogico (assumersi il rischio delle connessioni tra dinamiche molto distanti e diverse, apparentemente contraddittorie).
Il colloquio si svolge tra un intellettuale comunista, storico di formazione filologica classica, e un giornalista di cultura liberista. Con sapiente ironia e in dialogo con il lettore, Canfora risponde alle provocazioni “comuni” dell’intervistatore (sulle nefandezze del giacobinismo e del comunismo, sulle magnifiche sorti e progressive dell’impresa e del mercato), e traccia il proprio percorso, anche autobiografico, di storico e politico. La questione centrale per Canfora, fin dal 1956, è l’analisi delle dinamiche di potere durante e dopo le crisi rivoluzionarie. Da Budapest all’Atene di Pericle. Dalla “democrazia” ateniese alle “democrazie popolari”, passando per la Francia del 1789-1815: «I giacobini facevano molta confusione, usavano Plutarco e Tito Livio come una sorta di Bibbia su cui giurare. […] A loro volta i bolscevichi avrebbero tratto gran parte del loro lessico dall’esperienza francese, accusandosi reciprocamente di essere bonapartisti o termidoriani. […] ritengo che trarre ispirazione da alcuni segmenti dell’esperienza antica per giungere a una visione politica avanzata non sia una forzatura arbitraria». Sui modelli di democrazia diretta aggiunge: «Erodoto non fu creduto quando raccontò che il notabile persiano Otanes voleva introdurre la democrazia nel suo paese. Gli Ateniesi avevano pensato che fosse un’impresa impossibile, perché si trattava di un impero troppo vasto. Il modo di superare quella difficoltà ai bolscevichi parve essere l’attribuzione di poteri a un reticolo diffuso di consigli operai e contadini, i soviet. L’esperienza della democrazia consiliare, in nome della quale venne compiuta la rivoluzione d’Ottobre, si esaurì presto; resta il fatto che nacque come tentativo di adattare al tempo presente il sistema assembleare: come dire, la ‘democrazia diretta’ dell’antica Atene».  
E’ un esempio significativo dello strabismo analogico con cui Canfora passa in rassegna le tematiche del presente, scavando nel loro retroterra storico-culturale e assumendosi la responsabilità del giudizio storico e politico sugli scenari a venire: la crisi irreparabile della democrazia rappresentativa, la catastrofe della “Fortezza Europa” a egemonia tedesca, il “tramonto” dell’Occidente, l’inevitabile conflitto tra Cina e Stati Uniti d’America. Per venire al paesaggio italiano (marginale nello scenario mondiale), l’agonia di un potere oligarchico perennemente straccione, l’agonia di una “sinistra” compatibile e servile, il deperimento delle istituzioni “democratiche”, lo smantellamento dello Stato sociale, la distruzione della scuola pubblica e dell’Università, la debolezza delle élites intellettuali indispensabili a qualunque processo di reale cambiamento.
Ma allora? chiede allarmato l’intervistatore appellandosi agli “ideali di libertà”. La risposta di Canfora è lucidamente implacata: «L’antica prevalenza delle oligarchie […] nel tempo ha avuto le declinazioni più variabili, senza mai scomparire. Che oggi riappaia dopo due secoli di lotte democratiche memorabili […] pone problemi molto gravi. Ed è ingenuo pensare di poter trovare facilmente un rimedio, anche perché molte soluzioni sono state messe alla prova e hanno rivelato limiti insuperabili. Faccio solo un esempio: alla fine della Prima guerra mondiale l’ipotesi consiliare o sovietista, fondata sul primato delle assemblee operaie, ha esercitato un fascino straordinario, da Torino a Düsserdolf e fino a Budapest, ma è poi rapidamente appassita, perché ha dato luogo ad altre forme di oligarchia. […] A mio parere, il luogo dove le tendenze oligarchiche dominanti possono essere messe in discussione è il laboratorio immenso costituito dal mondo della formazione e della scuola. […] È lì che l’educazione antioligarchica, su base critica, può farsi strada».
Insomma l’eccezione alla regola, dalla rivoluzione del 1789 in poi, è la lotta per la democrazia e per il socialismo, con la consapevolezza della necessaria conoscenza, senza rimozioni né autocensure, senza semplificazioni, delle esperienze storiche («Se non conosce il passato del mondo in cui vive, il cittadino diventa un suddito»). Perché la prossima fase rivoluzionaria, che sarà planetaria, prodotta dalla crisi strutturale del capitalismo globalizzato, possa declinare in termini più avanzati la teoria e la pratica della democrazia e del socialismo. La storia non finisce mai.


“micropolis”, settembre 2013

Dal dizionario del partigiano anonimo (Angelo Del Boca)

Non so chi oggi – dopo l’amministrazione controllata e la morte della signora Elvira che credo continuasse a dirigerla - detenga la proprietà della Sellerio e chi la guidi. Devo dire però che mi ha riempito d’orgoglio siciliano la recente pubblicazione, di sicuro controcorrente in un clima di ibridi connubi ed improvvide revisioni costituzionali, di una bella antologia dal titolo Storie della Resistenza curata da Domenico Gallo e Italo Poma. Essa è composta in gran parte da testi inediti in volume (soprattutto dalle riviste degli anni Quaranta “Aretusa” e "Mercurio”) o comunque difficilmente reperibili. 
Vi si trova anche, sotto il titolo Un uomo ordinato, un dizionario del partigiano anonimo che l’autore, Angelo Del Boca, riferisce trovato indosso a un partigiano ucciso e senza nome nella primavera del 1945 sull’appennino ligure-emiliano, uno di quei corpi senza vita che le nevi dell’inverno avevano coperto e – in parte – preservato e che il disgelo restituiva. 
Precedute dal periodo che le introduce e le contestualizza, riprendo qui alcune “voci” di quel dizionario. (S.L.L.)

Il documento che più ci sorprese fu una sorta di dizionario, una cinquantina di voci scritte a matita su altrettanti piccoli fogli d'agenda. I fogli, per l'umidità, si erano incollati e se non fossero stati scritti a matita non si sarebbe salvato nulla. Pazientemente asciugammo foglio per foglio e alla fine cominciammo a leggere ciò che segue:

Alba - Quando spunta, può essere troppo tardi.

Alexander (Maresciallo) - Avrebbe voluto, all'inizio del secondo inverno, che fossimo spariti come talpe sottoterra. Non se l'abbia a male se gli abbiamo disobbedito: non c'erano buche a sufficienza.

Badoglio e Bonomi - Due personaggi, scialbi, che stanno al Sud, con gli americani.

Barba - Molti se la lasciano crescere, ma non sempre perché mancano di lamette. Chi la porta, automaticamente viene chiamato «Barba». E poiché in un distaccamento sono in parecchi ad averla, uno si chiamerà «Barba I», l'altro «Barba II», e così via. Ad alcuni sta bene, gli fa una faccia decisa. Ad altri addolcisce gli occhi. Altri ancora, e sono i più ostinati a tenerla, fanno pensare alle capre.

Cani - Sono un vero guaio, di notte, durante le marce di trasferimento. Il primo a sentirvi dà la sveglia al vicino, e in pochi istanti la valle è tutta un abbaio. I cani dei tedeschi invece non abbaiano. Sono alti, snelli, col pelo corto. Ti inseguono per giornate, come se ti conoscessero, ti odiassero. Cani sono anche chiamati i tedeschi, per quanto si preferisca chiamarli maiali.

Comandante - Lo si diventa per meriti, non per titoli di studio. Conosco un mungitore che ha ai suoi ordini un colonnello di Stato Maggiore. Di solito si affermano quando scoprono per la guerriglia un'autentica vocazione. Fanno sempre di testa loro, e raramente sbagliano. Quando sbagliano pagano di persona.

Nome di battaglia - Serve a mascherare la nostra identità e di rimando a tradire il nostro carattere. Esso rivela infatti le nostre ambizioni, o le nostre letture, oppure i limiti della nostra fantasia.

Partigiani - Ce ne sono di tutti i tipi: comunisti e cattolici, socialisti e liberali, anarchici e trotzkisti, giellisti e monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e come pagliacci. Combattono una delle diecimila guerre che l'uomo ha scatenato su questa terra e pensano di essere dalla parte della ragione.

Paura - Chi dice di non averne è un bugiardo. Nessuno di noi può giurare che sarà vivo domani. O anche stasera.

Pippo - Con questo nome indichiamo l'aereo che vaga tutte le notti nel cielo e lancia bombe a casaccio, su noi e sugli altri. Il suo non sembra un rumore di motori, ma l'ansito di un mostruoso animale. E fin che il battito delle sue grosse ali non si affievolisce tratteniamo il respiro.

Politica - I giovani non amano e non sanno farne. I più anziani la preferiscono alle azioni di guerra.

Prete - Quello che sta con noi è l'umile e povero parroco di campagna. Gli alti prelati, in città, benedicono i gagliardetti delle «Brigate Nere».

Repubblichini - Se ne stanno in città, preferibilmente al sicuro, con le scarpe lustre, il ciuffo fuori del berretto. Quando vengono in rastrellamento, si fanno precedere dai tedeschi. Quando le buscano, i tedeschi li tolgono dai guai. Ci sono vari tipi di repubblichini. I vecchi fascisti delle squadracce. Quelli che si ritengono disonorati dall'armistizio. I filotedeschi. Quelli che spasimano per le cause perse. Quelli che vanno sempre controcorrente. Quelli che desiderano semplicemente un'arma per sparare (ce ne sono molti anche dalla nostra parte). Quelli che sperano di arricchire. Quelli che hanno risposto ai bandi e che ora non trovano il coraggio di scappare. I razzisti. Gli spavaldi. Gli isterici. Gli stupidi. Quelli della «Muti» e delle «Brigate Nere» sono i più arrabbiati (e anche i più vigliacchi); quelli della «Decima» credono di appartenere ad un corpo scelto e amano dare spettacolo (aiutati dalle loro divise da operetta); agli alpini della «Monterosa» e ai bersaglieri dell’«Italia» hanno insegnato a combattere in Germania, in modo perfetto, ma la loro idea fissa è quella di scappare. Chi li ha battezzati «repubblichini» meriterebbe una statua. Non c'è espressione, infatti, che meglio dipinga la loro pochezza e viltà e goffaggine.

Scarpe - E il nostro dramma; si consumano in un amen. Chiediamo scusa ai morti se li spogliamo, ma noi dobbiamo continuare a camminare e loro hanno finito.

Spia - Nel Paese in cui viviamo, diviso dalla guerra civile, tutti lo possono essere. Un tale che veniva da noi a mendicare pane, ha venduto per duecento lire la vita di quindici nostri compagni. Per questo siamo spietati con le spie, anche a rischio di cadere in errori.

Tedeschi - Adesso, noi che ce li siamo trovati di fronte più volte, sappiamo che non sono invincibili. Ma le reclute si lasciano ancora impressionare da quella corta giacchetta, dalla forma dell'elmo, dagli stivaletti, dal modo di correre all'assalto. È consigliabile catturarne alcuni e tenerli all'accampamento, impiegandoli nei lavori più umili. Le reclute finiscono così per accorgersi che sono esseri umani, coraggiosi e vili come gli uomini di tutto il mondo.

Vittorio Emanuele - Era piccolo col fascismo. Senza fascismo non è cresciuto di un pollice.


Storie della Resistenza (a cura di Domenico Gallo e Italo Poma), Sellerio editore, Palermo, 2013

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