26.7.13

Maestri e compagni. Timpanaro, l’antipatico (S.L.L.)

Questo breve saggio biografico su Sebastiano Timpanaro (1923-2000) fu scritto e pubblicato su “micropolis” in occasione della morte del filologo-filosofo, fiorentino anche se nato a Parma.

C’è un testo “segreto” di Giacomo Leopardi, un pamphlet rimasto a lungo inedito e tuttora poco conosciuto, un Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, scritto probabilmente nel 1824. Quando ci capita di veder pontificare in Tv gli Sgarbi o i Montanelli o di leggere sui quotidiani le “illuminazioni” di Galli Della Loggia, desidereremmo che fosse a tutti noto. In quel libretto, infatti, i vizi caratteristici degli intellettuali italiani, servilismo, cinismo, invidia, abitudine alla finzione, gusto del pettegolezzo documentano la mancanza di un vero legame sociale, perfino all’interno della “società stretta” dei colti e dei borghesi. Per Leopardi ne deriva, nei letterati, e spesso anche negli illetterati, una generale disistima di sé, radice di tutti i trasformismi, di tutte le conversioni fasulle, del silenzio che circonda chi, per rigore intellettuale e disciplina morale, non si piega all’andazzo.
Il filosofo di Recanati pagò duramente gli atteggiamenti che coerentemente derivò da queste convinzioni. I gruppi intellettuali egemoni nell’età della Restaurazione e del Risorgimento, quei cattolici moderatamente liberali e moderatamente romantici che trovavano in Firenze il centro di irradiazione, nutrivano per lui, così poco incline ai compromessi personali e storici, una profonda avversione, non disgiunta da un’untuosa compassione per il malato e da un’ammirazione forzata per il saggio che li metteva in riga con la sua erudizione. Il marchese Gino Capponi, che di quel milieu fu uno dei capi riconosciuti, quando lesse le Operette Morali, gettò alle ortiche l’aplomb aristocratico gridando: “Quel maledetto gobbo ci ha rotto i coglioni”. Pertanto Leopardi, pur ammirato e compatito, per sua propria scelta rimase fuori sia dalle istituzioni culturali ufficiali della Restaurazione, alle cui regole non voleva piegarsi, sia dal giro dei “liberali”, e dovette per anni mantenersi con la redazione di antologie e crestomazie, con la traduzione e l’edizione di classici greci e latini.
Così fatti pensieri ci sono venuti in mente alla notizia della morte di Sebastiano Timpanaro, un altro “antipatico” ostile alle mode culturali ed alle pratiche degli intellettuali “piacioni”. Allievo di Giorgio Pasquali, filologo di razza come Leopardi, a lungo rifiutò una cattedra universitaria, preferendo guadagnarsi la vita con la correzione delle bozze per la casa editrice Nuova Italia di Firenze. Non voleva partecipare ai giochetti delle congreghe e delle cordate che caratterizzano il mondo accademico. Solo molto tardi, universalmente stimato come maestro tra i filologi classici, avrebbe accettato nell’ateneo fiorentino una nomina a contratto: pochi soldi, ma un discreto livello d’indipendenza.
Dal Pasquali aveva imparato che “la filologia non è scienza esatta né scienza della natura, ma disciplina essenzialmente, se non unicamente, storica” e come lui aborriva dall’uso di linguisti e paleografi di fermarsi ai confini della storia, sostenendo che le loro “scienze” non potevano spingersi oltre. Come il suo maestro pensava che “nella scienza esistono, in concreto, solo i problemi ed attribuirli all’una o all’altra casella o farli a pezzi tra più caselle è cura spesso vana”. Aspirava perciò ad una filologia “totale”, quella di colui che, amando i libri, cerca di appropriarsi di tutta l’intelligenza che nei libri è presente. L’idea della storicità della filologia era peraltro corroborata in Timpanaro dal marxismo, che gli mostrava come immerso nella storia sia non solo il testo, ma anche e più ancora il filologo: l’oggetto della sua ricerca può essere remoto, ma i problemi che egli si pone vengono dal tempo suo proprio, con tutte le sue dinamiche sociali e culturali.
Essere filologo e lessicologo significava dunque per Timpanaro non considerare la parola l’oggetto ultimo della ricerca, ma rinvenire attraverso la ricerca quanto la parola esprima e/o occulti. Dedicò perciò un libro importante, teorico, al metodo probabilistico del padre della moderna filologia scientifica (La genesi del metodo del Lachmann, 1974), ma nella pratica lo riattualizzò, mettendo tra i propri maestri anche Marx e Freud. La critica della parola si faceva così critica dell’“ideologia” e di ogni altra forma di “falsa coscienza”.
La perizia filologica che mostrava negli studi sui poeti latini (gli “arcaici” e Virgilio), diventava, grazie a questi apporti, un efficace strumento d’indagine su ogni sorta di prodotto culturale: gli dava l’abilità del detective nel rintracciare gli indizi più impensati come il rigore del giudice nel sottoporli senza pregiudizi al vaglio della critica. Queste qualità Timpanaro esercitò con coraggio perfino nei confronti dei suoi maestri: non solo Pasquali, ma anche Marx e Freud, con i rispettivi epigoni. Non esitò, in un saggio del  1978, Il lapsus freudiano, a rileggere criticamente la teoria psicanalitica, rilevandone la propensione ideologica a ricondurre ogni alterazione del linguaggio, ogni amnesia, al conflitto tra gli obiettivi apparenti ed attuali di chi commette l’errore e gli obiettivi repressi. In realtà - avvertiva Timpanaro - l’errore casuale, il lapsus, deriva anche, forse più spesso, dal fenomeno della “banalizzazione”, nel quale gli schemi più familiari ed abituali tendono a sovrapporsi all’intenzione stessa del parlante. Era una integrazione–correzione del freudismo, antidogmatica, che gli proveniva dal mestiere del filologo, che, confrontandosi con codici, lezioni, mende, scopre quanto frequentemente l’errore del copista nasca dalla sostituzione dell’inconsueto con l’abusato, ma essa esprimeva anche la diffidenza verso ogni sopravvalutazione del ruolo del soggetto. La banalizzazione, infatti, non riguarda soltanto le pratiche linguistiche, ma anche l’esercizio della critica, storica, letteraria, sociale, attività che per definizione dovrebbe sottrarsi ai luoghi comuni: anche nella critica può infatti annidarsi un adeguamento non del tutto consapevole a schemi convenzionali dettati dall’esterno. L’unico antidoto consiste nell’applicare a se stessi una rigorosa intransigenza, nella fatica di studiare, pensare e valutare, esigenza non solo scientifica, ma anche morale e politica.
Fu la matura fedeltà a questo costume che portò Timpanaro ad uscire assai spesso dagli schemi collaudati, non una birichina volontà di disobbedienza. Nella lotta contro la banalità si trovò così a nuotare controcorrente. Citiamo qui due casi, tra loro assai diversi e perciò esemplificativi dello studioso e del politico. 
Quando, nel 1981, uscì l’incompiuto e fino ad allora inedito romanzo di Edmondo De Amicis, Primo Maggio, i più furono condotti dall’immagine vulgata dell’autore di Cuore ad interpretarlo come espressione di un vago umanitarismo idealistico. Era una “banalizzazione”, effetto dell’abitudine e della pigrizia. Per Timpanaro quella lettura, che mostrava evidente la lezione di Marx nella rappresentazione artistica dei rapporti di classe, fu l’occasione per un ribaltamento di prospettive. Il saggio Il socialismo di Edmondo De Amicis rivelava così nello scrittore piemontese non tanto l’autenticità della “conversione” socialista, quanto un’acuta intuizione delle dinamiche sociali, non solo in Primo Maggio, ma anche in opere precedenti, soprattutto nei racconti e resoconti di viaggio. Altre banalizzazioni gli accadde di smascherare nelle pratiche di volta in volta propagandistiche, movimentistiche o opportunistiche delle formazioni della sinistra postsessantottina. A quella esperienza partecipò come militante del Pdup, ma aveva fin dall’inizio avvertito la diffusa incapacità di produrre analisi, il pendolarismo tra un soggettivismo volontaristico e la ripetizione di schemi cristallizzati. Ne scrisse, senza animosità, ma con rigore, su “Praxis”, la rivista fondata da Mario Mineo.
Questa peculiare criticità lo aveva del resto contraddistinto fin da quando, negli anni Sessanta, aveva avvertito nel marxismo ufficiale, e spesso anche in quello critico, un buco nero, la rimozione della fisicità e della materialità dell’esistenza umana, che, per quanto sussunte dall’essere sociale, non cessano tuttavia di operare negli individui e nei gruppi. Da qui la rivendicazione, nei saggi pubblicati sui “Quaderni piacentini”, del “materialismo volgare” contro un “materialismo storico” ridotto a idealistica filosofia della storia, ad una sorta di provvidenzialismo ottimistico o di progressismo generico, che di fatto obliava come l’oggetto originario della teoria marxiana fosse, nel quadro di una critica ateistica della mistificante dialettica hegeliana, il rapporto pratico degli uomini con la realtà naturale.
Marx invero non aveva dato pieno sviluppo a questo aspetto della ricerca, al confronto con temi quali il corpo, la finitezza, la morte, elementi oggettivi quanto i stessi rapporti di produzione nel definire i limiti di azione dei soggetti umani. Timpanaro aveva bisogno di attingere ad altre fonti. Per questa via s’incontrò con il pensiero materialistico antico e moderno: Democrito, Lucrezio, D’Holbach, Engels, Lenin e, sopra tutti, Leopardi. L’incontro fu tra i più fecondi.
Dopo un saggio sulla filologia leopardiana e la cura degli scritti filologici del poeta di Recanati egli propose in diversi densi saggi una ricostruzione organica del pensiero leopardiano, sfuggendo innanzitutto alle false antinomie che contrapponevano estimatori e detrattori, alle fuorvianti teoriche del limite e del nonostante.
Da Tommaseo a Croce si era svalutata la filosofia, “dolorosa ma vera”, di Leopardi, riducendola a prodotto accessorio della deformità e della malattia, a frutto indigesto di una “vita strozzata”. Alcuni tra i pochi estimatori del pensiero del “maledetto gobbo” (cito tra tanti Salvatorelli) avevano al contrario sostenuto che esso si era affermato nonostante la malattia. Perfino Cesare Luporini, che per primo aveva intrapreso una rivalutazione del pensiero leopardiano, una sua rilettura in chiave marxista, aveva trovato un limite di fondo nell’isolamento del Leopardi, a cui attribuiva la mancata conoscenza ed utilizzazione della “dialettica”. Timpanaro evidenziò per primo il nesso inscindibile tra filosofia e malattia usata come “potente strumento gnoseologico” e denunciò come fuorvianti le pretese salvifiche di una “dialettica” capace di eliminare le contraddizioni esistenziali solo al livello del linguaggio e non della realtà.
Leopardi aveva semmai un altro torto: quello di aver messo in secondo piano le cause storiche e sociali dell’infelicità umana, che pure non ignorava, in favore delle radici materiali e naturali. Da questo punto di vista la sua filosofia poteva trovare una feconda integrazione con quella del pensatore di Treviri. Una più profonda consapevolezza materialistica delle basi naturali della condizione sociale  non poteva che dare forza alla lotta per la liberazione dallo sfruttamento e dalla alienazione capitalistica. Era per questo che, con un qualche vezzo autoironico, Timpanaro si definiva “marxista-leopardista” e che in tre saggi degli anni Settanta pubblicati dapprima su “Belfagor” e poi in volume col titolo Moderati ed antileopardiani nella sinistra italiana, coglieva le sintonie tra la strategia del  “compromesso storico” e la diffusa antipatia degli intellettuali del Pci contro “un’intellettuale sradicato dal processo storico”.
Il rigore di quel pamphlet lo rese ancora più antipatico e produsse un ulteriore isolamento, confermato dal quasi totale silenzio che oggi sembra accompagnare la sua scomparsa. Conveniamo con lui e con il suo Leopardi sul fatto che nulla è immortale, neanche le grandi opere del pensiero, e che, sul piano meramente edonistico-individuale, la morte è un non-male, un oggetto di timore infondato. Ma la morte di quanti consideriamo compagni e maestri, considerata al livello dei rapporti affettivi tra le persone, per la lacerazione dell’“amante compagnia” che essa produce, contribuisce ad aggravare la nostra infelicità naturale e politica.

“micropolis”, dicembre 2000

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