31.3.13

Il vero seduttore. Alcibiade racconta Socrate (dal "Simposio" di Platone)

Copia romana di una statua greca di Alcibiade
Marsia aveva bisogno dello strumento per incantare gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol suonare le sue melodie... Insomma le sue melodie, sia che le suoni un flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come sono, e di iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo mondo, di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio niente di niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento, quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare. Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni…
Soltanto davanti a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un uomo simile, non so proprio come fare…
Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la testa… E per giunta passa la vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa sul serio, però, e si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine, così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a fare tutto ciò che Socrate avesse voluto.
Credendo che egli s'interessasse alla mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene da solo con lui, senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto contento. Invece, niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la sera, se ne andò.
Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la faccenda. E così lo invitai a cena, addirittura come fa uno spasimante quando vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto tardi e quindi lo convinsi a fermarsi.
Così egli si mise a riposare in un letto accanto al mio, lì dove aveva cenato : nella sala, nessun altro avrebbe dormito tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo punto, io non vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto, non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate, passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a questo, ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a quel che si dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole... al cuore o all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque cosa...
Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli chiesi scuotendolo. «Nient'affatto» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Cosa?» «Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno, dei miei amici, per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla gente ignorante se gli cedessi».
E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col suo solito fare un po' ironico : «Mio caro Alcibiade,» rispose, « può darsi proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma, di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione, che tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo». Ed io dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi riguarda, le cose stanno così ed io non ho detto nulla di diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio per te e per me». «Così va bene » mi rispose. «In seguito vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di questa faccenda e anche per il resto». Quanto a me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di dire una parola di più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia (sì, proprio costui, questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di non essere mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore.

capp.XXXII - XXXIV passim
Traduzione Nino Marziano (Grandi libri Garzanti, 1975)

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