31.7.13

Cécile Kyenge e le foglie di fico. "Siamo tutti orangutan" (S.L.L.)

Un paio di settimane fa, l’ex ministro Calderoli, riprendendo vecchie abitudini in verità mai abbandonate, ha dichiarato in un comizio che la ministra nera per l’integrazione, Cécile Kyenge, rassomiglia a un orangutan. Il sostrato razzista e l’intento offensivo dell’atto sono evidenti e resi indiscutibili dal collegamento con una campagna di gravi minacce dirette alla ministra, che fa saltare ogni alibi sulla “scherzosità” della sudicia esternazione.
La solidarietà con la Kyenge, pertanto, è doverosa e incondizionata. Questo non deve tuttavia oscurare la sostanziale inconcludenza del “governo delle intese” sui temi della immigrazione, nonostante le buone intenzioni e le apprezzabili dichiarazioni della ministra. Si ragiona, tra mille distinguo e prevedibili sabotaggi, di una legge sulla cittadinanza che privilegi lo “ius soli”, ma non si abolisce il reato di immigrazione clandestina la cui esistenza è, tra l’altro, causa del sovraffollamento carcerario, abolizione per cui basterebbe un solo articolo di legge. I CIE, intanto, continuano a somigliare a dei lager. Ad offendere la signora Kyenge, pertanto, non sono solo i leghisti alla Calderoli con i rigurgiti razzisti che alimentano, ma anche i suoi colleghi di governo, di maggioranza e di partito che la utilizzano come foglia di fico.
Ho visto su fb gruppi di solidarietà intitolati Io sono come Cécile Kyenge. Il titolo è una sorta di calco individualista dell’antico slogan “Siamo tutti ebrei polacchi”, con cui si manifestò in Francia la condanna del razzismo nazionalsocialista (purtroppo fu parola d’ordine estremamente minoritaria durante la guerra, usata solo durante l’eroica resistenza del ghetto di Varsavia; e tornò a risuonare dopo, a genocidio compiuto).
La stranezza sta nel fatto che nessuno osa dichiarare di sentirsi orangutan. C’è una specie di razzismo anche tra gli animali: nessuno si offende se gli dicono che è agile come una gazzella o che somiglia a una volpe. Invece il Calderoli ha potuto usare come una clava il nome di quel nostro parente, di una specie che non oso dire migliore o peggiore di noi, perché adotterei impropri criteri antropocentrici, ma certamente meno distruttiva dell’homo sapiens. Io non voglio essere come Cécile Kyenge: non avrei piacere ad essere piddino e membro del governo Letta-Berlusconi; ma non ho alcuna difficoltà a dichiarare la mia somiglianza e simpateticità con il caro orango, fratello mio e di tutti gli umani.

Malizia (S.L.L.)


Su fb mi accade di leggere spesso una massima attribuita al nuovo papa cattolico: "Per essere davvero grandi bisogna prima di tutto imparare ad essere piccoli". A me ricorda la frase che un tempo (ma immagino anche adesso) i colonnelli solevano pronunciare con sussiego negli incontri con gli allievi ufficiali: "Per saper comandare, bisogna prima imparare ad ubbidire". Sono malizioso?

Agosto in Sicilia (di Francesco Lanza)

Finisce la trebbiatura, e l'estate giunta al suo culmine lentamente decade.
Il villano, tutto bruciato, lascia la falce e il tridente, e riprende la vanga che mise da canto.
Col nuovo raccolto si pagano i debiti contratti al tempo delle sementi; e qualcosa resta da mettere da parte per i bisogni che non si sanno. In agosto ricomincia l'inverno…
La campagna che si credeva lasciata, tosto bisogna riprenderla. La terra non si stanca, e sempre pretende. Ogni giorno ha la sua piccola fatica: qua un albero o una conca, là una siepe o un fosso.
D'un tratto nerica l'uva, come se qualcuno passando si divertisse a imbrattarla. Se hai tempo, utile è ancora zappare la vigna, e ripetere i lavaggi.
Si ritorna, dopo tanto sole, a domandare l'acqua, che rinfreschi la terra arsa, e dia umore agli alberi che non ne ebbero, e ne hanno bisogno.
Acqua d'agosto, olio, miele e mosto.

Da Almanacco del popolo siciliano 1924 in Mimi e altre cose, Vallecchi, 1946

Leonardo Sciascia su Pier Paolo Pasolini: “Eravamo amici”.

Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni Cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì su una rivista romana “La libertà” il primo scarno libello del maestro di Racalmuto, le Favole della dittatura, di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale. Riprendo da questo punto il racconto che Sciascia ne fa in Nero su nero. (S.L.L.)

… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all'antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l'ultimo nell'atrio dell'albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi.
C'era però come un'ombra tra noi, ed era l'ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto -come dire? - razzista nei riguardi dell'omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente - la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.
E voglio ancora dire una cosa, al di là dell'angoscioso fatto personale: la sua morte - quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell'ultimo numero del «Mondo», una lettera a Italo Calvino.

Da Nero su nero, Einaudi, 1980

La capaciota (cioè La donna di Capaci). Un mimo siciliano di Francesco Lanza.


La statua di Sant' Erasmo nella Chiesa Madre di Capaci (PA)

Il capacioto diceva sempre alla moglie:
-Moglie mia, non mi fate le corna, che mi spuntano in fronte come un becco, e la vergogna è vostra.
Quella a battersi il petto che non era cosa sua, e il pane l'aveva in casa: ma a lungo andare per sospetto che non fosse una burla e per la curiosità insieme, volle tuttavia provare, e ogni volta gli guardava zitta la fronte.
Ma prova e riprova, cotesta gli resta più liscia di prima; e gli fece stizzita:
- O che mi contavate dunque di corna e non corna, marito mio? Ve ne ho fatte che non ne posso più, e ancora non vi spunta manco il bozzo.

Da Mimi e altre cose, Sansoni, 1946


Sulla librosità (Gian Paolo Cesarani)

Qualche anno fa mi capitò di dover fare un piccolo regalo a un'anziana signora. Mi fu detto che desiderava (da me, lo «scrittore»!) un bel libro. Io sapevo però che non era assolutamente abituata alla lettura. Che cosa scegliere per lei? Ecco un minimo ma per me importante quesito. Non volevo cavarmela con Liala. Alla fine scelsi I Buddenbrook, pensando che l'atmosfera del libro (la vita di famiglia, le case, i pranzi) l'avrebbe interessata; e che la scrittura non l'avrebbe intimidita.
Qualche tempo dopo venne a trovarmi. Il libro le era piaciuto enormemente: voleva leggere altre cose di quello scrittore. Chiacchierando, mi disse però una cosa che mi lasciò stupefatto: quel libro era «proprio uguale» a l'altro libro (l'unico) che aveva letto fino a quel momento. Non ricordava l'autore, ma ricordava benissimo il titolo: era Per chi suona la campana.
Possibile? Pensando a un errore, le feci raccontare la trama. Non c'erano dubbi. Si trattava proprio del signor Hemingway. Confesso che la cosa mi intrigò moltissimo e che — da allora — ogni tanto ci penso e ripenso, cercando di capire. Che cosa potevano mai avere in comune, per quella persona, due autori che, a noi abituati a leggere, sembrano tanto diversi? Che cos'hanno in comune i libri di Mann e Hemingway, che a noi sfugge? (perché, il caso di quella signo¬ra non è raro affatto).
Risposi provvisoriamente a me stesso: hanno in comune la librosità. L'esser libri, insomma. Due libri, diversissimi fra loro agli occhi dei lettori abituali, sono molto simili agli occhi di chi lettore non è. Ma simili come? Riflettendoci, penso di aver trovato una risposta: sono equidistanti dalla vita. Vale a dire: entrambi lontanissimi. Per chi non è abituato a leggere, i libri sono tutti molto simili fra di loro come per noi sono estremamente simili le stelle. Siamo così lontani dalle stelle che non ne vediamo le differenze. E i libri sono così lontani dalla «vera vita» da parer molto simili fra loro a chi è abitualmente immerso nella vita ma non nelle letteratura (e sappiamo che è un bel po' di gente)…

“La lettura”, febbraio 1980

L'aringa affumicata. Una poesia di Charles Cros (1842 – 1888)

Era un grande muro bianco               nudo, nudo, nudo
Contro il muro era una scala             alta, alta, alta,  
Per terra un'aringa affumicata           secca, secca, secca.
Viene e stringe nelle mani                 sporche, sporche, sporche,
Un martello e un grande chiodo        aguzzo, aguzzo,aguzzo,
Un gomitolo di spago                        spesso, spesso, spesso,
Sale allora sulla scala                       alta, alta, alta,
E il chiodo a punta pianta                  toc, toc, toc,
Su nel grande muro bianco               nudo, nudo, nudo.
Il martello lascia andare                    che cade, cade, cade,
Lo spago attacca al chiodo               lungo, lungo, lungo,
Allo spago l'aringa affumicata           secca, secca, secca.
Scende giù da quella scala               alta, alta, alta,
Porta via scala e martello                  grosso, grosso, grosso,
E poi se ne va altrove,                       lungi, lungi, lungi
Allora l'aringa affumicata                   secca, secca, secca,
Che pende giù dalla corda                lunga, lunga, lunga,
Si dondola piano piano                      sempre, sempre, sempre.
Ho composto questa storia                facile, facile, facile,
Per fare arrabbiare i grandi               seri, seri, seri,
E divertire i bambini                           piccini, piccini, piccini.

In André Breton Antologia dello humour nero, Einaudi 1970

29.7.13

La poesia del lunedì. Giovanni Raboni (1932-2004)

Parlo per me ma forse anche per voi.
Amici, diciamo la verità:
di sentirci oppressi ci sentiamo felici;
ci importa adesso esser vittime, per non esser liberi poi.

da Cadenza d'inganno, Mondadori 1975

Contro Berlusconi. Perché Staino sbaglia

In una discussione fb, come torna ad accadere, agli antiberlusconiani s’opponevano quelli che "dite quel che vi pare ma il più migliore è Silvio” e quelli che “la sinistra non vincerà mai finché si baserà esclusivamente sull’antiberlusconismo”. Una signora del secondo gruppo ha utilizzato una citazione del disegnatore Sergio Staino, antico militante comunista, la cui autenticità, per essere sincero, non ho controllato, ma di cui non ho ragione di dubitare. Così recita: “Quando l'unico elemento che ti fa sentire un uomo di sinistra è distruggere Berlusconi o mandarlo in galera, allora mi preoccupo assai. E penso sia chiaro a tutti come la penso io”. Ho tentato di replicare con la riflessione che qui “posto”. (S.L.L.) 
Sergio Staino in questo caso sbaglia.
Nella corruzione sempre più grave della pubblica moralità, nell'affermarsi sempre più forte di un principio di prepotenza Berlusconi non è stato il primo e si è ben innestato in realtà che nascevano prima di lui e a prescindere da lui. Accade sempre così, fenomeni di questo tipo attecchiscono in un humus favorevole: anche Mussolini e il fascismo misero radici nell’Italia monarchica e liberale. Ciò non toglie che Berlusconi - come Mussolini - realizzi un salto di qualità rispetto al passato. E come Mussolini fu il capo indiscusso del fascismo, Berlusconi è stato il capo assoluto di una destra illegalista. E' sotto la sua guida che in Italia la destra, altrove propugnatrice di “legge e ordine”, qui ha fatto una bandiera del rifiuto di qualsiasi giudizio e dell'aggiramento sistematico della legge in nome del popolo sovrano.
Grazie a lui e al martellamento mediatico da lui orchestrato, paragonabile a quello del Minculpop che rese razzisti e colonialisti la grande maggioranza degli italiani, sono cambiati la mentalità del ceto politico e il livello di accettabilità dei suoi comportamenti. 
Al tempo della "corrotta DC", bastava un rinvio a giudizio per "fare un passo indietro": il politico coinvolto cercava l'assoluzione stando fuori da ruoli pubblici di primo piano, di governo per esempio. Adesso non basta il moltiplicarsi delle condanne di primo e secondo grado per allontanare qualcuno dai pubblici uffici. E’ stato così abolito il garantismo che riguarda i cittadini, quello per il quale, essendo la politica servizio, l'uomo politico incriminato, che in genere non manca di risorse alimentari, deve lascia il posto ad altri, aspettando l’esito dei processi. E le garanzie le pretendono tutte per sé i politicanti di ogni parte rinviati a giudizio: continuano senza ritegno ad amministrare la cosa pubblica e senza vergogna cercano non assoluzioni, ma prescrizioni, condoni e amnistie. Molti cittadini, del resto, accettano la cosa senza un lamento e accettano la teoria che la magistratura esorbita, che gli eletti dovrebbero avere una sorta di immunità e impunità.
No, Bobo in questo caso sbaglia.
La sinistra italiana viene sconfitta per molte ragioni, ma una di queste è che è stata tollerante, vile ed “inciucista” con Berlusconi e col berlusconismo. L’antiberlusconismo è invece un dovere per chi vorrebbe lo stato di diritto ed una società fondata sulla solidarietà, non sulla prepotenza. E’ del tutto logico pertanto, compagno Staino, che, a sinistra, anche un milanista come me voglia per prima cosa Berlusconi messo in grado di non nuocere, in galera o affidato ai servizi sociali mi importa poco. Quando si tenta la costruzione di un regime intorno alla figura di un autocrate, intorno al suo impero economico e mediatico, è inevitabile che la rabbia dell’opposizione si diriga soprattutto contro di lui.

Scrittori svizzeri. Il paradosso di Blaise Cendrars (Marco Dotti)


Blaise Cendrars

Singolare destino, quello di Blaise Cendrars. Autore di un libro dal titolo ben augurante, L'oro, si ritrovò a sbarcare il lunario esercitando mestieri improbabili o assurdi. D'altronde, che con la letteratura si guadagni poco è fatto ampiamente risaputo. Ma se questo accade in Svizzera, isola infelice d'Europa, tutta banche, calvinismo e lavoro, allora le cose cambiano e l'esclusione genera un'assoluta, reciproca, ma non sempre negativa incomunicabilità. Lo scrittore si trasforma così in una sorta di rifiuto, di feccia, di scarto da tenere sui marciapiedi, senza guinzaglio come i gatti, ma senza che abbia la possibilità di produrre la minima incrinatura a qualsivoglia livello della gabbia sociale.
C'è chi parte in cerca di fortuna, e il fatto sarebbe già di per sé significativo in una terra solitamente meta di migrazioni, ma c'è pure chi, muovendo da condizioni di privilegio, sperpera un cospicuo patrimonio di famiglia e impazzisce. Un po' come accade all'avventuriero miliardario Sutter protagonista, appunto, dell'Oro. Dopo aver conquistato la California, scoperte alcune miniere aurifere sui suoi innumerevoli possedimenti, Sutter perde senno e ricchezze.
Metafora amara e capovolta dell'immaginario western e della gold rush, il testo di Cendrars, pubblicato nel 1925, fu portato al cinema undici anni dopo senza troppo successo, da Luis Trenker che ne trasse il suo Kaiser von Kalifornien. Ben peggio andò, sempre nel 1936, a James Cruze che, con The Sutter's Gold, registrò uno dei peggiori disastri al botteghino, a fronte di costi di produzione stratosferici per l'epoca (si parla di circa due milioni di dollari), riducendo sul lastrico la Universal.
Non stupisce, dunque, vedere Cendrars - uno degli autori più amati da Apollinaire e dalla sua generazione - ridursi a chiedere denaro alla madre, annotando minuziosamente su una partita doppia le modeste entrate e le meno modeste uscite di cassa.
A questo aspetto della vita di Cendrars e di altri scrittori elvetici - da Hermann Hesse a Gottfried Keller, da Albert Cingria a Max Frisch, fino a Fabio Pusterla - viene ora dedicata una interessante esposizione che fino al 20 ottobre si terrà al museo Strauhof di Zurigo. Organizzata con un'ironia che traspare fin dall'interrogativo del titolo Brotlos?, con una bella locandina che riproduce la nota-spese di Cendrars, e ispirata al motto latino «Carmina non dant panem», l'esposizione si concentra, in particolare, sulle zone d'ombra e le ambiguità nel rapporto fra mecenatismo pubblico e sopravvivenza creativa.
In questo senso, in un mercato librario che anche qui non sembra proprio in espansione, non stupisce l'esempio di coloro che si sono trovati e ancora si trovano a vivere quello che si potrebbe definire il «paradosso di Cendrars», ovvero: essere scrittori affermati, in qualche modo di successo, ma senza per questo ricavare «il pane» dalla propria scrittura. Un corollario di questo «paradosso» sembra risultare dalla continua richiesta di un intervento della «lunga mano dello Stato» proprio da parte di coloro che a ogni idea di «ragione pubblica» sembrano essere i più allergici. In questo senso, non scandalizza che persino autori non certo generosi nei confronti del proprio paese come Ludwig Hohl o Friedrich Dürrenmatt si siano infine piegati a ricevere sussidi, aiuti e agevolazioni pubbliche. In fondo, come osservava Oscar Wilde, «se due banchieri si incontrano, che fanno se non parlano d'arte»?
Lecito allora che se a incontrarsi sono due scrittori, il loro comune interesse sia acceso dalla disputa su modi, tecniche e strategie per sottrarre più soldi possibile alle ricche tasche degli industriali affamati d'arte e dai loro supplenti statali. A entrambi, consigliava Hohl, bisogna sempre e comunque «far pagare un biglietto», anche a spettacolo finito. Difficile metterlo in pratica, ma altrettanto difficile dargli torto.

il manifesto, 28 settembre 2006

28.7.13

Novembre 45. La caduta di Ferruccio Parri, “lo straniero” (Giuseppe Armani)

Nell’articolo di cui qui riprendo un ampio stralcio, Giuseppe Armani, partendo dal romanzo di Carlo Levi che la racconta - L’Orologio - rievoca la caduta del governo Parri, il governo del Vento del Nord costituito nel giugno 1945, subito dopo la Liberazione, nell’intento di esprimere e realizzare la spinta rinnovatrice della Resistenza partigiana.
L’opposizione dichiarata della destra liberale, l’opposizione subdola della Democrazia cristiana, la freddezza del Pci determinarono a fine novembre le dimissioni di Ferruccio Parri. Nel programma e nella prassi del nuovo governo, il primo presieduto da Alcide De Gasperi, alla volontà di rompere con l’assetto oligarchico dello Monarchia sabauda si sostituì quella di ricostruire lo Stato prefascista, spesso recuperando uomini compromessi col Regime e pratiche del tempo fascista.
Si trattò di un’occasione perduta per la quale le responsabilità non sono da riportare principalmente al presunto estremismo del Partito d’Azione, di cui Parri era rappresentante, o all’inadeguatezza del prestigioso capo della Resistenza e neanche soltanto alle forza dei moderati, del ventre molle d’Italia: contò in negativo – e non poco – anche la realpolitik di Togliatti. (S.L.L.)
 
Il presidente Ferruccio Parri a Milano nel settembre 1945
per una mostra dei progetti di ricostruzione della città
Nel settimo capitolo de L'Orologio Levi racconta l'episodio finale dell'esperienza di governo di Ferruccio Parri: la conferenza stampa tenuta al Viminale dal presidente del consiglio dimissionario, la sera del 24 novembre 1945, per spiegare il significato e le responsabilità di una crisi che, estromettendo dal potere l'uomo della Resistenza, apriva una fase involutiva destinata a condizionare per decenni la vita politica italiana.
La conferenza, che si svolse drammaticamente, con toni di denuncia e di appello all'opinione pubblica perché non dimenticasse ciò che stava accadendo e vedesse i pericoli di rinascita fascista che venivano dal "colpo di stato" dei moderati, è, nel libro di Levi, lo sfondo nel quale si colloca l'immagine indimenticabile di Parri, "diverso, come straniero" rispetto agli uomini di partito che lo circondano, un fiore sopra il "letamaio" in cui si erano svolte le trame per allontanarlo.
Parri, in queste pagine, è presentato con intensità straordinaria come l'uomo che parla a nome dei morti della guerra partigiana, l'eroe senza retorica di una storia terribile di sofferenze vissuta dal popolo italiano per ottenere una democrazia e una giustizia mai raggiunte prima del fascismo, il garante di un programma severo di moralità pubblica del tutto ignota alle classi dirigenti. Quel che Parri, ne L'Orologio, sembra dire rivolto all'avvenire, di un'Italia che sta perdendo il senso di ciò che la Resistenza ha rappresentato, e per la quale questa perdita giustificherà il ritorno delle peggiori espressioni del passato, esprime un giudizio sicuro dell'autore, già confermato, quando termina il libro, dal risultato del 18 aprile, e che la storia successiva dimostrerà esatto.
L'immagine di De Gasperi, il "vecchio e navigato serpente" che si alza a parlare quando Parri ha concluso il suo discorso, per tornare sul terreno "sodo e limitato" di una politica non toccata dalle tensioni appena evocate, e quella di Togliatti, i cui occhi brillano "di un piacere ironico" mentre fa "gesti di assenso, perché si deve applaudire alla virtù", ma sa bene che la virtù non è un'"arma pericolosa" e che è "assai facile sbarazzarsene", legano la caduta di Parri all'aprirsi di intese e di inganni, di una politica del contingente, degli interessi, dei calcoli di convenienza, in tutto diversa da quella che Parri aveva rappresentato e tentato inutilmente di realizzare.
La concordanza emblematica che Levi riconosce nel comportamento dei "due illustri capi della destra e della sinistra" nel momento in cui Parri, terminando il suo discorso, compie l'ultimo atto da presidente del consiglio, corrisponde in modo puntuale alla convergenza politica dei due maggiori partiti italiani negli anni in cui avviene la successione del post-fascismo al fascismo e si avvia la riunificazione del paese, diviso dalla guerra. Uno dei frutti di questa convergenza è stata, appunto, la caduta del governo Parri, e non è poca cosa che Levi lo abbia detto, dopo il '48, quando, con la rottura dell'unità dei grandi partiti, da sinistra se ne era ufficialmente attribuita la responsabilità alle forze reazionarie. La fine delle speranze di rinnovamento effettivo della vita italiana che Levi collega alla caduta di Parri si unisce, ne L’Orologio, al disgusto per il riemergere del vecchio stato, al senso di tragedia che gli deriva dalla constatazione del fallimento dei programmi dell'antifascismo e della Resistenza. Ciò che più lo offende — e che pochi denunciano con l'incisività di Levi — è la generale insensibilità manifestata, sia da destra che da sinistra, al richiamo di Parri, e il fatto che i partiti di sinistra non abbiano posto, al riguardo, questioni di principio, ma si siano dedicati alla collaborazione con le forze moderate o più apertamente reazionarie compiendo transazioni inaccettabili.
La ricapitolazione delle vicende del governo Parri, cui rimanda l'editore Einaudi invitando alla lettura di alcuni testi storici e memorialistici citati nella nota introduttiva alla ristampa de L'Orologio, consente di accertare che Levi era nel giusto quando ne scriveva. Costituito all’indomani della liberazione del nord (21 giugno 1945), il governo Parri restò in carica soltanto cinque mesi, ma non fu una semplice parentesi fra il precedente governo Bonomi e il successivo governo De Gasperi. Imposto dalle forze resistenziali coordinate dal Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia, esso fu l'espressione istituzionale della presa del potere da parte delle organizzazioni combattenti antifasciste (del cui comitato militare Parri era stato il coordinatore dal dicembre 1943).
Il dramma di Parri fu che questa presa di potere si realizzò soltanto formalmente, come soluzione transitoria consentita dai partiti di massa in vista della successiva adozione di diverse forme di governo, fondate sulla loro stretta collaborazione e con la presidenza del leader cattolico (secondo una linea di condotta cui Togliatti pensava fin dal 1944, e che richiamerà al riaprirsi dei giuochi politici, l'11 dicembre 1945, indicando nell'accordo dei comunisti con la democrazia cristiana "l'asse della stabilità governativa in regime repubblicano". Quando Parri fu costretto a dimettersi non aveva realizzato se non in modestissima parte il suo programma, per i limitati spazi di movimento di cui poteva disporre e per la necessità di far fronte a problemi indilazionabili di amministrazione corrente manifestatisi subito dopo la costituzione del governo. E, quando cadde, poté sembrare che fosse sua la responsabilità degli scarsi risultati e della fine traumatica della sua esperienza.
Il compito più importante che Parri si proponeva assumendo la presidenza del consiglio era di assicurare non tanto una, pur necessaria, mediazione fra i partiti del Comitato di liberazione nazionale, quanto la rifondazione democratica del paese. L'Italia era rimasta per alcuni anni divisa in due, con una parte centro-meridionale toccata marginalmente dalla lotta armata di liberazione, e un'altra, quella settentrionale, che ne era stata investita direttamente e in modo generalizzato. Era necessario provvedere con rapidità a colmare il distacco fra le diverse esperienze, le diverse sensibilità, il diverso tono morale delle due Italie, per evitare che la peggiore sopraffacesse la migliore, e per estendere a tutto il paese un programma di rinnovamento delle istituzioni e dei modi di governo, capace di far superare i guasti del fascismo. Parri si accinse a questo compito facendosi garante dell'enorme impegno che esso richiedeva più col suo prestigio personale di antifascista e di combattente che per il sostegno del Partito d'azione, al quale apparteneva, le cui forze non si erano ancora elettoralmente contate ma che già appariva Partito di élite, senza vasti consensi.
Quando il "vento del nord" esaurì la sua spinta, e i quadri politici, economici, burocratici e militari passati indenni dal prefascismo al fascismo mostrarono di essere sopravvissuti anche alla fine del regime, la vecchia Italia si dispose a riprendere il sopravvento, e la crisi del governo Parri fu il segno di una sconfitta che investiva, col suo presidente, tutta una linea di rinnovamento radicale che, in seguito, non sarebbe stata più realizzabile. La paralisi del governo Parri, e la sua rapida sostituzione, furono la prova che, al di là delle intese formali che ne avevano consentito la costituzione, e in elusione dei programmi che nominalmente gli si affidavano, vi era un accordo più saldo e ben nascosto fra le forze partitiche maggiori per riprendere il controllo della situazione, appena consentito alla Resistenza armata di giustificare la sua vittoria con una transitoria assunzione del potere. Le decisioni più importanti che il governo Parri avrebbe dovuto prendere (la convocazione dei comizi elettorali e l'avvio dei lavori della costituente, con la precisazione dei suoi compiti anche legislativi) furono rinviate a tempi successivi, e a Parri fu lasciata soltanto la gestione ordinaria, nella quale l'empito riformatore era destinato ad esaurirsi senza conseguenze di rilievo.
Con la sconfitta del governo Parri si ebbe la sconfitta della Resistenza, nei suoi programmi politici destinati ad essere realizzati nell'Italia liberata dal fascismo: la mancata attribuzione alla costituente del potere di riformare le leggi esistenti tolse al primo organo rappresentativo della volontà popolare la possibilità di incidere immediatamente sulle strutture dello stato e sui suoi orientamenti politici, e non è casuale che la sua preparazione sia stata sottratta a Parri, così come che gli sia stato negato di indire le prime elezioni libere a suffragio universale, dal cui risultato egli sarebbe uscito rafforzato. Il compromesso stipulato da Togliatti con le forze conservatrici non poteva consentire soluzioni coerenti a quelle cui Parri mirava: non la costituente nel 1945, ma soltanto l'anno dopo, a decantazione avvenuta dell'animosità resistenziale; non, subito, un organo elettivo con compiti di elaborazione della linea politica, ma soltanto la consulta, organo privo di rappresentatività e incapace di alterare gli equilibri istituiti fra i partiti; non una rapida decisione a proposito di monarchia o repubblica affidata alla prima assemblea elettiva, ma un referendum istituzionale rinviato e dall'esito incerto; non una costituente fornita delle competenze necessarie per legiferare, ma incaricata di elaborare in tempi lunghi una complessa costituzione; non una costituzione con chiare norme di abrogazione delle leggi con essa incompatibili, ma un testo destinato a essere affiancato dalla legislazione fascista che di fatto lo avrebbe reso inoperante; non leggi di attuazione della nuova carta costituzionale, ma una sua attuazione effettiva affidata alla buona volontà di maggioranze future di imprevedibile orientamento.
Formalmente la crisi del governo Parri fu determinata dal ritiro degli esponenti liberali che ne facevano parte, a conclusione di un'opposizione serrata che il loro partito gli aveva mosso per quasi tutta la sua durata, contestandone le scelte riformatrici e accusandolo di voler artatamente conservare nel paese poteri illegali rispetto a quelli tradizionali (si trattava dei prefetti e dei questori "politici", degli organi giudicanti nei processi contro i responsabili di crimini fascisti, anch'essi nominati dal Comitato di liberazione nazionale, di estensione alle realtà locali e aziendali di aggregazioni di tipo ciellenistico, dell'epurazione dei compromessi col cessato regime inseriti nella pubblica amministrazione e nelle forze armate). Nella realtà, il ritiro liberale fu l'occasione, non perduta né dai comunisti né dai democratico-cristiani, per sbarazzarsi di Parri, giacché i democristiani spalleggiarono i liberali, e i comunisti si rifiutarono di prendere in considerazione la possibilità di dar vita a un governo del quale i liberali non facessero parte e in cui le sinistre assumessero un ruolo di punta, così come evitarono di difendere Parri e la sua linea.
Avendo presente il quadro politico che ho tentato di riassumere si possono comprendere le ragioni di Levi nel presentare il congedo di Parri come un fatto cruciale della nostra storia: se infatti la crisi era stata provocata dal segretario liberale, Leone Cattani, che Levi descrive presente alla conferenza stampa, "a un estremo del tavolo (...) un po' isolato, come un tredicesimo apostolo", chi doveva trarne i vantaggi era De Gasperi, e con lui il suo partito, per insediarsi stabilmente alla guida del paese come espressione delle correnti conservatrici (…)
Va poi segnalato un articolo autobiografico apparso nell' "Astrolabio" del gennaio 1972 e ristampato nel volume degli Scritti 1915-1975 di Ferruccio Parri (Feltrinelli, 1976), che si chiude nel ricordo dell'episodio cui si riferiscono le pagine de L'Orologio: "discorrendo delle cose fatte e rimaste da fare, mi pareva di veder avanzare dal fondo della sala sprezzante e ghignante l'immenso esercito parafascista, l'obeso ventre della storia d'Italia, che aveva vinto, mi aveva vinto. E dissi che moderate politiche si potevano accettare, ma una sola doveva essere intransigentemente respinta, quella che apriva la porta al fascismo. Avevo l'amaro in bocca".

Linea d’ombra, n.45 gennaio 1990

Scoperte. L’Ennegieffe (NGF) e Rita Levi-Montalcini (Gemma Calamandrei)

Rita Levi-Montalcini
Nel dicembre 1951, davanti al selezionatissimo uditorio della New York Academy of Sciences, Rita Levi-Montalcini — allora alla Washington University di St. Louis, dove lavorava nel laboratorio di Viktor Hamburger — sostenne una idea che andava contro tutti i dogmi universalmente accettati dalla embriologia e dellaneurologia classica alla metà del secolo. La scienziata italiana prospettò infatti per la prima volta l'ipotesi che i processi di crescita e di differenziamento delle cellule nervose non dipendessero solo dal programma genico, ma fossero in larga parte controllati da fattori diffusibili rilasciati da altre cellule.
Rita Levi-Montalcini era arrivata a tale originale conclusione riflettendo sui risultati ottenuti dall'embriologo americano Bueker, innestando un tumore di topo — il sarcoma S180 — in un embrione di pollo: fibre nervose emergevano dai gangli spinali sensitivi dell'embrione e innervavano la massa tumorale. Dalla intuizione della scienziata italiana che questi risultati significassero qualcosa di più che la semplice riprova di un effetto già noto agli embriologi sperimentali, ebbe inizio un percorso non sempre facile, ma spesso costellato di grandi entusiasmi, che portò alla scoperta del Nerve Growth Factor (NGF, fattore di crescita nervosa) e alla caratterizzazione delle sue importanti proprietà biologiche.
È Rita Levi-Montalcini stessa a raccontarci questo percorso in un breve e scorrevole saggio (NGF: apertura di una nuova frontiera nella neurobiologia, curato da Vito Bemieri, Theoria). La storia della scoperta di questa molecola proteica, che può trasformare spettacolarmente una cellula nervosa indifferenziata in un neurone maturo, è un esempio paradigmatico di come talvolta, nella storia della scienza, la portata di un risultato scientifico venga compresa appieno solo a decenni dalla sua scoperta.
Le idee di Rita Levi-Montalcini vennero infatti accolte allora, a detta della stessa autrice, "con perplessità e scarso interesse" dalla comunità scientifica statunitense. Ma nell'inverno 1953, i risultati di un semplice ed elegante saggio biologico da lei stessa ideato danno ragione a Rita Levi-Montalcini: viene infatti isolata una molecola proteica prodotta dal tumore di topo, in grado di stimolare, attorno ad un ganglio nervoso embrionale, la crescita di una densa raggiera di fibre nervose. In quel momento entusiasmante, Rita Levi-Montalcini ha accanto Stanley Cohen, un giovane biochimico, che condividerà con lei, nel 1986, il premio Nobel per la fisiologia e la medicina.
Da quel giorno è stata fatta molta strada. La scoperta di una fonte insospettata di NGF nelle ghiandole sottomandibolari del topo maschio adulto consentì di estrarne facilmente grandi quantità, e quindi di caratterizzare le proprietà biologiche di questa molecola, e di dimostrarne il ruolo chiave nello sviluppo delle cellule del sistema nervoso periferico. Con una serie di eleganti esperimenti sia in vitro che in vivo, descritti nel testo con un linguaggio chiaro e accessibile, è stato possibile osservare come il NGF guidi nell'embrione di ratto il percorso delle fibre nervose in accrescimento lungo il proprio gradiente di concentrazione — facendo sì che una data fibra nervosa raggiunga proprio il territorio o l'organo che dovrà innervare —, determini il programma differenziativo di specifiche linee cellulari embrionali, decidendo cioè che cosa una cellula sarà "da grande", e mantenga il tono funzionale del neurone adulto, fornendogli un sostegno trofico per tutta la vita.
Ma il merito più grande di questo saggio, è quello di riuscire a dare l'idea di quanto poco linearmente proceda talvolta la conoscenza scientifica. Per un lungo periodo di tempo sembra che si sia scoperto davvero "tutto" su un determinato fenomeno biologico. Poi, improvvisamente, un risultato inaspettato riapre i giochi, e risveglia l'interesse dei ricercatori su un problema che sembrava ormai chiarito: a questo punto, può verificarsi una vera e propria fiori¬tura di studi sull'argomento, che consentendo¬ne la lettura da diverse angolazioni, sovvertono edifici teorici fino ad allora estremamente con¬vincenti, o aggiungono l'elemento che manca¬va per poter inquadrare il dato in una diversa prospettiva. Ed è un po' quello che è accaduto con la proteina NGF scoperta da Rita Levi-Montalcini.
Fino alla fine degli anni Settanta, infatti, i risultati delle ricerche sembravano confermare che la funzione del NGF fosse quella, pur determinante, di esplicare una funzione trofica e differenziativa su cellule del sistema nervoso periferico. Ma di recente un nuovo ed eccitante capitolo si è aperto nella storia del NGF con la scoperta che questa molecola esercita un'azione simile a quella svolta su cellule del sistema nervoso periferico su alcuni tipi cellulari apparentemente molto diversi tra loro, anche per origine embriologica: bersagli dell'azione trofica del NGF sono infatti sia neuroni del sistema nervoso centrale, con molta probabilità implicati in funzioni cognitive e mnemoniche, che cellule che svolgono una funzione essenziale nelle difese immunitarie, e cioè i mastociti e i linfociti T e B. E infine, proprio grazie al lavoro dell'equipe di collaboratori di Rita Levi-Montalcini ha cominciato a chiarirsi il mistero rappresentato dalla presenza di quantità elevatissime di NGF nelle ghiandole salivari del topo maschio adulto. Dati recenti indicano infatti che questo NGF viene rilasciato nel torrente circolatorio in topi resi sperimentalmente aggressivi, e che tale rilascio stimola la sintesi di ormoni deputati a proteggere l'organismo dagli effetti delle esperienze stressanti.
Tutti questi elementi, hanno condotto Rita Levi-Montalcini a formulare una nuova teoria, che grazie a questo testo viene proposta al pubblico italiano quasi in contemporanea rispetto alla platea scientifica internazionale. Una teoria che apre grandi sviluppi a tutte le neuroscienze, e che consente finalmente una lettura integrata dell'azione dei tre grandi sistemi che assicurano l'equilibrio omeostatico di un organismo vivente: il sistema nervoso, il sistema endocrino, e il sistema immunitario. Per fare un esempio, in una situazione di emergenza il NGF consentirebbe l'azione integrata di questi tre sistemi, attivando le difese immunitarie, stimolando la produzione di ormoni "anti-stress" da parte delle ghiandole endocrine, e addirittura sostenendo con un'azione trofica aree cerebrali coinvolte nel controllo di alcuni comportamenti, quali quelli di conflitto. Una teoria che ha bisogno di ulteriori conferme, ma che ha il merito di stabilire una nuova, più avanzata frontiera per l'esplorazione di quell'universo affascinante che è il cervello.

“Linea d’ombra”, n.42, ottobre 1989

Stefania Sandrelli secondo Gino Paoli


Stefania Sandrelli in "Il federale", un film di Luciano Salce
E' una testarda, è un animale libero, non inquadrabile, quello che mi attrae di Stefania è l'assoluta mancanza di cattiveria.

In Aldo Grazia Dalla passione alla complicità, in "il manifesto", 21 agosto 1990

Se n'è andato... Una poesia di Nikos Chuliaràs


La luce del giorno, foto di Salvatore Lo Leggio
Se n'è andato un altro giorno,
un sabato, verso l'inizio del vicolo che conduce alla mia mente,
se n'è andato alla luce di un altro giorno,
privo di allegria, indifferente.
Né basterà la vita per riportarlo indietro.

“Linea d’ombra, n.42, ottobre 1989

Brecht in ballata (Italo A. Chiusano)

Chiusano ha qualche pregiudizio ideologico (in sostanza è un anticomunista), perciò fa ricorso alla “teorica del nonostante”, quella appunto per cui “Brecht è un grande, nonostante..”. Ciò nonostante la sua caratterizzazione della poesia brechtiana come poesia indiscutibilmente moderna, ma senza tracce d’ermetismo mi appare assolutamente esatta. (S.L.L.)


Cesare Cases lo dice assai bene, con ironia e una punta di amarezza, nella sua prefazione a questo volume (Bertolt Brecht, Poesie inedite sull' amore, poesie politiche e varie, Garzanti, traduzione di Gabriele Mucchi). Oggi Brecht (1898-1956), dopo decenni di culto quasi idolatrico, non solo sembra passato di moda, ma addirittura lo si snobba; e Cases mette in rapporto questo fenomeno con il generale snobismo nei confronti della tradizione socialista. Una formulazione che a me pare troppo ampia. Se mai, è vero che c' è un diffuso rigetto di quell'integralismo leninista-stalinista di cui Brecht fu, a suo tempo, un abbastanza convinto e spesso anche poetico assertore.
Venuto meno il modello sovietico, con annessi e connessi anche molto lontani dalla Russia, il suo aedo Brecht ha dovuto subire infastiditi e, più di una volta, irosi rifiuti. (E' un po' il caso, in area cattolica, di un poeta indiscutibilmente grande come Paul Claudel. Finito il cattolicesimo imperiale, trionfalistico, a fondo oro, che in lui trovava il suo più rutilante interprete, tutto Claudel venne lasciato cadere). Prendendo in mano questo volume, anch'io mi sono chiesto se ci avrebbe ancora detto qualcosa, quest'uomo che tanto e così intensamente avevamo letto in passato. Non so che cosa direbbero altri, meno che mai che cosa potrebbe pensare un giovane. Per quel che mi riguarda, Brecht mi appare ancora pieno di fuoco, e di ghiaccio che realmente arde e realmente brucia, ricchissimo di quelle trovate che sono soprattutto lampi di genio, scaltrito tecnicamente come pochi artefici del verso, malizioso e perfido quanto basta per riuscire quasi insopportabile, incredibilmente romantico (tra le pieghe) come solo sa esserlo un tedesco, divertente e spiritoso come pochi tedeschi furono mai; a tratti quasi suo malgrado nobile e fraterno come si conviene a un uomo che ha scoperto la propria corresponsabilità per tutta una classe sociale (se parlare di umanità, nel suo caso, può sapere troppo di retorica).
Abbiamo incontrato di nuovo vecchi amori quasi di gioventù, e ci hanno colpito. Non come la prima volta, ma in maniera più ricca e diversa, quasi rileggessimo oggi Pinocchio o l'Odissea. Chi non le ricorda, le rilegga qui, certe poesie come Ai posteri, Ballata di Marie Sanders, Parabola del Buddha, Uomini segnati, Francois Villon, La ragazza annegata, La primavera, Ricordo di Marie A.; ma anche un pezzo come Elogio del comunismo (capolavoro di efficacia pubblicitaria, indipendentemente dalla bontà del prodotto reclamizzato). Siano o non siano accolti in molte antologie, anche scolastiche: si può negare che versi come questi, e tanti altri qui non tradotti, sono degli evergreens della lirica moderna? Tra le altre cose resta sempre valido lo stupore di un uomo che continuo a rimpiangere, come Ruggero Jacobbi. E' incredibile, mi diceva, non esiste poesia moderna che non sia, per mille buoni motivi, un poco o molto ermetica. Quella di Brecht è indiscutibilmente poesia, è indiscutibilmente moderna: ma ermetica non lo è affatto.
Ma il discorso, oggi, può estendersi. Per gli italiani, questo volume rivela infatti tutto un lato inedito di Brecht. Gli stessi tedeschi dovettero attendere il 1982 per far conoscenza con questa faccia oscura della sua luna. Si è parlato molto della componente baalica di Brecht, desumendo l' aggettivo dal titolo del suo primo dramma, Baal, scritto nel 1918, rappresentato nel 1922: il larvato autoritratto dello stesso autore nelle vesti si vorrebbe quasi dire nella pelliccia di un uomo crassamente sensuale, egoista, anarchico, sfrenato, che vive e gode e uccide come un bestione primitivo. In queste poesie erotiche Baal si sfoga in tutti i registri e lungo tutte le età della vita di Brecht, da prima dei vent'anni sino alla morte. C'è, in più di un'occasione, anche il Brecht che ama col cuore, nel ricordo, nella lontananza, che conosce l' amarezza, il vagheggiamento, il rimpianto; e in alcune occasioni ne nascono versi mirabili per intimità di tocco. Ma prevale di gran lunga il Brecht del godimento carnale, dei giochi amorosi descritti con una crudezza anche tecnica, che solo lo stupendo mestiere letterario, il nessun indugio voluttuoso tiene al di qua della pornografia. E' un continuo parlar di se stesso, delle sue voglie, delle sue esperienze e predilezioni a letto o sui prati. Ma spesso parla anche la donna, o l'autore si mette nei suoi panni: e allora si sente, oltre che quella del lirico, la maestria del drammaturgo e del narratore, la sua facoltà di scolpire ritratti attraverso il parlato, e si pensa a una Celestina, a un Carlo Porta. Esemplare di lusso, in questo senso, i Consigli di una puttana. In altri casi la materia erotica è lavorata al cesello, con raffinatezze parche (e un po' porche) da autore dell'Antologia Palatina. Si veda Buone abitudini, Il filo strappato, Si raccomanda una lunga e ampia sottana. Oppure, grandissimo autore di ballate quale Brecht sempre fu, anche l'erotismo si configura in stanze di racconto, con quel fare sempre un po' medioevale, silografico, dureriano, che hanno i tedeschi quando ballateggiano: e cito solo La leggenda della prostituta Evelyn Roe. Si è detto che Brecht ha il vizio o la forza del didaskalos (che altri definiscono più sfavorevolmente maestro elementare). Ebbene, egli è un po' didaskalos anche in questa licenziosa materia, e con risultati umoristici.
Così si è detto che Brecht non può (e credo nemmeno volesse) affrancarsi interamente dalla tradizione e sensibilità romantica. Infatti essa è ben presente anche qui, ma parodiata, sbeffeggiata, straniata. Parlerei, molto spesso, di un romanticismo canaille. Perché è questa, assai più che la scoperta carnalità, la caratteristica che più colpisce chi legge: il cinismo, il maschilismo da sultano tra le odalische, da vecchio latifondista tra le mondine, il suo tremendo sorriso beffardo quando parla della donna, del suo corpo, delle sue voglie. Si dimentica, in quei versi, che nelle stesse ore Brecht credeva in una grande rivoluzione che desse dignità a tutti gli esseri umani; e ci si chiede se il Baal senza freno e senza rispetto sia mai morto del tutto, in lui. Impossibile congedarsi da questo libro senza una parola di ammirazione per il lavoro del traduttore, Gabriele Mucchi. Per fortuna Cases mette assai bene in rilievo, nella prefazione, i meriti di questo anziano frequentatore di Gongora e di Baudelaire, dedito professionalmente alla pittura. Su qualche soluzione si può dissentire; alcune espressioni sono state senz'altro fraintese. Ma nel complesso Mucchi ha lavorato in maniera egregia, sfoderando continuamente trovate, invenzioni, vittoriosi aggiramenti timbrici e ritmici che danno il modo di accostare Brecht poeta senza perderne più dello stretto indispensabile.

“la Repubblica”, 24 aprile 1987

Su Sebastiano Timpanaro (di Mario Lunetta)

Nel sito del sindacato scrittori (“Le reti di Dedalus”) una rievocazione quanto mai opportuna di una figura atipica nella intellettualità italiana, il filosofo-filologo, materialista integrale e coerente, ingiustamente dimenticato. Ne riprendo un ampio stralcio, rilevando una piccola svista: Timpanaro non fu vicino a Potere Operaio (PotOp), ma aderì (per poco tempo) al Pdup (Partito di unità proletaria per il comunismo). Fu, successivamente, tra i collaboratori di “Praxis”, la rivista fondata da Mario Mineo, ove scrisse parole di fiera rampogna contro la cultura dell’operaismo e gli ideologhi dell’ex Potere Operaio, i Tronti e i Negri. (S.L.L.)

Turpe è tacere, e lasciar parlare i barbari.
                                                                                                                  Euripide

Questo è un paese che anche in fatto di cultura mantiene una memoria pervicacemente corta. I caratteri prevalenti del suo dna collettivo sono l’ignoranza e l’indifferenza: niente da stupirsi, quindi, se il sistema dei media continua a bruciare sull’istante un gran numero di personalità illustri (poeti, artisti, filosofi, scienziati) man mano che scompaiono, per poi subito dopo lasciarle marcire negli scantinati di questa memoria priva di sé.
Tutto ciò significa una diffusa mancanza di passione e di capacità progettuali. Si blatera tanto di cambiamento, e tutto continua a travestirsi con lo stesso abito sdrucito e démodé. Il fatto è che in Italia (storia antica) le attività culturali non sono mai state concepite e vissute dalle cosiddette classi dirigenti come bene comune da difendere e incrementare per la crescita di una coscienza critica che è sempre stata carente. (…)
Mi frullavano in mente certe riflessioni non certo peregrine rileggendo giorni fa alcuni saggi a dir poco illuminanti e prospettici di Sebastiano Timpanaro, la cui lezione profonda, appunto perché profonda e quindi capace di mettere radicalmente in discussione tutta una serie di ossificate pigrizie e cecità del senso comune del nostro establishment politico e intellettuale, sempre così intriso di umori reazionari, è stata ostinatamente avversata proprio dalla sinistra, cioè anche dalla parte politica che – smettendola finalmente di indugiare con mille cautele (cioè con mille alibi) a metà guado del suo Rubicone – avrebbe dovuto recepirla e praticarla con fermo vigore dialettico. È peraltro da dire che la nostra sinistra ufficiale non ha offerto nella fattispecie un’esagerata prova di incoerenza, dal momento che appunto da questa stessa parte l’opera del grande studioso era stata rimossa fin dai primi anni Sessanta del secolo scorso (quelli di riviste come “Quaderni rossi”, “Classe operaia” e “Quaderni Piacentini”, presso la quale ultima Timpanaro era molto autorevolmente di casa), proprio a  motivo del suo rigoroso  materialismo.
In un marxismo inumidito da cospicui liquidi idealistici, le proposte timpanariane suonavano come quelle di un eretico pericoloso. Non era quindi precisamente consigliabile, cioè a dire “politicamente” igienico, accettare il dibattito fuori dal ring con un pensatore che scriveva senza ambagi: “L’unica caratteristica, forse, comune a tutto l’odierno marxismo occidentale (con rarissime eccezioni) è la preoccupazione di difendersi dall’accusa di materialismo. Marxisti gramsciani e togliattiani, marxisti hegeliano-esistenzialisti, marxisti neopositivisteggianti, freudianeggianti, strutturaleggianti, pur nei profondi dissensi che li dividono, sono concordi nel respingere ogni sospetto di collusione col materialismo “volgare” o “meccanico”; e lo fanno con tale zelo, da buttar via, insieme alla volgarità o meccanicità, il materialismo tout court” (“Quaderni Piacentini”, settembre 1966; poi in Sul materialismo, Nistri Lischi, Pisa 1970). 
E ancora, con estrema durezza sarcastica, ecco nel 1982, in una linea di perfetta coerenza con la sua ottica critico-letteraria-filosofica, un pamphlet della taglienza di Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, che taglia corto con “compromessi” di tipo (culturalmente) filomanzoniano e (politicamente) filogiolittiano, per pretendere al contrario una vera “rifondazione” del pensare e dell’agire, della teoria e della prassi in chiave materialistica, all’interno del progressismo di sinistra. Ma già dalla metà degli anni Sessanta (“Quaderni Piacentini” 1966; poi ne Il Verde e il Rosso. Scritti militanti 1966-2000, Odradek, Roma 2001) si legge: “Il marxista si mette in una posizione scientificamente e politicamente debole se, dopo aver respinto gli argomenti idealistici tendenti a dimostrare che l’unica realtà è lo spirito e che i fatti culturali non hanno alcuna dipendenza dalla struttura economica, prende poi a prestito i medesimi argomenti per negare la dipendenza dell’uomo dalla natura”. 
Appare così assolutamente convincente quanto Luigi Cortesi argomenta in merito nella lucida introduzione a Il Verde e il Rosso di cui sopra: “Le nevrosi, e soprattutto l’ossessione leopardiana della ‘infinita vanità del tutto’ lo divoravano, ma il filologo e filosofo insigne sapeva semplificarsi, e ragionava e s’arrabbiava come un compagno di base. Ma divenne un minoritario temuto (e quindi assai poco citato), perché la sua critica andava a rischiarare le condizioni in cui il marxismo veniva recepito in Italia, e a colpire il monopolio politico che il Pci aveva steso sull’interpretazione della linea Marx-Engels-Lenin e sulla propria discendenza da quella nostrana e claudicante, Labriola-Gramsci-Togliatti”.   
Nell’intervista che rilasciò nel n. 2-3 di “Marxismo Oggi” (1994), Timpanaro afferma, ribadendo l’attualità nient’affatto opacizzata della sua definizione del profilo filosofico di Leopardi come quello di un materialista agonista: “io credo che il materialismo francese del Settecento e lo sviluppo originale che ne ha dato Giacomo Leopardi, ci dicano qualcosa di più del marxismo. Ma un‘idea marxista fondamentale, né tramontata né destinata a tramontare, è la critica del nesso tra l’eguaglianza giuridica padrone-lavoratore e la diseguaglianza sostanziale che proprio di quella pseudo-eguaglianza ha bisogno (il lavoratore dev’essere ‘libero di vendersi’ in regime capitalista, come non era lo schiavo né il servo feudale), e quindi la critica di ogni sistema liberal-democratico che non proceda verso l’instaurazione della proprietà collettiva dei mezzi di produzione e verso rapporti il più possibile eguali di status economico e di potere, cioè verso il comunismo.  Credo necessario, quindi, dar valore ai numerosi spunti tendenzialmente ‘anarchici’ che si trovano già in Marx (a proposito della Comune di Parigi), in Engels, in Stato e rivoluzione di Lenin, mentre non sono mai riuscito a consentire del tutto con la critica del Programma di Gotha”.
Più immediatamente legato alla cronaca socio-politica prossima ai nostri anni, il cui decorso s’è avvitato in un degrado sempre più “autoritario”, è il passo in cui – in modi assai problematici – si afferma tra l’altro: “Il passaggio al comunismo non può compiersi senza una fase rivoluzionaria (e forse più d’una), perché nessuna classe o casta privilegiata ha mai rinunciato pacificamente alla sua posizione di privilegio, nemmeno quando la sua funzione storica era ormai esaurita. Che il comunismo sia irraggiungibile da parte dell’umanità, può darsi: seri dubbi sono, oggi più che mai, giustificati. Ma di ciò il capitalismo e i suoi servitori non hanno troppo da rallegrarsi, perché l’impossibilità del comunismo significa una crescente ‘invivibilità’ del pianeta dal punto di vista fisico (inquinamento, divario sempre maggiore tra zone di sviluppo e di sottosviluppo) e sociale (continuo stato di guerra e di disordine nella maggior parte del mondo, conflitti razziali e religiosi), e, a scadenza non troppo larga, fine della specie umana (molto prima che essa finisca per catastrofi ‘cosmiche’): fine dalla quale non si salveranno i padroni del mondo e i santoni della politologia.
Vorrei anche notare che il capitalismo odierno, ora che ha sconfitto il ‘socialismo reale’, si rivela, paradossalmente, sempre più incapace di governare e governarsi. Ha rinunciato a quei palliativi (‘stato assistenziale’, ‘capitalismo democratico’ ecc.) di cui tanto si era vantato, è ritornato alle sue brutali origini ottocentesche: disoccupazione crescente, ’stangate’ contro  i più deboli che nemmeno servono a riassestare il sistema, neocolonialismo ipocrita con la benedizione dell’ONU, fortissima riduzione della stessa insufficiente democrazia formale: basti pensare, in Italia (ma non solo in Italia) alla vergognosa legge elettorale, a una magistratura sempre più ‘di parte’, a Partiti tutti di destra (con tutti i gravissimi difetti del PCI, quale caduta ha rappresentato il PDS! E le speranze che io nutrivo in Rifondazione comunista sono assai indebolite da quando, in questo partito, il timore dell’isolamento ha troppo prevalso sull’esigenza di mantenersi radicalmente anticapitalista), al ristupidimento dei cervelli attuato dai mass-media (e su questo punto la disonestà di moltissimi intellettuali rifulge). Per ora il popolo, dopo il fatale errore compiuto nel referendum del 18 aprile ’93, sopporta. Se un giorno non sopportasse più, la classe dominante sarebbe pronta a metter su, con un colpo di Stato, un regime totalmente autoritario, vantandosi di ‘salvare la democrazia’”.
Nato a Parma nel 1923, allievo di quel filologo leggendario (anche per la sua eccentricità) che fu Giorgio Pasquali, Timpanaro entra in filologia con una sorta di passione “nietzschiana”, non solo da attrezzatissimo specialista, ma da indagatore mai neutrale del senso sociale e politico delle parole e delle cose. Timido fino all’inibizione di parlare in pubblico, e insieme orgogliosissimo della propria dignità di uomo prima che di intellettuale di gran rango, egli non ha mai accettato di mettersi pazientemente in lista di attesa per un qualche incarico accademico, per una qualche cattedra, per un qualsiasi allettante cadreghino, scegliendo – paradosso a suo modo “eroico” che lo accomuna anche sul piano dell’intransigenza extra cathedram all’amatissimo Leopardi – di lavorare a Firenze come correttore di bozze e redattore editoriale. Ma da quella  nicchia silenziosa la sua fatica intellettuale, cui si intrecciava la militanza politica (Sinistra PSI, poi PSIUP, quindi vicino a Potere Operaio ma su posizioni leniniste-trozkiste sempre criticamente elaborate), non ha mai cessato di produrre impulsi forti di dibattito, di stimolo e di proposta.
Gli specifici studi di filologia classica (Contributi di filologia e di storia della lingua latina, 1978; Per la storia della filologia virgiliana antica, 1986; e in particolare, La genesi del metodo del Lachmann, 1974 – sintesi che concorre a rifondare una metodologia “altra” della filologia scientifica) lo pongono in prima fila in quell’ambito disciplinare: secondo una decisa inclinazione antiaccademica, e in secca controtendenza rispetto al “purismo” della dominante cultura filologica.
Ma è necessario sottolineare come – senza mai cedere di un’unghia al rigore strenuo di uno specialismo di altissima scuola – Timpanaro abbia costantemente lavorato a connettere i suoi orizzonti disciplinari con l’odierna società e l’odierna politica, al di là di ogni tentazione di contaminazioni semplificatorie, di ogni patriottismo ideologico, quindi di  ogni facile confusione – il tutto sempre sotto la luce di una lente materialistica di estrema nettezza e di estrema finezza.
Dall’antico, sempre rivisitato con occhio e attenzione di grande complessità, l’approccio a Leopardi (anche lui straordinario filologo “eccentrico”) è praticamente fatale. I nessi tra classicità e modernità sono indagati e compresi dentro le loro pieghe, fratture e continuità stravolte, non in puri e semplici termini di cronologia e di storicismo giustificazionistico. È, per dirla con Montale, “l’anello che non tiene” ciò che interessa analizzare allo studioso: cosicché Leopardi diventa, per via di profonde consonanze, il suo autore. Del Recanatese cura insieme a Giuseppe Pacella gli Scritti filologici 1817-1818 (1969), e su di lui spende magistralmente alcuni interventi critici che, insieme a quelli di Luporini e di Binni, mettono a rivoluzione l’assolutizzante “sistema” di banalità della dominante interpretazione dell’autore della Ginestra in cui emettono impunemente i loro gorgheggi tanti nipotini di Croce. Timpanaro, consapevolmente isolato nella cultura italiana di quegli anni, non esita fin dal 1965, nella ricchissima introduzione a un libro come Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (Nistri Lischi, Pisa 1965), non più in termini episodici ma organici, a denunciarne l’approssimazione e la superficialità conformistico-opportunistica… (…)
Crocianamente, il giochino di poesia-non poesia ritaglia fino alla prima metà del Novecento un Leopardi dimidiato e neutralizzato, ma lo studioso mette lucidamente in guardia dall’assumere in modi generici e indiscriminati il ”progressismo” leopardiano. Tra Hobbes e Rousseau, tra illuminismo e romanticismo, dentro la delusione storica sofferta per la fine dell’esperienza rivoluzionaria e napoleonica, il suo più vero profilo è quello di un “sovversivo” del pensiero, che marca una netta distinzione tra il suo personale “pessimismo materialistico” e i “pessimismi romantico-esistenzialistici” di cui è ricco l’Ottocento europeo. Certo, da qui a ipotizzare un Leopardi “precursore del marxismo” e dal vedere con una miope fuga in avanti nella sua ultima fase “il presentimento del socialismo” (Salvatorelli) ce ne corre. E sorprende – ma forse neppure troppo – come una boutade non priva di ruffiana perfidia ideologica l’azzardo di Carducci (Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. Leopardi): “Diciamocelo in un orecchio: s’accostava al socialismo”.
Altri sono in realtà i connotati del Recanatese: non propriamente politici ma filosofici. Un pensiero dello Zibaldone (9 settembre 1821) dichiara: “Tutto à materiale nella nostra mente e facoltà”. La nozione di spirito, all’interno di una visione radicalmente materialistica non antropocentrica per cui l’uomo è solo “una menomissima parte dell’universo” e la natura segue un suo processo di produzione-distruzione assolutamente indifferente a qualsiasi teleologia umana, si rivela semplicemente illusoria.
A partire dal 1823-24 si realizza compiutamente la scelta decisiva di Giacomo: rifiuto del ricorso a Dio, al mistero e alla trascendenza, e adesione a un ateismo e a un materialismo sempre più conseguenti: “è qui, in effetti” scrive Timpanaro “che si misura tutta la grandezza umana e intellettuale del Leopardi, in confronto ai tanti ‘spiriti inquieti’ del suo e del nostro secolo, per i quali il pessimismo è stato solo l’anticamera della conversione  religiosa. La constatazione della fragilità dell’uomo di fronte alla natura non porta il Leopardi a fabbricare un mitico ‘regno dello Spirito’, un altro mondo (comunque inteso) in cui l’uomo prenderebbe la sua rivincita. Egli porta avanti, invece, un’analisi del rapporto uomo-natura in termini totalmente demistificati”. E ancora: “Non contrasta con un materialismo conseguente la constatazione che l’uomo ha una costituzione fisico-psichica tale da procurargli molto più sofferenza che godimento. L’infelicità umana di cui parla il Leopardi non è il mal du siècle romantico né una fumosa angoscia esistenziale: è (e il Leopardi se ne è reso conto man mano che diventava materialista) anzitutto un’infelicità fisica, basata su dati ben concreti: malattie, vecchiezza, fugacità del piacere. Il Leopardi naturalmente sa bene che dalla base edonistica si sviluppano nell’uomo esigenze di ordine superiore (sentimentale, morale, culturale, ecc.). Ma anche su questo piano più elevato ha ragion d’essere il pessimismo, poiché i valori elaborati dalla civiltà umana sono estremamente caduchi, e la natura li annienta non meno di quanto annienti gli organismi biologici. Il Leopardi è critico spietato di tutti i miti dell’immortalità delle opere. La morte stessa dell’individuo, che sul piano meramente edonistico-individuale si può considerare, ed è considerata dal Leopardi, come un non-male, un oggetto di timore infondato (di un timore, tuttavia, difficile a eliminarsi, e che dunque contribuisce all’infelicità della maggioranza degli uomini), ridiviene un male al livello dei rapporti affettivi tra le persone, per la lacerazione dell’‘amante compagnia’ che essa produce”.
Com’è noto, i Paralipomeni, ove è negata qualsiasi differenza qualitativa tra uomo (presuntuosamente dotato di anima) e animali (miseramente dotati di puro istinto), e in cui è rivendicata la superiorità del Settecento empirista e antimetafisico sull’Ottocento cristianeggiante e mistico, costituiscono la punta estrema e più affilata del progressismo ideologico di Leopardi. La Ginestra, come un altissimo testamento “rivoluzionario”, ne è il corrispettivo poetico. E, argomenta Timpanaro, a questo punto e contro ogni “negazione ideale” delle contraddizioni naturali e storiche in linea astrattamente “dialettica”, si può parlare in senso schiettamente materialistico di un “valore permanente del pessimismo leopardiano”. Sotto questo aspetto, allora, “la polemica leopardiana contro gli apologeti della divinità o della natura presenta una reale analogia con la polemica marxista contro la pretesa degli hegeliani (e di tutta una millenaria tradizione filosofica) di sopprimere l’alienazione umana ‘nel pensiero’ e non prima di tutto, ‘nella realtà’: di giustificare il mondo e non di cambiarlo”.      
Leopardi, così, si pone recisamente contro ogni processo di sublimazione. Sta a provarlo tra l’altro la sua stessa parabola linguistica che lo porta dal lirismo distanziato (e antisublime) degli Idilli al dettato sarcasticamente prosastico della Ginestra, della Palinodia e dei Paralipomeni, nel solco di una scrittura-pensiero intollerabile a tutti i moderati coevi (“Intolleranda / Parve e fu, la mia lingua alla beata / Prole mortal, se dir si dee mortale / L’uomo, o si può” si legge nella Palinodia al marchese Gino Capponi, leader degli intellettuali cattolici fiorentini raccolti intorno all’“Antologia” del Vieusseux.
La sua solitudine è quella di un senza patria, si potrebbe anche dire di un apolide intellettuale. Il suo essere privo di Dio lo danna a una sorta di “emigrazione interna”. (…)
Un tema ricorrente, e a suo modo centrale nella riflessione materialistica di Timpanaro, è ciò che egli chiama “elemento passivo dell’esperienza”. Lo studioso è ben conscio che questa convinzione implica “una posizione polemica verso gran parte della filosofia moderna, la quale si è sbizzarrita ed esaurita nell’apprestamento di ‘trappole gnoseologiche’ per catturare e addomesticare il dato esterno, per farne qualcosa che esista solo in funzione dell’attività del soggetto” (Sul materialismo, cit.).
Una filosofia che sia, anche nel senso più ampio e comprensivo, metodologia dell’agire umano, rischia sempre di eludere o sottovalutare ciò che nella condizione umana è passività, condizionamento esterno (ivi). Contro l’idealismo, che fin dall’estremo Ottocento ha condotto una lotta asperrima contro la scienza (specialmente, e non per caso, fisica e biologia), e in accordo con Leopardi, Timpanaro scrive: “I risultati della ricerca scientifica ci insegnano che l’uomo occupa un posto marginale nell’universo, che per lunghissimo tempo la vita non c’è stata sulla terra, e che il suo sorgere è dipeso da condizioni particolarissime, che il pensiero umano è condizionato da determinate strutture anatomico-fisiologiche, ed è offuscato o impedito da determinate alterazioni patologiche, e via dicendo. Ma consideriamo questi risultati come meri contenuti del nostro pensiero pensante e della nostra attività sperimentatrice e modificatrice della natura, sottolineiamo che essi non esistono al di fuori di questo nostro pensiero e di questa nostra attività, e il giuoco è fatto: l’operazione di escamotage della realtà esterna sarà riuscita, e non sul terreno di un antiquato umanesimo ostile alla scienza, ma invece con tutti i crismi della scientificità e della modernità”.
In breve: la strategia del moderno idealismo ha puntato sullo svincolamento assoluto dell’uomo dai condizionamenti materiali, riducendolo – a suo modo religiosamente – alla condizione di puro spirito; e, naturalmente, sul terreno della scienza, svalutando Darwin e incoronando Bergson. Ma in un errore contrario ed analogo cade la speculazione marxista quando sostiene che, dal momento che il ‘biologico’ ci si presenta sempre mediato dal ‘sociale’, il ‘biologico’ è nulla e il ‘sociale’ è tutto: classico espediente idealistico, argomenta Timpanaro. “In confronto al ritmo evolutivo della struttura economico-sociale (e dei fatti sovrastrutturali da essa determinati), la natura, ivi compreso l’uomo in quanto essere biologico, muta anch’essa, come ci ha insegnato l’evoluzionismo, ma con un ritmo immensamente più lento: ‘sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star’ dice il Leopardi. Se dunque studiamo un periodo anche molto lungo di storia umana avendo l’occhio alle trasformazioni della società, può essere legittimo trascurare il livello fisico-biologico, in quanto esso costituisce, relativamente a quel periodo, una costante (…) Ma se, facendoci forti di questo carattere di relativa immobilità (entro un certo periodo) della natura economico-sociale, noi volessimo concludere che essa non ha nessun potere condizionante sulla sovrastruttura o addirittura nessuna esistenza reale, commettemmo un tipico sofisma ‘storicistico’”.
Questo rapido, e quanto insufficiente excursus su quella che si potrebbe definire la circolarità aperta della ricerca di un grande protagonista-ombra rifiutato e rimosso dal nostro panorama intellettuale di secondo Novecento, intende mostrare l’indissolubile intreccio che in lui si è sempre realizzato a livelli di importanza assoluta tra filologia, politica, critica letteraria e filosofia. Se diversi sono stati gli ambiti della sua instancabile indagine, una è stata la passione e l’intelligenza che li ha connessi. In questo, naturalmente, non direi abbia concorso, ma sia stata piuttosto nucleo irradiante e timbro profondo l’energia della scrittura. Timpanaro non è mai stato uno stilista a caccia di eleganze più o meno eccentriche: è stato, al contrario, uno straordinario scrittore della funzionalità. Se la prosa, di Croce, così “ciceroniana” e distante dalla materia nella sua troppo celebrata “olimpicità”, è stata a lungo assunta come un inarrivabile modello, la prosa di Timpanaro, così piena di materia (e di idee materiali), costituisce, in un’odierna misura leopardiano/gramsciana, un formidabile contromodello e un’incrollabile sfida.

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