31.5.13

Nichilismo (S.L.L.)

Mina

Aveva gli occhi giocherelloni, ma non era cinese. Doveva essere del Centro America, honduregna forse, e amava i gatti.

Ma non era questo il suo merito maggiore: rotondetta e curvilinea, aveva un sorriso che mandava in estasi, come la sua voce cantatrice e le sue labbra tumide.
Lui se ne innamorò alla follia. La riempiva di baci a ogni ora del giorno. La colmava di doni: monili, cinture, anelli ed altre preziosità. La vestiva di sete e broccati. In privato la abbracciava con passione senza uguali.
Lei, ammiratrice di Mina, usava ringraziarlo dei suoi atti d’amore cantandogli frammenti di una nota canzonetta della tigre di Cremona: “E in un attimo tu, sei glande glande glande, le mie pene non me le ricordo più”; “Sei glande, glande, glande, così glande ci sei solamente tu”; eccetera.
Lui si gonfiava d’orgoglio.
Ma una volta al “glande, glande, glande” da lei cantato gli accadde di compiere una riflessione: “Ha gli occhi a mandorla, giocosi, ma non è cinese. Perché canta in quel modo?”.
Glielo chiese.
Lei lo guardò con meraviglia, affetto e compassione, come farebbe “madre con figlio deliro”. E poi gli rispose: “Perché sei una grandissima testa di cazzo”. Lui rimase annichilito.

P.S. Quella che precede è, ovviamente, una stupidaggine improponibile, per non dire altro.

30.5.13

"Ecco le voci cadono...". Una poesia di Vittorio Sereni (1913 - 1983)

Ecco le voci cadono e gli amici
sono così distanti
che un grido è meno
che un murmure a chiamarli.
Ma sugli anni ritorna
il tuo sorriso limpido e funesto
simile al lago
che rapisce uomini e barche
ma colora le nostre mattine.

da Frontiera (1941)

Franca Rame contro il padre e il padrone (S.L.L.)

Secondo me, fare di Franca Rame una bandiera di un generico progressismo o del femminismo interclassista è come tagliarne un pezzo, cioè un'operazione disonesta. La potente artistica denuncia dello stupro personalmente subito, l’aver fatto della propria stessa sofferenza un’arma di conoscenza e di denunzia della violenza maschilista e fascista, è certo segno di grandezza. Ma tutto ciò non può essere separato dalla speciale attenzione, dalla capacità di immedesimazione, corporale, con la condizione della donna operaia: ne sono testimonianza i drammi e i monologhi sulla fabbrica e sul lavoro a domicilio che Rame scrisse, recitò e seguitò a recitare.
In verità antimaschilismo e anticapitalismo vanno molto bene assieme e, separati, sono assai meno efficaci. L’aborto legale ed altre leggi di parità sono degli stessi anni delle maggiori conquiste contrattuali e normative delle donne operaie (e anche degli operai maschi), frutto delle stesse lotte. 
Franca Rame, che aveva una grande intelligenza politica, sapeva che la liberazione della donna in generale non si compie senza la forza di liberazione specifica della donna operaia e proletaria dal padrone, oltre che dal padre (marito, compagno, fratello, figlio). E' bene ricordarsene e non ricorrere, ancora una volta, alla censura. 

La senatrice Franca Rame a Cimoli

Resta memorabile l'incontro in audizione con Cimoli, ex amministratore delegato di Ferrovie e Alitalia.
Gli disse: «Dottor Cimoli si faccia vedere meglio, non capita tutti i giorni di vedere da vicino chi dopo aver dissestato due grandi aziende pubbliche riesce a farsi dare una liquidazione da nababbo».

da un articolo di Pancho Pardi su "il manifesto", 30 maggio 2013

27.5.13

La poesia del lunedì. Mario Luzi

A che pagina della storia, a che limite della sofferenza —
mi chiedo bruscamente, mi chiedo
di quel suo «ancora un poco
e di nuovo mi vedrete» detto mite, detto terribilmente

e lui forse è là, fermo nel nocciolo dei tempi,
là nel suo esercito di poveri
acquartierato nel protervo campo
in variabili uniformi: uno e incalcolabile
come il numero delle cellule. Delle cellule e delle rondini.

Da Al fuoco della controversia (1978)

Procedure "costituenti" (di Mauro Volpi)

Con l’aggravarsi della crisi economica, etica e politica, inevitabilmente crescerà la tentazione di buttarla sull’istituzionale  e sul costituzionale; e come diversivo si impegnerà l’opinione pubblica in Grandi Riforme. Nell’articolo che qui riprendo, di una ventina di giorni fa, Mauro Volpi, costituzionalista di peso, ironizza sulle possibilità che avrebbero le “Ricostituenti” di cui si torna a parlare e dunque minimizza il pericolo che può venire da simili operazioni che giudica di facciata. Io, stavolta, sarei un po’ meno ottimista. La disinvoltura quirinalizia nell’interpretare funzioni e ruoli è già al limite del golpismo. Quel limite potrebbe essere superato e l’appello al “populo” oggi respinto come populista, potrebbe essere il momento conclusivo di una campagna ben orchestrata. (S.L.L.)
Mauro Volpi
Ci risiamo. Da più di venti anni si parla di riforma costituzionale, più o meno «grande», e si inventano nuovo procedure «costituenti». Il pensiero va alla Commissione bicamerale De Mita-Jotti del 1992/93. Poi alla Commissione bicamerale D'Alema del 1997/98. In entrambi i casi si è previsto con legge costituzionale un procedimento eccezionale in deroga a quello stabilito dalla stessa Costituzione (all'articolo 138) per le revisioni del testo. Il risultato: zero assoluto.
Non solo non è stata fatta la «grande» riforma auspicata da alcuni, ma neppure specifiche e puntuali revisioni costituzionali su questioni sulle quali a parole da decenni sono tutti d'accordo, come il superamento del bicameralismo paritario, con la creazione di un senato delle Regioni e l'attribuzione del voto di fiducia per il governo alla sola camera dei deputati, e la riduzione del numero dei parlamentari. Ora gli strateghi della riforma, gli stessi che in un anno e mezzo di governo Monti non sono stati in grado di cambiare la legge ordinaria che disciplina il sistema elettorale, ci spiegano che le vecchie Bicamerali sono fallite «perché le tensioni del mondo politico si sono riversate proprio su quelle commissioni» (così Violante su “l'Unità” del primo maggio). Oh bella! Ma non era proprio per questa ragione che si era voluto evitare il procedimento previsto dalla Costituzione che passa per una fase iniziale di esame dei disegni di legge costituzionali da parte delle due commissioni competenti di camera e senato?
Ora ci spiegano che la formazione di commissioni speciali non ha funzionato. E allora tirano fuori dal cilindro un nuovo coniglio. La parola magica è «Convenzione». Il comitato di quattro saggi designati dal presidente della Repubblica ha proposto una «Commissione redigente», con la encomiabile dissociazione di Valerio Onida, l'unico costituzionalista partecipante, che ha ribadito la necessità di applicare l'articolo 138 della Costituzione senza inventare pericolose via traverse. Di cosa si tratta? Mistero. Nelle sue dichiarazioni programmatiche il presidente del Consiglio Letta non ce lo ha spiegato. I saggi si sono limitati a dire che il nuovo organismo sarà formato da parlamentari e non parlamentari.
Una cosa è certa: per fare funzionare la Convenzione occorrerà approvare una legge costituzionale in deroga all'articolo 138 e quindi dovranno passare alcuni mesi prima che si discuta del contenuto delle riforme. In quella sede dovrebbero essere sciolti i nodi sul tappeto. Qualche ingenuo si è spinto a pensare che per evitare i condizionamenti della vita politica la Convenzione dovrebbe essere formata esclusivamente da esperti. Ma pare che al contrario sarà composta in prevalenza da parlamentari e da ex parlamentari. La smentita più autorevole della natura tecnica della Convenzione è venuta dalla candidatura alla presidenza di Berlusconi, al quale evidentemente non basta che un esponente del suo partito (Quagliariello) sia stato nominato ministro delle riforme. Molto meglio apparire come «padre costituente»! E se un domani egli subisse una condanna penale, poco male. Come ci spiega il guru Ferrara, questa si ritorcerebbe contro i magistrati. È naturale che il Pd, per quanto in stato confusionale, non potrebbe accettare una soluzione di questo tipo.
Ecco allora che sembra farsi strada una soluzione di compromesso, come si conviene nella nuova fase di concordia nazionale e di «pacificazione» largamente strombazzata in questi giorni. Un ottimo Presidente sarebbe Roberto Calderoli. Sì. Avete capito bene. Non è un omonimo. È lo stesso Calderoli primo firmatario dell'orribile legge elettorale che è stata denominata Porcellum grazie ad una sua intervista nella quale ammetteva che alla vigilia delle elezioni del 2006 l'allora maggioranza di centrodestra aveva fatto una «porcata». Ed è quel Calderoli che si riunì insieme ad altri tre «padri costituenti» nella baita di Lorenzago per proporre una riforma della seconda parte della Costituzione che fu approvata nel 2005 dalla maggioranza parlamentare, ma venne sonoramente bocciata dal corpo elettorale nel referendum del 25/26 giugno 2006. Insomma Calderoli come un novello Meuccio Ruini, il grande giurista e uomo politico che ai tempi dell'Assemblea Costituente presiedette la commissione dei settantacinque incaricata di redigere il testo della Costituzione. Basterebbe questo per farci capire che non si tratta di una cosa seria.
Il guaio è che purtroppo non siamo su Scherzi a parte, ma abbiamo a che fare con quello che passa oggi il convento della politica. E allora proviamo a far ragionare gli aspiranti «costituenti». Siete proprio sicuri che l'ostacolo alle revisioni della Costituzione stia nel procedimento previsto dall'articolo 138, che è uno dei meno complessi tra quelli previsti nel mondo democratico? O non stia piuttosto nella incapacità della politica di provvedere a quel che è veramente urgente e indispensabile per fare funzionare meglio le istituzioni, a cominciare dalla riforma del sistema elettorale con legge ordinaria? E anche nella furia iconoclasta con cui molti vorrebbero sbarazzarsi della Costituzione, immaginando procedimenti che possono surrettiziamente mascherare da riforma un processo costituente «suscettibile di travolgere l'insieme della Costituzione» (come ha sottolineato Onida all'interno del comitato dei saggi)? E poi siete sicuri che assemblando in un unico testo proposte di modifica di varie parti della Costituzione, sia più facile che la riforma sia approvata? Non vi hanno insegnato nulla i precedenti che dimostrano che più cose si mettono dentro più è facile che le opposizioni alle singole proposte si sommino e facciano fallire l'intera proposta? Infine, non sarebbe meglio che un governo che non sembra avere avanti a sé un radioso avvenire, si accontentasse di mettersi subito all'opera per quelle riforme urgenti e quegli aggiornamenti costituzionali che ci consentirebbero di tornare al voto con qualche speranza di avere un sistema funzionante?
Ma qui si misurerebbe l'effettiva volontà politica di trovare un accordo. Meglio abbaiare alla luna e deviare l'attenzione dei cittadini verso i massimi sistemi. Per fortuna con scarsissima probabilità di cambiarli.

“il manifesto”, 3 maggio 2013

26.5.13

Inciucio, il lessico del potere (di Pierfranco Pellizzetti)

Il presidente taumaturgo Giorgio Napolitano, quale primo atto ad alto valore simbolico della sua sacralizzazione, ha posto all'indice il termine inciucio. Nel frattempo la clacque si è premurata di spiegare che il compromesso sarebbe l'essenza stessa della politica, nel machiavellismo d'accatto del fine che giustifica i mezzi (e Albert Camus rispondeva: «Ma chi giustifica i fini?»). C'è, tuttavia, compromesso e compromesso. Per dire, quello keynesiano è un po' diverso dall'accordo collusivo sottobanco definito - appunto - inciucio.
La rimozione lessicale per diktat presidenziale indica che questo lungo tramonto inverecondo della «Seconda Repubblica» trova uno dei suoi principali campi di battaglia nell'imposizione delle parole che determinano il pensiero pensabile mainstream. In perfetta simmetria con quanto già era avvenuto proprio agli albori di tale fase politica nazionale.
Infatti, agli inizi degli anni Novanta - mentre la crisi di Tangentopoli veniva aggirata virando la questione morale in questione istituzionale (maggioritario versus proporzionale, elezione diretta dei sindaci, ecc.), deviando l'attenzione dai comportamenti concreti alle regole astratte - i laboratori sul libro-paga del Potere elaborarono il nuovo lessico al servizio del controllo sociale. Parole-killer incaricate di ferire a morte tendenze incontrollabili e dunque pericolosissime per i gestori degli immaginari.
Fu il tempo in cui comunista perse qualsivoglia riferimento storico e culturale diventando sinonimo di generica ignominia, un po' come giudeo in bocca a un nazista; quando giustizialista compì la trasmigrazione di significato da movimento peronista degli anni Cinquanta in utilizzo ingiusto dell'azione penale allo scopo di perseguitare innocenti.
Le odierne perversioni linguistiche, che iniziano a risuonare nelle invettive dei pompieri che accorrono a frotte per sostenere il nuovo corso sulla carta stampata e nei talk show, privilegiano demagogo e populista.
Sicché viene bollato con il marchio infamante della demagogia chiunque osi avanzare dubbi sull'apprezzabilità che la corporazione trasversale del potere abbia realizzato il proprio salvataggio aggrappandosi a un antico apparatciki migliorista, fossilizzato nell'idea che la priorità democratica consiste nel preservare il controllo dei partiti sulla società. Populistica diventa la messa in discussione dell'assunto che la mattanza dei diritti sociali e la precarizzazione della vita, effetto di massa del paradigma liberistico, corrisponda al migliore dei mondi possibili; anzi, all'one best way della società nella vaticinata fine della storia.
Se di sovente le parole sono pietre, talvolta diventano catene per imprigionare i corpi attraverso le menti. Per occultare l'inconfessabile.
La ricostruzione mistificatoria del paesaggio mentale, di cui siamo agli albori, induce a pensare che si stanno ponendo le basi per equilibri di lungo periodo. Alla faccia del «governo di servizio per fare cinque cose cinque e poi le elezioni», teorizzato dal vice direttore de “la Repubblica” Massimo Giannini nel tentativo di salvare la collocazione del quotidiano.
Ormai il clima sta cambiando, dopo i giorni in cui le maldestraggini dei rivoluzionari onirici del web e i gattopardismi dei rinnovatori altalenanti hanno spianato la strada alla protervia dei restauratori. E si è realizzata l'operazione perfetta della collusione spartitoria innominabile (massì, inciucio). Clima destinato a durare, che rischia di andare rafforzandosi nel momento in cui l'indignazione generale - come qualche segnale induce a pensare - scivola nel fatalismo di massa, l'istanza collettiva a difesa del principio democratico preso sul serio ripiega nella ricerca individuale di tutele materiali. Parlando il linguaggio della sottomissione.

“il manifesto”, primo maggio 2013

Il pagadebiti e il pesce fuggito (di Gian Luigi Beccaria)

Quajette
Anche i nomi delle bevande hanno le loro storie curiose e i loro nomi regionali. Il pagadebiti è un vino bianco della zona di Bertinoro e Castrocaro (Forlì), dal vitigno che produce uve in gran quantità, a grandi grappoli: secondo tradizione tanta abbondanza consentiva ai contadini di pagare i propri debiti. In certi luoghi è d'uso ancora oggi preparare gli uccelli scappati: quando si tornava a mani vuote, si decideva di supplire la selvaggina 'fuggita' con un surrogato di carne, pancetta e salsiccia infilzati in un bastoncino e fatto arrostire sulla brace, insomma un 'falso' bell'e buono come il piem. quajette, involtini di carne ripieni di verdure trite (si potrebbe anche pensare a uccelli scapati, da scapare 'levare la testa ad animali'; ma a sostegno della 'fuga' più che del 'capo' posso citare almeno il pisce fujute, un brodetto di pesce semplice semplice che si prepara nel foggiano).

Per amore e per difesa. La lingua italiana oggi, Garzanti, 2005

La giovane Italia alla Nuova Monteluce (S.L.L.)

Il plastico della Nuova Monteluce a Perugia
Il giovane edile si lamenta per il lavoro perduto: “Alla Nuova Monteluce ormai ci sono solo imprese della Campania. Fanno lavorare tutti in nero”.
Obietto: “Ci sono controlli. Qualcuno che fa i lavori sui registri deve risultare”.
Il ragazzo è tutt’altro che stupido e risponde con precisione: “I controlli non ci sono. Forse sui registri qualche nome c’è, ma non sono quelli che fanno i lavori. Quelli che stanno a Monteluce sono tutti in nero. C’è pure qualche perugino, in nero anche lui”.
Ci rifletto. E’ possibile. Berlusconi, oltre tutto, ha abolito i controlli a sorpresa e, se anche acchiappassero nei cantieri qualche operaio non registrato, basta dichiarare che è stato appena assunto – per la regolarizzazione la legge prevede qualche giorno.
Mi rimane un dubbio. Ma – per pochi che siano – quei dipendenti fittizi il cui nome risulta sui registri dell’impresa in realtà che lavoro fanno?

Fallimenti. L’Italia di merda (S.L.L.)

Me lo racconta una vittima, un ragazzo che ha perso il lavoro.
Pare che tra le grandi misure anticrisi inventate dal governo Napolitano-Monti ce ne sia stata una che per sei mesi sospendeva i fallimenti d’azienda.
Lo scopo dichiarato era quello di dare a tante piccole imprese una boccata d’aria, nella speranza che nuove ordinazioni, aiuti bancari o altri provvidenziali accadimenti le salvassero. La motivazione profonda era quella di occultare agli occhi del mondo l’aggravarsi della crisi. Il governo poteva dire: “Avete visto? I fallimenti diminuiscono. La nostra politica funziona”.
In realtà, nella maggior parte dei casi, e in maniera particolare nel caso in questione, il rinvio del fallimento ha consentito ai titolari di ripulire le casse e di non far trovare neppure un centesimo. La prima cosa a sparire sono state le retribuzioni degli ultimi mesi e le liquidazioni dei dipendenti; e insieme ad esse i soldi per pagare i fornitori,  specialmente i più bisognosi e miserabili come le microimprese di pulizia. Il fallito in questione è oggi felicemente in vacanza e pare che circoli in Ferrari.
Di questi tempi c’è tanta retorica intorno agli imprenditori che non reggono alla sofferenza di lasciare sul lastrico i loro dipendenti, dei quali si sentono responsabili e che – di fronte alla prospettiva del fallimento e della chiusura – impazziscono o si suicidano.
Ce ne sono.
E la cronaca documenta questi casi.
Ma intanto, nella crisi, continua a prosperare un’Italia di merda, l’Italia degli arraffoni e dei cinici.

25.5.13

C’è qualcosa nella Morte… Una poesia di Edgar Lee Masters (1869-1950)

C'è qualcosa nella Morte
che ricorda l'amore.
Se con qualcuno con cui avete
conosciuto la passione,
e la vampa del giovane amore,
dopo anni di vita comune,
sentite spegnersi la fiamma,
e così insieme svanite,
a poco a poco, soavemente,
per così dire abbracciati,
nella stanza consueta –
c'è, fra gli spiriti, un unisono
che ricorda l'amore!

24.5.13

Il "budget" non adattato (di Gian Luigi Beccaria)


Le parole sono sempre andate e venute da un paese all'altro: bujdget in origine era una parola gallica, poi francese, bougette 'piccolo sacco di cuoio, poi l'inglese la prende a prestito, infine, all'epoca della Rivoluzione, viene restituita al francese come budget, dal 1779 almeno è attestata in italiano come francesismo non adattato di provenienza inglese.

da Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Garzanti, 2006

Autodafé. Una poesia di Heidi Pataki (1940-2006)

come puoi parlare oggi dell'amore?
forse di una foglia amara, basta,
facciamo la pace, prima della tempesta
le parole sono rotte e stinte come noi
la resèda odorosa è già appassita
vorremmo stare in pace tra di noi!
nemmeno un filo d'erba, né un concetto
perché la mano non è più la mano
la forma si è cambiata:
di notte andare in lacrime
allo stagno muto, ottenebrata?
cerchiamo di capire che così non va
ecco l'amore è stato già soffiato via
e noi ancora qui, immobili, a respirare.

in "Linea d'ombra", giugno 1995

La storia si ripete? Tucidide e il conflitto tra morale e politica (Luciano Canfora)

Il brano che segue, sintesi di dottrina e acume critico, è tratto dalla prefazione di una monografia di Luciano Canfora su Tucidide e risale quasi certamente al 1988. Io l’ho ripreso da un ritaglio de “l’Unità” e vivamente ne consiglio la lettura. (S.L.L.)
Tucidide
Si potrebbero disporre come su di un altissimo albero genealogico i pensatori e gli storici che dall'età antica alla nostra hanno continuato a ripetere quel concetto che, con la dovuta enfasi, figura a conclusione del proemio tucidideo: che cioè la storia di un evento memorabile - nel caso di Tucidide il conflitto spartano-ateniese per l'egemonia (431-404 a.C.) - merita di essere narrata in quanto la sua conoscenza può e deve, anche a distanza di molto tempo, giovare alla comprensione di eventi «uguali o simili».
La nozione cui Tucidide, in quel contesto, si richiama, quella di «natura umana», non giova à risolvere la questione. E un dato, la «natura umana», più d'ogni altro ritenuto immutabile: ed è proprio perciò il presupposto della teoria tucididea della ripetizione, e quindi prevedibilità, degli eventi.
Quella mozione non figura solo nel proemio, ma anche in altri due celebri luoghi che si illuminano a vicenda: la descrizione dei sintomi della peste, che - secondo lo storico - consentirà, «se il contagio ritorna», di poterlo «identificare in tempo», e la sintomatologia della guerra civile, ugualmente ispirata al concetto di necessaria ripetizione dei medesimi comportamenti in situazioni analoghe «finché la natura umana sarà la medesima». È forse lecito chiedersi se questa espressione debba ritenersi equivalente a quelle usuali nei giuramenti e nelle proclamazioni solenni quale ad esempio «finché il sole sorgerà da Oriente» (Sofocle, Filottete, 1330), se esprima cioè nel modo più ineluttabile la fissità, o se invece contempli, sia pure remotamente - come io sarei propenso a credere - l'idea del mutamento, di un lentissimo e comunque possibile mutamento persino dei presupposti «naturali».
Ma forse non è qui la maggiore novità della riflessione tucididea, quanto piuttosto nella scoperta che dunque la politica - l'unica realtà che sembra apparire a Tucidide degna di nota e di meditazione - ha sue proprie leggi. Certo, anche questo è un portato dell'idea della ripetibilità e previsione degli eventi: altrimenti non vi sarebbero «leggi». Ma è nella concreta individuazione di ciò che tende a ripetersi (i modi della politica appunto) che consiste la novità della riflessione. Non è tanto importante insomma che Tucidide abbia scoperto che la politica ha delle «leggi», e delle leggi stabili, quanto piuttosto cercare di capire che cosa a luì sia apparso tale. Orbene egli è, per noi, il primo che abbia colto il nesso tormentoso tra parola e politica. Quei nesso onde per progressivi, magari impercettibili, spostamenti la medesima parola, detta dalle medesime persone o da persone che pretendono di parlare allo stesso modo o vogliono che si creda che esse continuano a parlare allo stesso modo, finisce col significare altro: il che risulta, in genere, tanto più chiaro quando si accostano immediatamente stadi o momenti tra loro distanti dello stesso processo. Egli è forse il primo che abbia organicamente riflettuto sul fenomeno per cui certe parole usuali nel linguaggio politico, indicanti «valori» quali amicizia, lealtà, prudenza, moderazione, viltà, coraggio, ecc. fungono piuttosto da schermo che da rivelatore di determinati comportamenti. «Vera vocabula amisimus» dirà il Catone di Sallustio nel Bellum Catilinae nel quadro di una riflessione schiettamente tucididea sullo. stravolgimento del lessico politico romano.
In ragione perciò di una così vigile attenzione allo slittamento semantico delle parole politiche, Tucidide è anche fortemente attratto dal fenomeno della «propaganda». Si sottrae però al riflesso condizionato caratteristico della città democratica e fa affiorare, più volte, la natura strumentale del ricorso, per fini di dominio, ad un patrimonio etico-politico universalmente apprezzato: ad esempio la sempre più lontana nel tempo benemerenza acquisita con le vittorie sui Persiani adoperata ogni volta da Atene come mezzo di legittimazione del predominio imperiale raggiunto dopo quella vittoria.
Ma è soprattutto il conflitto tra legge morale e «necessità» politica che occupa la sua riflessione. E questo il suo problema dominante, in quanto profondamente inerente al fatto su cui si impernia il racconto: la fine violenta di un impero, quello di Atene, costruito e affermato con la violenza. Nel suo sforzo di capire questa fine - la fine di un mondo che anche a lui parve affascinante se l'epitafio pericleo non è mero esercizio retorico - affiora sovente la percezione, appunto, della «necessità»: necessità è stata la guerra, anzi «inevitabile», perché non vi è altro modo di dirimere i conflitti tra potenze tendenti entrambe all'egemonismo; necessaria è la conclusione distruttiva per una delle due parti, perché i conflitti di potenza vengono procrastinati,  non risolti, dalle paci di compromesso. Di questa «necessità» lo sguardo dello storico cerca di scorgere le leggi, affissandosi appunto non su di un flusso infinito e informe di eventi, alla maniera di Erodoto, ma su di un singolo evento, ontemporaneo e appunto perciò - secondo Tucidide – pienamente conoscibile. Ma di contro a questa scientifica ricerca di leggi che, certo, danno conto delle necessità ma finiscono col risultare limitative dell'arbitrio dei singoli, si pone - inconciliabile -, nella mente di Tucidide, l'alternativa delle responsabilità: responsabilità appunto dei comportamenti, incompatibile con l'idea che le leggi ferree e necessarie della politica trascendano, determinandoli, gli atti dei singoli.
Il dilemma ha preso, ad un certo punto, la forma di vero e proprio dialogo drammatico: un dialogo che Tucidide immagina verificarsi in una situazione emblematica: quella della grande potenza (Atene) che, per riaffermare di fronte agli avversari e ai sudditi il dominio indiscusso dei mari, deve, o ritiene di dover, assoggettare una piccola e innocua isola neutrale, Melo, gelosa appunto della propria anomala neutralità. La genialità artistica di Tucidide consiste nell'immaginare che aggressori e aggrediti discutano, totalmente assorbiti dal gioco dialettico, su ciò che sta per accadere e di cui essi stessi saranno tra breve protagonisti. È una pausa fuori dal tempo, in cui i protagonisti parlano di se stessi come se parlassero di altri: protesi unicamente al gioco affascinante di escogitare l'argomento vincente. Orbene l'aspetto inquietante di questo testo cardine è che - come nel dibattito pro e contro la democrazia, che si svolge tra Teseo e l'araldo tebano nelle Supplici di Euripide - anche qui nessun ragionamento risulta, infine, davvero vincente. Irrisolta, com'era al principio dei dialogo, resta la contraddizione tra chi, come i Melii, volta a volta si richiama alla giustizia o alla speranza o agli dei, e chi, come gli Ateniesi, porta la riflessione al punto estremo, là dove sostengono che non solo tra gli uomini ma addirittura tra gli dei vige il principio del dominio dei più forte: «Questa legge - osservano - non l'abbiamo stabilita noi, né siamo stati i primi a valercene; l'abbiamo ricevuta da chi ci ha preceduti e a nostra volta la consegneremo a chi verrà, ed essa avrà valore eterno; e sappiamo bene che anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pari alla nostra, vi comportereste come noi».
Gli dei non disturbano il sistema senza luce e senza speranza delineato dagli ateniesi. Ogni spazio concesso all'imponderabile soprannaturale, siano gli dei o il Caso poco importa, avrebbe vanificato la affidabilità delle leggi scoperte, avrebbe infranto non solo il sistema ma il presupposto stesso della conoscibilità e prevedibilità della vicenda politica. Gli dei, proprio in quanto simbolo della imprevedibilità del reale, non hanno posto in questa costruzione. E l'esatto contrario del bilancio che Erodoto, non di molto più anziano di Tucidide, traeva dalla propria riflessione sulla vicenda umana, e affidava anche lui ad un dialogo, al celbre dialogo tra Creso e Solone: dove alla fine Solone enumera a Creso, esterrefatto, i giorni e i mesi di cui è intessuta la vita media di un uomo, e conclude «nessun giorno porta all'uomo cose simili al giorno seguente». Quale formulazione più radicalmente negatrice della prevedibilità della vicenda umana, così ostentatamente affermata da Tucidide quale conquista del pensiero? (...)

23.5.13

Austerità distruttiva e bolla giapponese (da un'intervista a Christian Marazzi)

Christian Marazzi
Christian Marazzi è economista, critico del capitalismo, e da anni insegna in università europee e alla State University di New York. Attualmente è docente alla Scuola universitaria e professionale della Svizzera italiana. È autore dei saggi come E il denaro va (Casagrande/Bollati Boringhieri 1998), Finanza bruciata (Casagrande 2009) e Il comunismo del capitale (Ombre Corte 2010). Il testo che segue è parte di un’intervista rilasciata a Roberto Ciccarelli alla fine del mese scorso sulle aperture del Fondo Monetario Internazionale. Conteneva una profezia sulla bolla giapponese, che puntualmente si è verificata. (S.L.L.)

Con una battutaccia direi che sono arrivati alla canna del gas. L'evidenza del fallimento politico e finanziario li ha costretti a tornare indietro rispetto alle posizioni scientifiche e ideologiche. È impressionante vedere con che faccia il Fondo Monetario, dopo 50 anni, oggi dica di cambiare politiche economiche che sono esattamente quelle imposte ai paesi indebitati dell'America latina, del Sud est asiatico e oggi a quelli europei. Hanno buon gioco i tedeschi che non intendono cambiare la strategia fiscale quando lo stesso Fmi l'ha imposta in tutti i paesi del mondo.

Allora non bisogna credere in queste aperture?
A me sembrano tentativi tardivi per rimediare ai danni che queste politiche hanno provocato e continuano a provocare. È di ieri la notizia che in Grecia hanno deciso di licenziare 15 mila impiegati pubblici e di aumentare l'orario di lavoro degli insegnanti. Si sta perseverando sulla stessa linea, per questo sono piuttosto scettico sulle possibilità che si riuscirà a incidere sull'austerità. La politica è governo del tempo. Se tu cerchi di recuperare dalle politiche complici dell'austerità, come mi sembra siano state quelle di Monti, devi però fare i conti con i processi reali che sono difficili da invertire.

Quali conseguenze ha prodotto l'austerità?
Ha distrutto una parte importante del tessuto industriale, delle piccole e medie imprese. Il credito alle imprese e alle famiglie non esiste praticamente più e ha aggravato le divergenze all'interno della zona euro tra paesi del Nord e paesi del Sud. Quando si dice che un euro tedesco non è un euro cipriota o italiano o francese, che nella moneta unica c'è un proliferare di monete parallele, significa che il processo di divergenza tra tassi d'inflazione, di interesse e di produttività si è spinto molto in avanti. Questi sono i processi reali che lavorano dietro i tentativi di contenere il danno che il prossimo governo italiano si troverà ad affrontare.

Quale sarà la prossima bolla finanziaria ad esplodere e che effetto avrà sull'Europa e l'Italia?
Le bolle sono la modalità attraverso le quali la crisi capitalistica si manifesta in tutta la sua potenza distruttiva. La loro funzione è creare panico, una specie di choc esogeno che restringe gli spazi di manovra di un governo, piuttosto che ampliarli. Il rischio di un'esplosione di un'altra bolla, non so in quale forma, è veramente forte. È la politica della banca centrale giapponese a destare maggiori preoccupazioni. È diventata una specie di banca centrale del mondo, iniettando dosi impressionanti di liquidità che si catapultano sulle borse europee che stanno andando bene e hanno contributo a ridurre lo spread italiano. D'altra parte le borse hanno già raggiunto livelli record da questo punto di vista. Gli analisti considerano gli indici già oltre i limiti storicamente raggiungibili. E questo porterà ad una nuova grande bolla speculativa. Arriveranno misure di taglio alla spesa pubblica, continueranno a esserci sempre difficoltà di reperimento di capitali.

“il manifesto”, 30 aprile 2013

“Contro il decoro”. I batteri di Tamar Pitch (Clotilde Barbarulli)

Tamar Pitch
Decoro è un termine utilizzato con diversi significati, ma non si applica a tutte le posizioni sociali, in quanto i ricchi non sembrano doversi imporre limiti e quindi non hanno necessità di essere «decorosi». Il decoro infatti è ciò che si addice a chi non ha abbastanza denaro e potere, o bellezza e gioventù per arrivare dove vuole.
Decoro e indecenza, sostiene Pitch (Laterza 2013), non solo non si escludono, ma si implicano, delineando modalità di controllo che tengono «in riga un ceto medio impaurito e impoverito». L’ideologia del «decoro» rafforza così l’egemonia neoliberista, ed infatti parole come decoro e dignità sono ricorse spesso nel lessico dell’opposizione al berlusconismo. Nell’attuale società dell’insicurezza, si enfatizzano la responsabilità individuale e il rischio: un buon cittadino rischia sul mercato del lavoro – da qui l’elogio della precarietà – ma si mette al riparo blindando la casa ecc.
Il decoro riguarda anche l’urbano: il protagonismo dei sindaci – con l’elezione diretta – si è moltiplicato nel «ripulire» la città. Non si può dunque sottrarre il campo semantico evocato dal termine sicurezza a retoriche e politiche «di destra, quindi escludenti, repressive, legittimate dalla paura». Tra le ordinanze più tristemente famose che prendono di mira le modalità dell’accattonaggio «molesto», c’è quella dell’attuale sindaco di Firenze (2009), preoccupato del fastidio di commercianti, esercenti di bar e simili, un modo di contrastare la presenza di figure anomale e scom. It. maggio 2013ode sul territorio. Per capire «i germi e i batteri» da buttar fuori «dalla casa comune dei cittadini perbene», Pitch esamina leggi e ordinanze recenti su sport, droghe, immigrati e prostituzione.
Ultimo tassello della retorica del decoro è il concetto di merito, in nome del quale «si affamano» le scuole pubbliche, si affossano le università e si premiano le private, una strategia in cui fa da sfondo la volontà di «sbarazzarsi del nefasto retaggio del Sessantotto» per l’esplosione di creatività e desiderio non riducibili al solo consumo di merci ed alla passività. E tuttavia nella crisi attuale il ritorno al «pubblico» sulla scena sociale può esprimere un rinnovato bisogno di collettività?

"Le monde diplomatique" ed.it. maggio 2013

"La poesia". Una poesia di Miquel Martí i Pol

La poesia è la notte
e un dondolo sul terrazzo,
ed io,
che tento di dire cose sottovoce.

Se ora spegnessero le luci delle strade, e anche
le luci del ponte e quelle delle case, il paese
diventerebbe spaventosamente grande,
dolorosamente vulnerabile.

La poesia è la notte,
la notte del paese,
il paese dentro la notte immerso
in una prodigiosa armonia,

ed io sul terrazzo,
seduto sul dondolo,
intimamente nel paese e nella notte,
tentando di dire cose sottovoce.

(da El poble, 1956-1958)

In “Linea d’ombra” N.100, gennaio 1995
Traduzione Gabriella Lacu

21.5.13

La poesia del lunedì. Miquel Martí i Pol (Catalogna 1929)

PUNTO. A SEGUIRE...
Tal residuo di me io lo contemplo
con tacito compiacimento
e mi commuove, quasi non fosse
una via senza uscita che m’ingoia.

Forse non serve descriver la speranza,
forse  sentirne soltanto il palpito
è già troppo e i moti profondi
del sentimento codardo meglio è celare
nelle remote insenature dell’oblio,
perché polvere e tarli ne prendano possesso.

Dubiterò molto, di nuovo, e mi rivolgerò
mille domande trabocchetto per sentire,
senza lasciarmi sfuggire un dettaglio, 
come mi scappa la vita a poco a poco
e come l’albero altero che io fui
perde i rami fronzuti
e, nudo, aspetta il lampo che lo redime.

La traduzione  è mia, la fonte "Caponnetto - poesia aperta".
La poesia è stata postata per ragioni tecniche martedì 21 maggio 2013. (S.L.L.)

15.5.13

Uno sparo del buio (di Tommaso di Francesco)

E' l'editoriale del 30 aprile scorso, sul "manifesto", ma mi sembra attualissimo anche oggi e temo che lo diverrà ancora di più man mano che trascorrono i giorni. (S.L.L.)
Sessantacinque anni fa, nel quadrilatero romano dei cosiddetti Palazzi del potere, davanti all'uscita secondaria di Montecitorio - non lontano da Palazzo Chigi e a cento metri dalla sparatoria di questi giorni che ha ferito così drammaticamente due carabinieri - venne colpito a rivoltellate Palmiro Togliatti, il capo del Partito comunista italiano e tra i leader dei comunisti e del movimento operaio nel mondo. Allora la destra, rappresentata in larga parte dalla Dc, fece di tutto per dimostrare che quel gesto più che mirato fosse solo opera dello studente Pallante, un «isolato» quando non squilibrato. Oggi la destra, quasi tutta rappresentata da un governo di larghe intese sotto ricatto del redivivo Silvio Berlusconi, si adopera a spiegarci in modo sporco che quello dell'operaio disoccupato, disperato e spostato sociale, è un attacco alle istituzioni repubblicane e alla democrazia, mirato nientemeno che a colpire lo sforzo «immane» di avviare il nuovo governo Letta, ambiguamente voluto da uno schieramento così vasto da diventare oscuro all'orizzonte. Attacco del quale è responsabile «l'estrema sinistra», ha ripetuto il Cavaliere. Come se non bastasse, viene evocato un rapporto dei Servizi segreti, tenuto pronto all'uso nel cassetto, che rivela il pericolo rappresentato da una nuova «insorgenza sociale».


Bene ha fatto dunque la presidente della Camera Laura Boldrini a ricordare il precipizio umano della condizione italiana. Quando ha parlato di «emergenza» e per lo sparatore Luigi Preiti, definendolo una «vittima che diventa carnefice», invitando così ad una drammatica riflessione i partiti vecchi e nuovi. Male, malissimo invece ha fatto il presidente del Senato Pietro Grasso che ha invitato a questo punto a chiudere il periodo delle tensioni sociali, come se queste possano essere accese o spente dall'alto con il telecomando, o quel che è peggio per decreto legge.


È invece vero che solo la rappresentazione in movimenti delle tensioni sociali, anche in questa fase di forzata scelta di un governo unanime, può essere garanzia di mantenimento del processo democratico italiano. La democrazia si difende con la democrazia. Anche perché il governo Letta costruisce una compagine unitaria tra fronti dichiaratamente contrapposti, deludendo tutte le componenti e le aree di partito, umilia le aspettative di un indirizzo nuovo, di un cambiamento, e mostra una debolezza interna e internazionale, in Europa soprattutto, profonda.


Urge a questo punto sapere cosa resta della sinistra che, come per Luigi Pintor nel suo ultimo editoriale dieci anni fa, non esiste più come l'abbiamo conosciuta. Quale ricostruzione è necessaria nell'epoca dei movimenti post-politici e post-democratici, quali radicamenti sociali e di classe servono e come costruire nuovi insediamenti e istituti. Nella consapevolezza che gli ultimi movimenti post-politici - al di là del ridicolo di attribuire tutte le colpe al povero Movimento 5 stelle - si presentano come uno strano, mostruoso ircocervo, una sorta di bolscevismo senza prospettiva rivoluzionaria, con bolscevichi estremi ma senza progetto di transizione ad una società superiore. E in più, per la loro radicalità manichea e programmaticamente riduttiva ed elencatoria, capaci intanto di destabilizzare l'esistente, allargando così una voragine già sprofondata, che prima o poi rischia, in assenza di una proposta alternativa, di essere riempita da una nuova, insidiosa destra dotata stavolta di ascolto sociale dell'odio affluente.

Adesso che m'hai lasciato... Una poesia di Marina Mariani

Adesso che m’hai lasciato
e in giro per la città non c’è proprio nessuno,
per fortuna hai dimenticato una cosa,
che so, un paio d’occhiali, un borsellino.

Avanzano le Panzerdivisionen,
in fondo alla strada c’è il lager.
Il vicino sta costruendo una bomba,
la radio emette scariche letali.

Ma io mi salvo: hai dimenticato una cosa,
che so, un paio d’occhiali, un borsellino.

Analizzare (S.L.L.)

E' questa la prima voce di un nuovo giocoso dizionario. (S.L.L.)
Analizzare (V. tr.)
Rendere anale, far passare attraverso il buco del culo, trasformare in stronzo (nel caso di animali ed altri oggetti organici). Se uno analizza, per esempio, D'Alema, costui risulta inevitabilmente uno stronzo. Così Veltroni, Berlusconi, Bertinotti e tanti altri.  

Franco Fortini. Il lessico nascosto delle cose prime (Edoarda Masi)

Per il decennale della morte di Franco Fortini fu organizzato a Siena nell’ottobre del 2004, organizzato dal Centro studi a lui intitolato e dall’Università un convegno cui partecipò, tra gli altri, Edoarda Masi. Riprendo dal “manifesto” alcuni brani di quell’intervento. (S.L.L.)
 
Franco Fortini
In che direzione e in quale misura la lettura attenta di Franco Fortini può essere di aiuto nella ricerca di una via e di un'azione efficace? Che senso ha il messaggio lasciato da lui vicino a morte: «proteggete le nostre verità»? La sua capacità di anticipare gli eventi, di intendere il corso della storia senza cedere all'apparenza del caos, e quindi di ricercare una soluzione attiva perfino nelle condizioni più disperate, si fondava, anche, su una scelta che risale agli ultimi anni di guerra: riconosciuta la centralità della lotta fra le classi, collocarsi da una parte del fronte, in rottura con la radice piccoloborghese. La critica andrà perfezionandosi col trascorrere degli anni.
La condizione di intellettuale piccolo-borghese [uso questo termine non come sinonimo di lower middle class ma nell'accezione di borghesia non grande-capitalista] è costantemente riconosciuta da Franco Fortini come propria, un aspetto di necessità oggettiva nella sua biografia; e costantemente oggetto di critica e negazione. Questo va inteso con riferimento sia alla condizione propriamente di classe, sia alla sua specifica attività di scrittore. Si estende, in termini più complessi, anche all'attività di creazione poetica.
La radice familiare, e di formazione giovanile, è nella piccola borghesia antifascista; quella che per brevità e in modo approssimativo posso indicare, al suo livello più alto, con l'etichetta «partito d'azione». (Vi appartenne suo padre, come pure quel suo padre spirituale che fu Giacomo Noventa). Portatrice di un'istanza democratica all'interno del sistema del capitale, fu sconfitta in Italia dalla più conseguente ala fascista dello stesso ceto. Così come, sul piano internazionale, furono sconfitti i tentativi di riforma ispirati a teorie keynesiane o ad un liberalismo capitalistico con velleità socialiste. A risolvere la grande crisi fu - necessariamente - la guerra mondiale. Questa, paradossalmente, rese possibile un grande fronte unito antifascista che celava agli occhi dei popoli un mondo diviso in due blocchi antagonisti. Che tuttavia si rivelò appieno dopo la sconfitta del nazismo.
A Franco Fortini è chiaro che dietro ed entro il conflitto fra potenze si cela un altro conflitto, ben più profondo. Nel saggio Mandato degli scrittori e fine dell'antifascismo fa proprie le parole pronunciate da Bertolt Brecht nel 1935, al tempo della formazione del fronte unito: «Quelli fra i nostri amici che di fronte alle crudeltà del fascismo sono atterriti quanto noi ma vogliono mantenere immutati i rapporti di proprietà o rimangono indifferenti di fronte alla loro conservazione non possono condurre vigorosamente e abbastanza a lungo la lotta contro la barbarie dilagante perché non possono suggerire né promuovere le condizioni sociali che rendono superflua la barbarie. Quelli invece che cercando la radice del male si sono imbattuti nei rapporti di proprietà, sono discesi sempre più profondamente, attraverso un inferno di atrocità sempre più profondo, finché sono giunti là dove una piccola parte dell'umanità aveva ancora il proprio spietato dominio. Essa lo ha ancorato in quella proprietà del singolo individuo che serve allo sfruttamento del prossimo e che viene difesa con le unghie e coi denti, a prezzo dell'abbandono di una cultura [...]. Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!»
Sono gli stessi rapporti che dividono il mondo, anche fra colonizzatori e colonizzati all'interno dei singoli paesi e sul piano internazionale, oggi che al bipolarismo è subentrato il monopolio del dominio. Contro i valori della sua classe d'origine e dei quali era egli stesso impastato e contro la falsa concordia e la falsa tolleranza Fortini sceglieva la divisione, là dove è autentica.
Leggiamo in I cani del Sinai: «In pratica - nella pratica della pigrizia - avevo accettato l'assurda idea che ebraismo, antifascismo, resistenza, socialismo fossero realtà contigue. Come ci si può ingannare. Era accaduto che l'ebraismo fosse inseparabile da una persecuzione immensa e non ancora del tutto esplorata: testa di Medusa per chiunque. Era parsa riassumere qualsiasi altra persecuzione, qualsiasi altro strazio e quindi perdere la sua specificità. Fra ideologi dei carnefici e ideologi delle vittime c'era stato un accordo paradossale: per i primi gli ebrei erano stati incarnazione dello spirito satanico, e per questi, quelli. I difensori del pensiero democratico-razionale avevano veduto negli ebrei un universale, incarnazione di quanto l'uomo potesse avere di più caro, la tolleranza, la non violenza, l'amore della tradizione, la razionalità. Questo errore non era innocente».
Nello stesso testo, sui «macelli» nazisti e sugli ebrei: «Quel senso era: di aver riassunto, nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e di ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell'uomo sull'uomo proprie dell'età moderna, di aver riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e di storia, come alienazione reificazione annichilimento. Ma ricavare questo senso e una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi note che rendono possibile la distruzione dell'uomo, di cui la strage ebraica è solo un esempio, è stato di pochi. Molti portavoce della cosiddetta "cultura" d'Occidente cercavano interpretazioni extrastoriche e metapolitiche e rapidamente giungevano a situare le stragi naziste nell'ordine del "sacro", a considerarle opera del Male In Sé, in sostanza ad accettare, rovesciandone i contenuti, uno dei miti centrali della mistica nazista: la purezza o purificazione attraverso l'olocausto».
La falsa concordia e la falsa tolleranza sono complici del grande inganno ideologico nei singoli paesi e sul piano planetario, funzionali all'opera di distruzione della vita civile e di colonizzazione globale in atto. Un'altra pagina di I cani del Sinai rappresenta con grande forza e chiarezza questa verità: « Chi sa che il conflitto di classe è l'ultimo dei conflitti visibili perché è il primo per importanza, è fuori di ogni "diritto" naturale, è una delle "cose ignobili del mondo", delle "cose sprezzate", delle "cose che non sono"; e deve, in un certo senso, "tollerare" e "permettere" le false accuse… Mi chiedo anzi se quella che è stata chiamata vocazione alla sconfitta di tanti movimenti rivoluzionari  non si accompagni sempre ad una coscienza della dialettica di comunicabilità e incomunicabilità, di persuadibilità e impersuadibilità, di comunanza e di estraneità - simboleggiata al condannato a morte che fino all'ultimo parla ai carnefici - dove però prevale, alla fine, nel punto alto della curva, la rinuncia alla comunicazione presente in nome di una possibile comunicazione avvenire. È l'affermazione d'una verità di cui non si può dare testimonianza se non morti, secondo la formula d'un antico eretico…».
A chi è nato e cresciuto negli ultimi anni le parole di Fortini potranno apparire lontanissime. Segnano una distanza dai nostri giorni, quando il termine stesso di «politica» è divenuto sinonimo di politicantismo. Purtroppo è quello che, nelle mutate condizioni di oggi, rende sempre più debole politicamente la solidarietà con i palestinesi e con gli altri popoli aggrediti e colonizzati. Che è costretta a fondarsi o sulla difesa del principio della nazione o sui generici «diritti umani»: cioè su principi sostanzialmente falsi. Eppure la distanza va superata, vanno recuperati i contenuti e il senso stesso della vita e della storia del secolo che si è appena concluso per riferirli al nostro presente; anche contro l'operazione in corso, di vilipendio e di oscuramento.
La radicalità di Fortini è controllata dall'impegno politico. Vide con simpatia e partecipazione la rivolta studentesca del `68. Era indirizzata, fra l'altro, contro le dirigenze dei partiti comunisti europei in un tentativo di recuperare il protagonismo dei soggetti. A questo fine gli studenti scelsero di allearsi con gli operai, evitando gli intermediari che ne oscuravano la coscienza e rompendo le barriere gerarchiche. Si estesero fra un pubblico più vasto sia la conoscenza dei contenuti della rivoluzione cinese, alternativi al marxismo sovietico, sia quella del marxismo critico, che fra minoranze limitate era cresciuto in Europa fin dagli anni Venti, e in Italia dal secondo dopoguerra ad opera anche di personalità come lo stesso Fortini.
Ma la rivolta di un ampio settore della gioventù contro i padroni era anche diretta contro i padri, e come tale ambivalente: contrassegnata dalla centralità dell'individuo contro il limite - qualsiasi limite - imposto dalla società-collettività - da qualsiasi collettività. Era lo spirito del cieco individualismo piccoloborghese che Pierpaolo Pasolini ebbe a criticare così aspramente. Senza però rendersi conto che sottolineare quell'aspetto e omettere il resto poteva essere sociologicamente corretto, ma sul piano politico significava mettersi dalla parte dei padroni e da quella dei poliziotti che - proletari o non - agivano comunque per ordine dei padroni.
Con gli esiti degli anni successivi e fino a oggi, quando molti fra i protagonisti del movimento di allora, in Francia e in Italia, hanno rivelato il seme piccoloborghese, anticomunista in toto, che covava sotto la protesta, quell'invettiva di Pasolini acquista un carattere profetico. E tuttavia le ragioni di Fortini, che gli si oppose, vanno più in profondità: sono aperte alla possibilità della critica, che certo non lesinò, ma esclusivamente all'interno di un fronte; se la critica si pone al di sopra o al di fuori delle parti, dimentica che la via d'uscita va ricercata fuori e contro, non all'interno del sistema di dominio, o finisce col rispecchiare e ripetere lo stesso oggetto criticato.

“il manifesto”, 16 ottobre 2004

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