29.3.13

Napolitano. Il destino di un presidente (di Renato Covino)

Georges Simenon non è solo l’inventore del commissario Maigret, ma è anche un raffinato scrittore di romanzi non polizieschi. Tra questi ultimi ce n’è uno che si intitola Il Presidente. L’atmosfera del romanzo cumula la sacralità del ruolo che il protagonista custodisce una volta ritiratosi dalla politica e la malinconia per la consapevolezza della fine imminente. Si dice che l’ispiratore della storia di Simenon fosse Georges Clemenceau che da deputato di estrema sinistra radical-socialista trasmigrò verso posizioni più moderate e, divenuto ministro dell’interno, represse con energia gli scioperi operai del 1906. Dal 1917 fu presidente di un gabinetto di guerra segnalatosi per la durissima repressione di ogni velleità pacifista e d’ogni ipotesi di “tradimento” e gestì la pace di Versailles.
Clemenceau si ritirò dalla vita politica a 79 anni nel 1920, dopo essere stato sconfitto nelle elezioni per la presidenza della Repubblica francese. Alla stessa età, mese più mese meno, invece, Giorgio Napolitano viene eletto Presidente della Repubblica italiana. Il soprannome del politico francese era “la tigre”, quello di Napolitano è “il molle”. Tuttavia, a parte le differenze, a fine corsa entrambi sono storicamente degli sconfitti. Clemenceau impose alla Germania condizioni di pace durissime che apriranno la porta al secondo conflitto mondiale. Napolitano - più modestamente - si è fatto garante di un sistema politico corrotto e al declino, ergendosi a suo puntello in nome di un’Europa piegata alle ideologie liberiste e alla pratiche diplomatiche e tecnocratiche che ne hanno segnato la nascita e il percorso.

Un comunista “atipico”?
Napolitano ha compiuto i primi passi della sua carriera politica sotto l’egida di Salvatore Cacciapuoti, il segretario stalinista della Federazione partenopea del Pci, e, soprattutto, di Giorgio Amendola. Non gli si conoscono strappi. E’ accurato, diligente e, soprattutto, cauto. Nel 1956 afferma che i carri armati sovietici avevano represso la sollevazione operaia ungherese per difendere la libertà. Dopo la morte di Togliatti e l’elezione di Longo a segretario dopo l’XI congresso - quello dello scontro con Ingrao, accusato di usare il dissenso per mettere in discussione l’unità del gruppo dirigente – diviene coordinatore della segreteria e membro dell’Ufficio politico. Sembra destinato a succedere a Longo, ma al XII congresso gli verrà preferito come vicesegretario con pieni poteri Enrico Berlinguer. Ciò non toglie checontinui la sua carriera nel Pci anche senza compiti direttamente operativi.

Dalla destra comunista al migliorismo
Il punto di svolta è la morte di Giorgio Amendola. Napolitano eredita il ruolo di capo della destra del Pci, quella che punta alla socialdemocratizzazione del partito, all’ingresso nell’Internazionale socialista, a buoni rapporti con il Psi craxiano, alla responsabilità nei confronti dell’interesse nazionale, che significa moderazione salariale, rinuncia ai diritti acquisiti dai lavoratori (considerati insopportabile massimalismo “operaistico”), rifiuto della “diversità” berlingueriana e della questione morale. E’ in questo periodo che comincia ad affermarsi, in riferimento alla destra comunista, il termine migliorista, che designa chi accetta il capitalismo come è, senza metterlo in discussione, proponendosi al più di migliorarlo.
La scelta di avvicinamento al Psi si esaurisce per due motivi. Il primo è il crollo del muro di Berlino e la decisione di Occhetto di cambiare nome al partito: il segretario pensa che se il comunismo è fallito anche le politiche socialdemocratiche sono in crisi. Il secondo è determinato nel 1992-1993 da Tangentopoli, con l’incriminazione, la latitanza e la condanna di Craxi e la sparizione del Psi. Il termine socialista e socialdemocratico non hanno, almeno in Italia, più corso.
A poco serve la costituzione della corrente riformista del Pds, di cui Napolitano è formalmente il capo. Non ci crede neppure lui e, del resto, la sua natura non gli rende congeniali posizioni decise, come sempre preferisce lavorare per linee interne, evitando rotture. Proprio in quegli anni un suo sodale, Napoleone Colajanni, esprimerà su di lui un giudizio tranchant: “Il coraggio non sa nemmeno dove sta di casa”. Più tardi risulterà chiaro che neppure il socialismo democratico soddisfa più l’ansia revisionista di Napolitano, che rapidamente virerà verso un liberalismo di stampo progressista, disponibile a discutere con i moderati ed i conservatori, assumendo come suo maestro Isaiah Berlin. Lo spiega efficacemente a Paolo Franchi, biografo del presidente, Rino Formica, che attribuisce a Napolitano un’attitudine presente nella nomenclatura del Pci secondo cui “l’inflessibilità del comunista consiste nella capacità di oscillare allo stesso ritmo della linea del partito”. Non basta. Formica si domanda: “E quando non ci sono più né la linea né il partito, come fa ad oscillare un figlio dell’aristocrazia intellettuale napoletana, di formazione crociana, togliattiano di destra più ancora che amendoliano? Gli restano due ancoraggi soltanto, ma molto forti. Il primo se lo è conquistato in prima persona, sulla scia di Giorgio Amendola: ed è l’Europa. Quanto al secondo, […] almeno in parte glielo ha lasciato in eredità […] Palmiro Togliatti: ed è il costituzionalismo liberale”.

Il Presidente
E’ alla luce di questi presupposti che va letto il settennato appena trascorso. A Napolitano la socialdemocrazia non basta, bisogna arretrare ancora e tornare al liberalismo. Ciò spiega, in linea di continuità con il suo passato, l’ansia di unità ideale tra le diverse forze politiche, l’ossessione delle forme che spesso lo opporrà a Silvio Berlusconi, cui si aggiunge la rivalutazione di Craxi nel 2009: a suo dire il segretario socialista non può essere giudicato alla luce delle sue vicende giudiziarie, ma va considerato un grande, lungimirante, leader politico. La sua pratica di cerchiobottista è confermata già nel discorso di insediamento, in cui afferma che va riconosciuto a fondamento della repubblica il “significativo e decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni”. L’uomo del Risorgimento cui fa riferimento è il moderato Cavour. D’altro canto pesa la volontà e la convinzione che l’Europa vada conservata così com’è, subendo anche politiche economiche recessive, rispondendo positivamente alle ingiunzioni della Commissione e della Germania. L’incarico a Monti e al suo governo di “tecnici” è dettato da queste convinzioni e dall’idea che la sovranità popolare vada indirizzata a sostegno delle élite lungimiranti e competenti, i veri agenti del cambiamento o, meglio, dell’equilibrio del sistema che è sostanzialmente immodificabile.
Da ciò la coazione a ripetere la stagione vissuta nella sua gioventù, ossia quella dell’unità nazionale, indipendentemente dal contesto in cui si opera. All’interesse nazionale, che coincide con il rafforzamento dell’Unione europea, vanno sacrificati redditi, speranze, garanzie sociali e per far ciò occorre la solidarietà delle maggiori forze politiche. Peccato che tra esse ci sia il partito di Berlusconi; che Monti – malgrado l’appoggio del Presidente, delle cancellerie dei principali paesi del continente, delle tecnocrazia europei - lasci un paese prostrato e immiserito e non sia riuscito nella missione impossibile di rafforzare il polo dei moderati, rinunciando a quel ruolo di riserva della Repubblica che Napolitano gli aveva ritagliato addosso; che il Pd – grazie alla sua opera oltre che per propri demeriti - sia rimasto a marcire nell’appoggio al governo tecnico per quattordici mesi, perdendo le elezioni; che la vittoria della nebulosa 5 stelle abbia decretato ufficialmente la fine degli equilibri della II repubblica. Ciò nonostante il Presidente continua a predicare l’unità tra le principali forze politiche per il bene del paese e nelle prossime settimane, ne siamo quasi certi, farà di tutto per proseguire in altre forme, ma con gli stessi obiettivi l’esperienza del Governo Monti.
Per fortuna ha poco tempo. Il 15 aprile si voterà per il nuovo presidente e Napolitano lascerà l’incarico. Di fronte a chi invoca un suo secondo mandato ha ragionevolmente invocato le ragioni della carta d’identità. E’ vecchio, è giusto che si riposi e, soprattutto, che smetta di fare danni.

micropolis, marzo 2013

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