18.4.13

La lunga fuga di Mario Soldati (di Massimo Onofri)

Tra il 14 settembre e il 3 ottobre del 1943, sorpreso dall'armistizio (e dall'improvvisa fuga di Badoglio e del re, dall'ignavia dei generali, dalla violenta e feroce reazione nazista), Mario Soldati lasciò precipitosamente Roma, insieme al futuro produttore cinematografico Dino De Laurentis che aveva la famiglia sfollata nell'Irpinia, per raggiungere Napoli, già occupata dagli alleati, in cerca di lavoro e di fortuna. Il resoconto di quel viaggio - prima in treno e poi in bicicletta - è confluito, nel 1947, in un velocissimo libretto significativamente intitolato Fuga in Italia. Lo ripropone oggi l'editore Sellerio, secondo un progetto di ristampa delle opere di Soldati disegnato e curato (con ostinazione filologica e notevole impegno critico, nelle numerose premesse e postfazioni) da Salvatore Silvano Nigro, che ha sinora contemplato America primo amore (1935), I racconti del maresciallo (1967), La verità sul caso Motta (1941). Progetto meritorio, se è vero che Soldati, della sua generazione (quella di Piovene, Moravia, Brancati, Bilenchi, Lalla Romano, Buzzati, Vittorini e Pavese), è forse quello la cui opera completa, oggi, è più difficilmente reperibile: paradossalmente, vista la sua passata popolarità. Oltre a essere significativo Fuga in Italia è un titolo rivelatore di tutta una personalità. Come notava in una recensione Enrico Emanuelli: «Soldati dà sempre l'impressione di voler fuggire. La fuga è una condizione della sua intelligenza e del suo spirito». Fuga in Francia, del resto, s'intitolava già un racconto di Salmace (1929) quel libro d'esordio torbido, eppure miracolosamente trasparente, che colpì due lettori come Borgese e Montale. Ma la fuga è, soprattutto, una modalità musicale della scrittura. Ci si potrebbe anzi chiedere, pensando ai libri propriamente autobiografici, se componendoli lo scrittore non abbia allestito, in qualche modo, un'arte della fuga: perché è anche vero, poi, che Soldati - come diceva Giorgio Bassani nel 1951 - è uno scrittore sempre «altrove». Non c'è forse modo migliore di questo - la registrazione di un'ostinata persistenza nell'altrove - per rappresentarsi il balzo in avanti cui Soldati si costringe ogni volta, come precipitandosi nella naturalezza, nella prensile velocità della sua scrittura, che è, sempre, il risultato d'un procurato allarme: per un sussulto, per un turbamento, per un'inquietudine, insomma per qualcosa che viene prima del movimento della scrittura e che anzi lo genera, ma che, nel movimento, viene dissimulato. In questo senso, Nigro ha ragione: «La mitica facilità di scrittura di Soldati nasconde una perdurante angoscia di stile». E ha buon giuoco nel dimostrare come, molto spesso, il periodo apparentemente più spensierato e irresponsabile riproduca invece, e calibratissima, una citazione, dentro un campionario che, solo per restare a Fuga in Italia, può andare da Ovidio a Leopardi.
Inutile aggiungere che, con questa stessa strategia, Soldati intona anche la voce di chi dice «io» e che, nei libri autobiografici, appartiene a un personaggio iscritto alla stessa anagrafe dello scrittore. In effetti, l'additato istrionismo di Soldati potrebbe trovare proprio qui la sua migliore giustificazione, appunto nel procurato allarme che sta a monte della sua prosa: e che la indirizza verso una parola tutta recitata, ma recitata perché di valore innanzi tutto esorcistico. È stato Cesare Garboli, comunque, a porre, come meglio non si potrebbe, il problema, nella Prefazione al primo volume delle Opere da lui curate per Rizzoli: «Si sa che l'io di Soldati non è mai bugiardo, mai falso, ma si sa anche che è sempre una finzione. La sincerità non è data in Soldati, come generalmente avviene, dalla presenza della verità; al contrario, è data dalla naturalezza, dalla necessità con cui proprio la finzione è annessa al mondo dello spirito e quindi legittimata, autorizzata a entrare nel cerchio di luce della verità e a farne parte». C'è una declinazione di questo problema, però, che Garboli non ha toccato: e riguarda, nel gioco dei tanti ruoli che questo io soldatiano vuole e sa assumersi, la non ovvia dialettica tra foro interiore e foro esteriore, uomo privato e uomo pubblico, insomma tra bourgeois e citoyen. In tal senso, se Moravia è stato lo scrittore che, sino all'ultimo, ha testimoniato il naufragio d'un sistema di valori e comportamenti assolutamente borghese, Soldati ha interpretato dall'interno, e meglio di qualsiasi altro, quello stesso sistema: a giocare una partita a due, tra rifiuto e adesione, iniziata nel 1929 (che è la data della loro comune nascita alla letteratura) e durata per tutta la loro lunga vita.
Scrive Soldati nel primo dei Racconti del maresciallo, intitolato Ricordo, rievocando un incontro conviviale col suo «vecchio amico, paesano e coscritto Gigi Arnaudi, maresciallo dei Carabinieri»: «provo tanta dolcezza, a sentirmi borghese quando sono in compagnia del mio Gigi!». E proprio in questo racconto - nato come tutti gli altri, per condiscendenza del carabiniere, attorno a un tavolo, tra sigari e buon vino, specialità gastronomiche piemontesi e lombarde, chiacchiere sulle rispettive famiglie e gli amici, sul lavoro la politica e lo sport - che il tema dello sdoppiamento tra bourgeois e citoyen trova una felice esecuzione, saldandosi a quello, altrettanto soldatiano, del «segreto». In questo suo primo caso il maresciallo ha a che fare col ritrovamento del cadavere di un noto industriale della zona («il nome non lo posso dire, neanche a te»). Il particolare sorprendente è che, prima di rantolare in mezzo alla boscaglia, il ferito era uscito dalla macchina capovolta, aveva raggiunto non si sa cosa tra gli alberi, ed era «tornato indietro», con l'intenzione di farsi trovare morto nella macchina con cui aveva avuto l'incidente. Il mistero è di quelli più che prosaici e di ordinaria amministrazione poliziesca. Ma perché l'aveva fatto? Il maresciallo intuisce che nell'idròvora, presso cui giace il cadavere, sta appunto il segreto. All'interno del portafogli, non risucchiato dalle acque, perché il canale è gelato, si trova, con tanto di dedica («A Carlo. Per essere sempre con te, come tu sei nel mio cuore. G. Agosto 1949»), la foto di una «donna giovane, bruna, bella, formosa»: quella di cui il pover'uomo, consapevole della fine, si vuole liberare, per non deludere, post-mortem, la moglie, per salvaguardarla nell'illusoria coscienza di una felicissima vita famigliare, per non accendere in lei il carosello di interrogativi angosciosi, il devastante dramma dell'identità, con tutto il corredo di pirandellismi che invece, taluni critici, hanno voluto attribuire allo scrittore.
Sarà il maresciallo, contro ogni consegna professionale, a sottrarre la foto dal portafogli, a farla scomparire per sempre, a suggellare il segreto in se stesso: ripristinando quella inconfondibile cifra borghese che è la divaricazione radicale tra bourgeois e citoyen, su cui il giovane Marx ha costruito tutta la sua teoria dell'alienazione. Il maresciallo, come Soldati, non ha dubbi: «nessun innocente è completamente innocente». Sono parole tratte dal racconto La grande diva e stanno alla radice di quel grande immoralismo borghese europeo, che uno scrittore non può sottovalutare.

“il manifesto”, 25 febbraio

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