19.7.13

Ripensando Eduardo (Pietro Ingrao)

Eduardo De Filippo
Ho già “postato” l’anomalo necrologio per Eduardo De Filippo, scritto il 2 novembre 1984 per “il manifesto” da Valentino Parlato ( http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2013/07/fuori-dal-coro-per-la-morte-di-eduardo.html ). Due giorni dopo, in implicita ma trasparente polemica, Pietro Ingrao pubblicò su “l’Unità” questo corposo articolo in cui nettamente nega che nell’opera di Eduardo vi sia qualche forma, anche indiretta, di “adattamento” alla realtà e ne sottolinea anzi la tensione “rivoluzionaria”. (S.L.L.)
 
Pietro Ingrao
Ho cominciato a vedere Eduardo negli anni 30, nella prima — credo — tournée che egli fece a Roma. Eravamo studenti assolutamente squattrinati. Ci arrampicavamo fino all'ultima fila dello strettissimo, infelice loggione del Valle. E da lassù scoprii lui, Titina, Peppino. E poi — come tanti — continuai a vederlo, ascoltarlo, leggerlo. Annoto qui alcune impressioni; sono molto parziali, nel duplice senso di impressione di uno spettatore incompetente, e anche di impressioni forse molto unilaterali, soggettive, probabilmente assai «forzate». Ma anch'io penso che ricordare Eduardo significa discuterlo, sondare i molti, riposti sensi delle sue parole, dei suoi gesti; lui che — nonostante le apparenze — non è certo un autore «semplice», facile, unilineare.

Antinaturalistico
La prima impressione che avverto ripensando a ciò che ho visto di Eduardo, è proprio il contrario di una rappresentazione naturalistica delle cose, di un realismo nel senso corrente della parola. Anzi, mi viene in mente subito la forte capacità di «astrazione», di simbolo, che sentivo in tante sue invenzioni sceniche, e prima di tutto nei momenti esemplari, esplosivi, «critici» delle sue storie. E dico: astrazione, non nel senso di teatro di «maschere», di una tipologia. Anzi: come la ricerca, la scoperta di qualcosa di riposto, che sfugge ad una classificazione esteriore, all'apparenza.
Vedo nella memoria lo spostarsi impercettibile del suo viso, i gesti abbozzati e poi come bloccati, contratti; le declinazioni degli sguardi; la sottile, significante combinazione del movimento di una spalla, degli occhi, del braccio. E la parola che spesso s'arresta, sospesa come per aria: si creavano attese; sembrava rompersi un filo, ripreso poi come in un gorgoglio; e poi altre soste, scatti della parola.
Si creava così un contrasto paradossale tra la minuzia di tanti particolari scenici, fra l'apparente «verismo» del contorno e quegli scatti, ombre, borbottìi, esplosioni, in cui sembrava manifestarsi il senso riposto di quelle cose e accadimenti; nella loro drammaticità o nel loro ridicolo, o in ambedue le cose insieme.
In qualche modo si potrebbe dire che il volto di Eduardo, così poco «veristico», così sottilmente mobile e inventato, aveva preso qualche cosa dalla recitazione «minimale» che viene richiesta dalla macchina da presa cinematografica. E tuttavia — almeno così mi sembra — la recitazione e la parola di Eduardo erano assolutamente il contrario di una riproduzione del reale, di tipo cinematografico «normale». Nell'ingannevole naturalismo di tante sequenze, io ho visto sempre il contrappunto calcolato, rispetto a cui scattava l'evento rivelatore, l'atto persino simbolico che sembrava gettare un fascio di luce completamente nuovo sullo scenario: fosse esso il ghigno farsesco, l'esplodere della «bagarre» comica, o invece il silenzio improvviso, la frase breve, il lampo della denuncia o del dolore.
 
Eduardo in "Le voci di dentro"
Teatro del conflitto
Così in tante commedie, dentro l'usualità convenzionale di facce, stanze, frasi, gesti, s'affacciava il mortaretto agghiacciante del sospetto, del dubbio, o della farneticazione, che rompeva la ripetitività delle figure, degli usi, e introduceva l'inquieta emergenza di una contraddizione, di una incongruenza sconvolgente.
E l'opposto del verismo naturalistico mi è apparsa sempre la lingua che Eduardo adopera nelle sue commedie. Non ho gli strumenti e le competenze per una analisi. Da spettatore, però, ho sentito sempre che nelle commedie di Eduardo c'è una lingua tutta inventata: una favolosa combinazione di dialetto napoletano e di una «koinè» italica, che si articola fra i diversi personaggi e a volte dentro lo stesso personaggio, a seconda delle situazioni, degli accadimenti, del tipo di relazione e dei conflitti. Anch'essa, la lingua, astratta invenzione; che passa per infinite modulazioni: trascolora dal napoletano assoluto alla mescolanza con quell'italico «misto» a cui accennavo; a seconda dei personaggi, delle fasi della vicenda, della situazione che vive lo stesso personaggio. Perciò le commedie di Eduardo mi sono sembrate sempre assai «scritte» (anche se sappiamo come le inventava), segnate da un forte rigore formale. Non sono mai riuscito ad immaginare come esse potessero essere tradotte, o come funzionassero nella traduzione, visto il peso essenziale che — nello svolgersi e precipitare delle situazioni sceniche — ha la modulazione di una lingua, così articolata, così — vorrei dire — differenziata e contraddittoria.
Non sono in alcun modo capace di collocare tutto ciò in una ricostruzione del linguaggio teatrale della tradizione napoletana. Registro la penetrante modernità, con cui Eduardo ha fatto giocare l'articolazione dei suoi vocabolari per rappresentare scale, passaggi, mutamenti di stato d'animo, manifestarsi di gerarchie sociali e familiari.
Ho visto Natale in casa Cupiello, per la prima volta, da quel loggione del Valle. L'ho visto — come tanti — ridendo a crepapelle e insieme con un senso di oscuro struggimento. Allora era già nella versione in due atti. Eduardo poi ne aggiunse un altro, che ha alcune notazioni bellissime. Non so però se quel terzo atto sia necessario, perché già nei primi due esplode nitidamente l'urto — ridicolo e tragico al tempo stesso — tra la prepotente tensione immaginativa di «Lucariello», tutto sprofondato nell'evocazione e nell'attesa dell'evento natalizio, e il precipitare, attorno, di fatti, tensioni, che scavalcano e bruciano la favola del Natale. C'è in quel risveglio mattutino nella stanza da letto, e poi nell'attesa e nella preparazione del pranzo ecc. un ventaglio, un fluire di respiri, odori, brume, ombre, frastagliarsi di voci ed episodi, che appaiono di un verismo pungente. Eppure io li ho sentiti come l'accumulazione ossessiva dì un farsi della realtà puntuale, ineluttabile, che consuma, fa saltare in aria in modo lacerante il sogno natalizio di «Lucariello». Secondo me, non ha molta importanza che la causa immediata del precipitare del dramma (la crisi del matrimonio della figlia di Lucariello) sia appena abbozzata in scorci assai sommari, persino melodrammatici (l'episodio a me appare quasi solo una annotazione didascalica, come fa Chaplin in alcuni passaggi dei suoi film muti). Il conflitto è più profondo: «Lucariello» è ben più di un vecchio al tramonto che non sa vedere; è la sete dolente dell'immaginazione, che tenta di scavalcare il fluire del tempo e la mutazione frantumata del costume e dei sentimenti.

La creatività della vita
È un urto che vedo tornare pressoché in tutto l'arco delle opere di Eduardo: maggiori e minori. Dappertutto nelle commedie si snoda la girandola di fatti, figure, spazi, passaggi, in cui sembra raggomitolarsi il particolare buffo, singolare, il colore, il senso di una figura, un'ora, una battuta. E la girandola prende lo spettatore, lo diverte, lo fa ridere. Ma ad un certo punto c'è l'esplosione del conflitto a illuminare la congerie «veristica» dei fatti, a riproporli come uno stringersi delle cose di fronte a cui cozza la singolarità, l'anelito, la «fissazione», la follia di questo o quel protagonista. A un certo punto l'illuminazione drammatica sembra farsi simbolo.
Ecco perché non mi lascerei fuorviare dall'ambientazione, dall'uso naturalistico o anche «macchiettistico» di certe figure, battute, situazioni. E non mi fermerei molto nemmeno sulle singole «moralità» che qualche volta vengono «dette» (sempre con un velo di dubbio, con una riserva di lettura!). Sento dominante, dappertutto, il conflitto tra lo spazio della fantasia e l'aggrumarsi di stratificazioni sociali, di attriti anche frantumati, di abitudini che stringono come lacci, sino al dramma e sino al ridicolo. E perciò, francamente, proprio non mi riesce di trovare nell'opera di Eduardo un'etica di «adattamento», sia pure alto, sia pure dolente, all'amara ineluttabilità degli avvenimenti. A me la sua opera — anche nei lavori più brevi — ha sempre lasciato la sensazione del disvelamento di un urto, di una inquietudine sia pure irrisolta.
In Filumena Marturano l'illuminazione del conflitto avviene alla fine: nell'esito che vieta a Domenico Soriano di conoscere, fra i tre, qual è suo figlio. E non ci vedo soltanto la vendetta della donna del popolo che alla fine afferma la validità della sua moralità, della sua legge. Mi è parso di leggervi qualcosa di più: una affermazione di creatività insopprimibile della vita, che stavolta fa saltare l'intrico dei moduli che la stringono.
È stato detto che le opere di Eduardo sono pressoché tutte traversate da «fantasmi», i quali irrompono o tralucono: e a volte s'affacciano per squarciare veli e scomparire, riaprendo il dubbio sul confine tra follia e verità. Confesso che amo molto questo Eduardo «folle», che scruta fantasmi i quali stanno «dentro»: sepolti. Mi pare di vedere dinnanzi a me quel suo volto così improvvisamente fermo e così infinitamente mobile, che si tende ad ascoltare voci possibili, ad inseguire immaginazioni indistinte, a frugare inquietamente dentro le maglie minute, consumate, intrise di fatica, della quotidianità: a ricercare ed ascoltare là le domande di una soggettività ferita, di una «follia» derisa e insaziata.

I fantasmi della crisi
Su un punto mi piacerebbe fare una ricerca: se vi sia e come vi sia, nella sua opera, la visione della «macchina» nel suo significato più lato: cioè di modo di essere del nostro tempo, dell'industrialismo moderno. Io ne dubito. Ho l'impressione che anche in Napoletani a Milano vi sia più la conseguenza dell'emigrazione e dell'urbanizzazione selvaggia, piuttosto che non l'avvicinarsi al senso, alle «ragioni», alle implicazioni della razionalità tecnica moderna: è come vedere un sussulto, un terremoto negli effetti che ha sulla vita la più quotidiana.
Ciò è perché Eduardo è uomo del Sud, investito dall'esterno dall'onda travolgente e assimilatrice della modernizzazione? Non credo. Forse si tratta di altro: forse si tratta di un atteggiamento e di una cultura che vede la società, più che nell'atto produttivo, nel momento della sua riproduzione vitale, nelle vie, nelle piazze, nelle case, nelle famiglie, negli sconvolgimenti delle passioni, delle credenze, delle gerarchie. Forse sbaglio. Ma io avverto che nelle commedie di Eduardo certe facce degli eventi restano «misteriose». E perciò le crisi, spesso, prendono le sembianze di «fantasmi».
Può sembrare strano tenere questi discorsi per uno scrittore così intriso di «fisicità» reale; di certe ore, figure, momenti, date. A me sembra che dentro quella materialità così carnosa, egli allude: evoca, ammicca, pronuncia brani di parole, come lampi. Quasi nel linguaggio indimenticabile di «zi' Nicola» nelle Voci di dentro, che dalla sua volontaria reclusione lancia messaggi al mondo attraverso i lampi e gli scoppi dei fuochi d'artificio.
Confesso che sono colpito dal contrasto tra questa allusività, così pungente nella sua «misteriosità», così aspra nel suo riso, e il suo grande, si potrebbe dire così «naturale», così solidale, successo di pubblico. Probabilmente ha giocato in tutto ciò la straordinaria volontà e capacità di Eduardo di comunicare; che gli veniva anche dal suo sentire così acutamente la sofferenza degli incomunicanti, l'ingiustizia fatta agli esclusi (come lo avvertii nella discussione che ebbi con lui sulla sorte dei minori condannati al carcere!).
Anche la frase famosa Ha da passa 'a nuttata non è poi così tranquilla e rassicurante. Forse è una frase polisenso, come avviene spesso per autori grandi, che parlano a mondi complessi.
C'è dentro di essa la coscienza di una terra che ha vissuto un impatto sconvolgente con la modernità; ma anche un dirsi tutta l'altezza e la portata della prova: guardandola in faccia.

“L’Unità”, 4 novembre 1984

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