24.7.13

Domenico Rea su Eduardo: "Non rappresenta la plebe"

Eduardo non rappresenta la plebe, ossia una buona parte dei napoletani. Non rappresenta il versante realistico, curioso e tragico, di un universo che rimane, tra l'altro, un mistero socio-antropologico indecifrabile. Lo sfiora, lo avverte, vi allude ma, non possedendolo, lo scarta. L'opera di Eduardo, però, occupa uno spazio cospicuo e rivelatore: quello schizoide, pieno di tic e di vanità della miseria dignitosa, popolata di personaggi che, al contrario delle creature urlanti e frementi della plebe, distruggono la propria vita sotto un tic.
E' incredibile come nella fluviale opera di De Filippo non vi sia un grido, meno che mai un anatema o una risata, o un sentimento decisivo. Tutto si mantiene nell'incerto, sull'accenno, su un'ambiguità e instabilità di fondo, fra tabù rifiutati raccolti e reimposti con qua e là, più che segni, segnacoli di speranza, fuochi sparsi su una terra ricca e chiusa, con un passato stanco e senza gloria e un futuro in sospeso.
Della tradizione clownesca e farsesca pulcinelliana De Filippo ha il merito di scegliere il patetico strawinskiano. Dell'altra, comico - qualunquistico - scarpettiana, eredita, reinventandolo, il parletico peripatetico: il parlare da soli, nella strada, in casa, nel letto, nello stesso momento in cui si dialoga con un altro; il dubitare di se stessi e degli altri; la riserva e il giudizio rivelatore tenuto nel freezer del cervello, che è un modo di esistere profondissimamente napoletano.
I personaggi di De Filippo camminano come degli equilibristi. Tastano la fune della vita di nascosto, nel timore di scoprire il punto dello schifo, dopodiché è il silenzio, le famose pause del suo teatro. Né trombe, né tamburi, nessuno strumento, né a fiato né a corda, per uno che si aggira nel canzonabile paese delle canzoni, si avverte, nemmeno come memoria, nostalgia o debolezza romantica nelle intricate trame defilippiane. Il non clamore è la sua musica. La battuta, lasciata lì cadere come una piuma, è la sua forza, il suo messaggio contro la bestia trionfante di ieri e di oggi. In questi momenti è davvero uno scrittore più vicino a Cechov che a Pirandello.
Eduardo è un creatore di personaggi ondeggianti; che già sanno tutto e ripercorrono le vie della loro vita per convincersi che si erano, sì, sbagliati, ma sulle inezie, sulle rifiniture. Ma il fatto centrale era quello, senza misericordia. De Filippo è questo: il piacere della macerazione silenziosa; quello di stare in solitudine, di pensare a un pensiero fisso ai limiti di una metodica follia, in vitro, squartata ed esaminata da ogni parte, ricomposta, poi, e buttata via come un ferro vecchio.
In lui, in maniera disordinata e oscura, ha agito anche il filone più segreto della nostra cultura: il nostro bisogno di ricercare non il perché esistiamo, ma il perché qualcuno si è preso lo sfizio di crearci: di creare una schifezza simile.
Chi esce dall'aver visto uno spettacolo di De Filippo se ne va a casa con la coda fra le gambe o come chi ha ricevuto una bastonata tra capo e collo o con la coscienza un poco sporca. Questo risultato l'attore De Filippo lo ottiene con mezzi da nulla, con mezze parole, con parole appena soffiate senza neanche parlare, sfruttando il patrimonio mimico che in lui raggiunge la vetta e la somma di tutta la storia e la tecnica del teatro napoletano.
In questo senso, Eduardo ci rappresenta fino a inserirsi tra noi come una categoria antropologica, come un'ombra che ci segue e ci precede. Eduardo è uno Charlot mediterraneo. Sìk sik è questo. La conquista come che sia di una «degnità». Il prezzo e lo strazio. Scavando in questa direzione, nei depositi del locale, refrattario alle avanguardie di ogni genere, il suo teatro, che si avvale del dialetto, ma come chiave per aprire e rendere leggibili altri linguaggi, ha potuto compiere il giro del mondo; e ottenere lo stesso strepitoso successo ovunque giacché — qui è il punto — nei depositi locali di ognuno c'è il rischio di essere, di volta in volta, un sìk sik, dì cadere tra «questi fantasmi». Di trovarsi immischiati in un'epopea miserabile come «Napoli milionaria» o di ascoltare voci misteriose come le «Voci di dentro».
Nato nel 1900, De Filippo a sei anni è già sul palcoscenico, su uno speciale palcoscenico. E' un vantaggio, ma anche un pericolo. Un vantaggio perché il suo habitat è il teatro, le sue tecniche, i suoi trucchi; un pericolo perché deve disfarsi di una eredità ingombrante, quella scarpettiana, paralizzante. Per uscir di sotto da quel mantello di risate impiegherà una fatica e un tempo relativamente enormi. E' come un uomo che deve cercare la via tra la nebbia e la via si chiama: «Sik sik», «Natale in casa Cupiello», «Napoli milionaria», «Questi fantasmi», ecc. Deve spogliare Pulcinella, togliersi il pagliaccio e la maschera. Dare un'anima al fantoccio. Passare da un'ebete risata a un sorriso velato di malinconia e quasi di gelo. Del resto, il De Filippo fu uomo talvolta arido, tal altra bigotto e predicatorio e la sua arte risente del didascalico e del moralistico. Tre gridi soffocati la dominano: «'A mamma è mamma!'/». «I figli so' figli!/ » ed «I denare so' 'a voce 'e ll' ommo!».

“Tutto libri – La Stampa””, 3 novembre 1984

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