9.6.13

"Glaphyria". L'eleganza degli antichi Greci (Roberto Calasso)

Sin dall'origine, l'eleganza, in Grecia, si oppone alla sontuosità asiatica, che mescolava senza ritegno solennità e sovrabbondanza. Per i Greci, l'eleganza nacque dallo scavare, dalla cavità. Glaphyrós, «cavo», parola che Omero usava per le navi e le grotte, passò insensibilmente a designare quella politura, quel nitore, che sono della superficie scavata e levigata. O l'incisione asciutta del segno, o la superficie compatta e vibrante: questo era desiderabile, e in entrambi i casi da raggiungere togliendo, rastremando il materiale.

L'epidermide delle statue greche si distacca con tanta nettezza dal circostante perché è scavata nell'aria, mentre la statuaria mesopotamica o egizia si offre come cresciuta dal suolo. L'intensità che abita il verso di Omero è tale innanzitutto perché la parola si staglia sul vuoto dei molteplici dettagli che il poeta ci vieta, schegge divelte dalla parola. Poi la glaphyria, abbandonando il regno delle superfici palpabili, si aprì un passaggio verso l'interno, verso la nettezza della mente. E infine si annidò in una superficie priva di appigli, quando Giamblico parlò di glaphyria per definire «l'eleganza» delle dimostrazioni matematiche.

Le Nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 1988

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