14.4.13

Hemingway e la fiction autobiografica (di Emanuele Trevi)

Nell’articolo che segue, da “alias”, Trevi racconta della riedizione americana di Festa mobile, uno dei libri postumi e incompiuti di Ernest Hemingway, per la cura di uno dei nipoti, opera meritoria giacché il rimaneggiamento fattone dall’ultima moglie, Mary, per la prima edizione (1964), quella disponibile in traduzione italiana, non risultava del tutto affidabile anche per l’incandescente materia autobiografica. Il libro infatti è costruito su ricordi della Parigi degli anni Venti ed ha come protagonisti, oltre che lo stesso Hemingway, il suo amico Scott Fitzgerald.
La recensione di Trevi è apprezzabile soprattutto perché affronta senza complessi intricati nodi di prassi narrativa. (S.L.L.)
 

È un’«edizione restaurata», come si usa dire per i film più che per i libri, quella che Sean Hemingway ha curato dell’ultimo libro di suo nonno Ernest, Festa mobile, pubblicato postumo e incompiuto da Scribner nel 1964 (trad. di Luigi Lunari, «Oscar Mondadori»). Mary Hemingway, la quarta e ultima moglie dello scrittore, aveva curato quella prima edizione. E con questo, entriamo in una storia familiare che merita di essere almeno accennata. Alla filologia si lega in modo indistricabile un interessante caso di gelosia retrospettiva.
Il minimo che si può consigliare alle mogli, è di non curare mai le memorie dei loro mariti. Anche, e soprattutto, se riguardano fatti di trent’anni prima. Perché è proprio nel passato più irrecuperabile che le persone, come le città e gli stati d’animo, possono acquistare come un’aura mitica, una luce di assoluta perfezione che trascende le incertezze e le contraddizioni dell’esperienza reale.
Ma andiamo con ordine. Nell’estate del 1957, Hemingway inizia a scrivere dei ricordi sulla sua vita a Parigi tra il 1921 e il 1926 – li chiama «Paris Sketches» e sono la rievocazione di un’età dell’oro, sia dal punto di vista della vita affettiva che da quello dell’apprendistato alla scrittura. Di questo libro «l’eroina», come la chiama lui stesso, è Hadley, la prima moglie. Molte pagine di Festa mobile sono in effetti una delle più struggenti e memorabili celebrazioni dell’intimità che siano mai state scritte. E la figura di Hadley si impone per contrasto in quella che, giocoforza, può essere considerata una superba galleria di celebrità, da Ezra Pound a Gertrude Stein, da Sylvia Beach a Scott Fitzgerald. Proprio l’infelicità di quest’ultimo con la terribile Zelda è uno dei motivi conduttori delle memorie, utile a mettere in risalto la felicità di Ernest con la devota e complice Hadley, con il piccolo Bumby, loro figlio, e addirittura con il gatto di casa, Mr Puss.
Ma mentre scrive, Hemingway finisce per trovarsi di fronte a un nodo, a un tenace ostacolo psicologico, e non riesce a venirne a capo. Come scrive in una lettera all’editore nell’aprile del 1961 (tre mesi, dunque, prima del suicidio) non è capace di completare il libro, che manca di un capitolo introduttivo, mille volte iniziato e cassato, ma soprattutto manca di una conclusione. Perché la conclusione è che Hadley, l’«eroina» del libro, a un certo punto viene scalzata da Pauline, e Parigi non sarà mai più la stessa.
Ma che cos’è, questo nuovo amore che prima si insinua nell’Eden sotto le vesti dell’amicizia, e finisce per mandare in frantumi la vecchia vita, aprendo un’epoca nuova? Narrativamente, vale sia come un inizio che come una fine. E trent’anni dopo, con tutto quello che c’è stato di mezzo, il dilemma sentimentale e il senso di colpa che ne derivano diventano una formidabile impasse letteraria. Grande verità, quella che si annida nel fallimento del libro: ciò che è irrisolto sul piano dell’esistenza, difficilmente potrà trovare, su quello della scrittura, una forma che lo riscatti. Il fascino di Festa mobile, al di là della bellezza delle singole pagine, risiede forse proprio in questa impossibilità di concludere.
L’uomo che dopo tanto tempo si rivolge al suo passato non lo fa a partire da una saggezza faticosamente acquisita. È ancora nel disordine, nell’incertezza, nel rimorso: e le cose, col passare del tempo, non possono che peggiorare. È dalla memoria e dal cuore, scrive Hemingway in uno degli abbozzi poi scartati, forse l’ultimo «schizzo » a cui lavorò, che il libro intende ricavare i suoi argomenti. Ma la prima è stata «manomessa», mentre del secondo, ormai, si può dire che «non esiste». Si può ben capire come, dibattendosi tra i fantasmi di Hadley e Pauline, il soggetto delle memorie facilmente si disgreghi, e l’opera diventi impossibile. E altrettanto bene si può capire come la persona meno indicata a mettere le mani in questo groviglio fosse Mary Hemingway. Molti dei suoi interventi sul manoscritto appaiono dettati dal desiderio di fornire, a pochi anni dalla morte di Ernest, un’immagine di comodo.
Non sempre è bene che i panni sporchi si lavino in famiglia, ma Sean Hemingway ha sostituito egregiamente il lavoro della nonna, servendosi dei preziosissimi materiali custoditi presso la John F. Kennedy Library di Boston. Tra i frammenti riportati alla luce, ce n’è uno intitolato Dello scrivere in prima persona che potrebbe suscitare interessanti reazioni in moltissimi scrittori d’oggi, sia in Europa che in America. Nessuno più di Hemingway infatti può essere considerato il padre nobile di un’idea di letteratura come testimonianza, memoir, traccia scritta di un’esperienza realmente vissuta. Eppure, privo di un quadro teorico prestabilito e forte di quella conoscenza di causa che scaturisce dal lavoro quotidiano, Hemingway afferma risolutamente, a scanso di ogni equivoco, che ogni autofiction è pur sempre, prima di ogni altra cosa, una fiction. Certamente, poi, accade che se sei capace di far sì che la gente creda a quello che stai raccontando, pensa che quelle storie «siano davvero successe a te». Ma questo non è che il primo passo di un sortilegio più complesso e potente, che solo il più fragile e inaffidabile dei soggetti grammaticali, la prima persona, è in grado di scatenare. Se infatti racconti in maniera «sufficientemente efficace», prosegue Hemingway, la persona che legge non solo stabilisce che quelle cose ti sono veramente accadute, «ma finisce per credere che siano successe anche a lei». Qui sta tutto il segreto, che consiste di particolari minimi, capaci di convincere il lettore che ciò che legge fa parte della sua esperienza, dei suoi ricordi. E quando questo supremo artificio è veramente eseguito alla perfezione, lo scrittore sta ottenendo ciò a cui mirava, «cioè fare qualcosa che diventerà parte dell’esperienza del lettore e parte dei suoi ricordi». Potenza dell’Io: la confessione come supremo strumento dell’illusione. Si potrebbe esprimere (e pensare) meglio di così la spinosa questione?
Fare tutto questo, ad ogni modo, «non è facile» – l’ironico monito sigilla questa impareggiabile teoria della letteratura racchiusa in non più di quindici righe. E la migliore conferma alla teoria è proprio il libro senza inizio e senza fine che le sta intorno. Se la pagina dell’ultimo Hemingway ha il potere di trasportarci, come un fiabesco tappeto volante, esattamente nel luogo e nel tempo che intende evocare, ciò non si deve a una volontà di esaurire l’argomento, in una specie di horror vacui memoriale. Al contrario, «quello che viene lasciato fuori si vedrà sempre e farà la forza di quello che è rimasto dentro». E ancora: «la qualità di un libro deve essere giudicata, da parte di chi lo scrive, dall’eccellenza del materiale che elimina».
Così, con una consumata tecnica di sottrazione della materia che ricorda la scultura più di ogni altra
arte, vengono fuori i superbi ritratti di cui si compone il libro, primo fra tutti quello di Scott Fitzgerald, che si accampa in Festa mobile come un autentico contrappeso, o se si preferisce un’ombra, dell’Io del narratore. È commovente, nelle pagine dedicate all’amico, la precisa anatomia
di un caso inguaribile di infelicità, di incapacità di stare al mondo. Hemingway intende essere preciso, e spietato. Non parla tanto per parlare, ma proprio perché va a fondo, conserva intatti dei segreti. Sembra assurdo, ma a un certo livello di eccellenza artistica anche la reticenza è uno degli strumenti con i quali diventa possibile dire tutto. Ogni volta che si riprende in mano, si riscopre che grande maestro è stato Hemingway, e che lezione inesauribile continui a essere la sua. Non solo tutto è iniziato da lì, ma (cosa ben più importante) è ancora lì che siamo, sono le stesse cose che ci sforziamo di imparare, gli stessi fallimenti che ci tocca mettere in conto.

“alias – il manifesto”, 6 agosto 2011

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