28.6.13

Michels, Pirrone e Barca. Quale partito, quale organizzazione (S.L.L.)

Fabrizio Barca
In una nota di fb del mio amico e compagno Gianfranco Pirrone, vedo ripresa l'analisi fatta un secolo fa da Roberto Michels della degenerazione del partito socialdemocratico tedesco. Egli pensa che essa sia perfettamente attinente per spiegare l'attuale approdo del vecchio PCI. E di Michels, a riprova, aggiunge una lunga citazione:

'Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia’; l’organizzazione e la seguente degenerazione oligarchica causano veri e propri mutamenti genetici nei partiti socialdemocratici: le masse non possono più interferire con le decisioni, i capi non sono più gli organi esecutivi della volontà della massa ma si emancipano completamente dalla massa stessa. Tanto più grande diventerà il partito, tanto di più si riempiranno le sue casse e la tendenza oligarchica si farà strada con maggior vigore; la base non potrà più controllare in alcun modo i vertici del partito.
Il regime democratico non è molto confacente ai bisogni tattici dei partiti politici: il partito politico, così come si deve organizzare per competere con gli altri partiti, è qualcosa di distante dalla comune idea di democrazia. Il principio della democrazia è ideale e legale (perché comunque si va a votare), ma non è reale in quanto, in realtà, la base non può scegliere nulla.
Votando non diventiamo compartecipi del potere: ‘la scienza ha il dovere di strappare questa benda dagli occhi delle masse’.’La formazione di regimi oligarchici nel seno dei sistemi democratici moderni è organica’. ‘L’organizzazione è la madre della signoria degli eletti sugli elettori’.
Pirrone ne deriva “l'importanza del tentativo di Barca di rendere l'organizzazione "precaria temporalmente", secondo l'intuizione che è anche di Grillo, e dividere il potere nel partito dal potere nelle istituzioni, mantenendo inoltre forte la pressione e l'innovazione culturale degli attivisti sull'organizzazione resa precaria”.

A primo acchito la riflessione mi era sembrata sensata, benché sentissi che qualcosa non funzionava. Ora credo di aver capito. E’ possibile che Michels avesse delle buone ragioni e che nel Pci vi fossero elementi di oligarchia, ma tutto ciò con l’attuale partito democratico non ha molto a che vedere. 
Il Pd è il partito della “disorganizzazione organizzata”, ove i circoli (le antiche sezioni) non hanno alcun potere, visto che la scelta dei candidati alle elezioni, della leadership, della stessa dirigenza è affidata alle “primarie”, è un partito ove gli organismi dirigenti convivono con una direzione leaderistica in un enorme confusione di ruoli, di conflitti d’attribuzione, di terre di nessuno, ove sindaci, assessori, presidenti di regione, gruppi consiliari, gruppi parlamentari, non rispondono a nessuna autorità esterna se non a termine del mandato. Ed è in questo vuoto di regole e di organizzazione che prosperano notabilati e oligarchie.
Nel Pci c’era una direzione paternalistica e ciò favoriva le cosiddette “cordate”, le burocrazie tendenzialmente oligarchiche; ma c’era un forte condizionamento da parte degli iscritti. Il dirigente, anche ad alto livello, doveva andare nelle sezioni a convincere la base e uno dei criteri di verifica della qualità dei dirigenti erano le “tessere”, che non venivano comprate a “pacchetti” dai dirigenti come nella Dc e come cominciò ad accadere tra i Ds, ma rinnovate anno per anno, una per una, pagate per una cifra non puramente simbolica, almeno per i lavoratori e i ceti popolari. Delle tessere si misurava non solo la “quantità”, ma anche la qualità e contavano di più le tessere agli operai, ai contadini, ai lavoratori dipendenti. Le stesse elezioni, anche attraverso il meccanismo delle preferenze, erano uno strumento per la verifica dei gruppi dirigenti. “Democrazia”? Forse non nel senso più pieno. I lavoratori, le persone senza averi e senza poteri organizzate nel partito non decidevano, ma certamente influivano.
Nel Pci la base “contava” anche nelle scelte generali. Una larga intesa con Berlusconi in un Pd organizzato come il Pci non sarebbe stata neanche tentata: la solidarietà nazionale e l’appoggio esterno al governo Andreotti richiese due o tre anni di discussione capillare e un congresso per convincere una base perplessa al “compromesso storico” e prepararla a governi come quello della “non sfiducia” del 1976. Neppure un leader con un grande carisma come Berlinguer sarebbe riuscito a imporre da un giorno all’altro una scelta del genere.
Nel Pci la lotta politica avveniva spesso in maniera cifrata, ma attraverso un dibattito serrato che coinvolgeva gli attivisti a tutti i livelli: la linea – in genere una mediazione – era sì imposta dall’alto, ma era condizionata dal sentire e pensare della base che doveva approvarla. Non era democrazia in senso forte, ma non era neanche guerra per bande ed alcuni accorgimenti, tra quelli suggeriti da Pirrone, venivano attuati per prassi e per statuto: il sindaco non era mai segretario di sezione, il segretario regionale non era mai presidente della Giunta regionale e una certa autonomia dei gruppi di rappresentanti nelle assemblee elettive era la regola. Questa sorta di doppio potere, garantito da regole certe, era uno strumento per il rinnovamento degli stessi gruppi dirigenti.
Io credo che la via di una riforma politica sia il ripristino di un’organizzazione governata da regole certe e la ripresa di una partecipazione di massa che può venire solo da un potere decisionale diffuso (oltre che una, preliminare, scelta classista). Per intenderci, le linee “politiche” (non tecniche) dei piani regolatori nei comuni rossi, al tempo del Pci, non le decideva – come adesso - il sindaco con l’assessore del ramo e il concorso delle lobby, con consigli comunali resi docili dalle stesse modalità di elezione; ma, una volta elaborate – per diventare scelta del partito - passavano i direttivi di sezione che, una volta convinti, dovevano orientare e convincere le assemblee di base. Non c’era il “decisionismo” caro a Craxi, Berlusconi e a tutti gli attuali politicanti? Le scelte erano frutto di “mediazione”? Sì, ma non credo che questo fosse di per sé un male, quando la mediazione si faceva non nel chiuso dei palazzi, ma in un partito con larga base e partecipazione popolare. E da quella politica quelli che stanno in basso guadagnarono molte cose, che poi – senza quell’organizzazione di partito – hanno perso.
Non ho capito cosa voglia esattamente dire Barca, con la sua frase. Se vuol dire che vanno evitate le ossificazioni burocratiche del vecchio Pci, che occorrono regole per garantire un ricambio sistematico nei gruppi dirigenti, meccanismi che favoriscano i controlli reciproci le iniziative autonomi degli iscritti attivisti sono assolutamente d’accordo. Se vuole perpetuare in forma diversa l’attuale “disorganizzazione” (cioè “cattiva organizzazione”), credo che si sbagli: è proprio nella confusione di ruoli che prosperano notabilati, leaderismi, gruppi di potere, guerre per bande.
Io credo che la prima cosa da fare per riformare la sinistra è fare un partito di sinistra, cioè un partito classista. Constatare cioè che, pur nella complessità e complessificazione, la società è tuttora divisa in classi sociali con interessi contrastanti; e decidere di separare dalle altre la parte di quelli che stanno sotto, sfruttati e subalterni, per organizzarla e rappresentarla. Questa è già di per sé una operazione democratica e antioligarchica: contro le oligarchie degli abbienti e dei potenti che sguazzano nell’interclassismo, utilizzandolo a loro pro.
Dopo, per fronteggiare la nascita e la crescita di oligarchie partitiche, di élites “proletarie”, vanno studiate modalità organizzative che tengano conto delle riflessioni di Michels e delle preoccupazioni di Pirrone. C’erano una volta gli “slogan” caratteristici dell’ingraismo (vedi Masse e potere): la piramide rovesciata con la base che sovrasta il vertice, l’organizzazione che è servizio non direzione, la progressiva riduzione (fino all’eliminazione) della distanza tra dirigenti e diretti. Penso che in forma aggiornata e più penetrante, utilizzando per quel che si può l’apporto della rete, possano essere i criteri di un nuovo tipo di organizzazione.

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