22.3.13

Il Re, Cavour, Garibaldi. Le comari del Risorgimento (Alessandro Barbero)

Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II
e Camillo Cavour  con  Giuseppe Mazzini
nella copertina della "Domenica del Corriere"
dedicata al I Centenario dell'Unità d'Italia
Negli anni convulsi prima del 1861, tre uomini hanno assunto le iniziative epocali da cui è nata l'Italia unita, oppure hanno evitato di bloccarle quando avrebbero potuto farlo. Sono loro che hanno preso tutte le decisioni cruciali, per lo più sotto pressione, in fretta e furia, coll'angoscia di non poter prevedere con certezza le conseguenze. Questi tre uomini, Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II, si disprezzavano e si odiavano a vicenda, anche se i due politicamente più distanti, il re e il generale, erano capaci d'una certa ruvida sintonia.
Cavour, che era l'unico dei tre ad avere un carattere calcolatore e un'intelligenza analitica, seguiva tutte le mosse di Garibaldi pronto, a seconda dei casi, ad applaudirlo come un eroe o a farlo arrestare; col re si sforzava d'esser paziente, ma ci sono testimonianze di occasioni in cui lo chiamò traditore, prese a calci le seggiole della reggia e gli ricordò che ai re, quando fanno troppe stupidaggini, poi tocca abdicare. Il giudizio di Camillo su Vittorio è riassunto in una delle sue lettere: «Come rappresentante del principio monarchico, come simbolo dell'Unità, sono pronto a sacrificare al re la vita, le sostanze, ogni cosa infine; come uomo desidero da lui un solo favore, il rimanermene il più lontano possibile».
Garibaldi era un repubblicano convinto, ma fin dall'inizio si rassegnò a un'Italia monarchica come all'unica possibile, ed evitò di litigare col re. In compenso aveva orrore di Cavour, e all'indomani dell'Unità lo accusò in piena Camera di aver progettato «una guerra fratricida» ai danni dei garibaldini; la bagarre che ne seguì può aver seriamente accorciato la vita del conte, che un mese e mezzo dopo s'ammalò improvvisamente e morì.
Re Vittorio considerava i democratici come Garibaldi volgari canaglie, promise all'ambasciatore austriaco di «schiacciarli come mosche» e «impiccarli tutti quanti», e ancora dopo l'incontro di Teano era pronto, se necessario, a «sterminare sino all'ultimo» il generale e i suoi seguaci: «La canaglia è canaglia fino alla fine».
Subito dopo lo sbarco a Marsala, confidò all'ambasciatore francese che se i napoletani avessero intercettato Garibaldi in mare mandandolo alla forca, sarebbe stato un peccato, ma dopo tutto la sua morte avrebbe molto facilitato le cose. «Che bel monumento gli avremmo fatto!». Quanto a Cavour, il re lo detestava e lo temeva, pur subendo il suo ascendente; quando d'Azeglio ebbe per la prima volta l'idea di nominarlo ministro, fu l'unico a veder chiaro nel futuro del governo: «Ma come, non veggono lor signori che quell'uomo lì li manderà tutti colle gambe all'aria?» (ma parlava in piemontese, e disse di peggio). Nei momenti di buonumore lo chiamava «il maestro», e gli faceva scherzi feroci, come fargli mangiare il cavallo fingendo che fosse cervo; nei casi non rari in cui il conte s'era momentaneamente dimesso dal governo si comportava come uno scolaretto in vacanza. Con i successori di Cavour Vittorio si sentiva più sicuro, ma per sua fortuna non sapeva che cosa pensavano loro di lui; noi lo sappiamo grazie alla testimonianza del ministro degli Esteri inglese, lord Clarendon: «Tutti sono d'accordo nel giudicare il re un imbecille; è un disonesto che mente con tutti».
Questa, dunque, l'opinione che i grandi del Risorgimento avevano l'uno dell'altro. E proprio rievocare questo intrico di odi, rivalità, gelosie, intolleranze e violenze malamente represse significa rendere loro l'omaggio più sincero, e stabilire una volta per tutte la loro grandezza davanti alla storia. Questi uomini si trovarono a comandare in una congiuntura tremendamente difficile, che avrebbe fatto perdere la testa a chiunque: lo stesso Cavour, che solo in apparenza era il più freddo dei tre e forse era in realtà il più violento, dichiarò che faceva fatica a non perderla («Me la tengo di quando in quando colle mani perché non fugga»). Si trovarono a governare un processo che tutt'e tre desideravano compiere, ma con idee molto diverse sui mezzi e sul risultato finale; per loro gli anni del Risorgimento non si srotolarono, come per noi, in un'irresistibile sequenza di guerre, numerate dalla Prima alla Terza, di trattati, plebisciti e annessioni, ma furono un presente di continua incertezza, aperto su un futuro torbido che nessuno poteva indovinare.
Tutt'e tre sapevano di giocarsi tutto. Vittorio rischiava il trono, e non mancò di dirlo in faccia a Cavour: «Egregio Conte, voi avete 150 mila lire di rendita e qualunque cosa accada per voi nulla cambia; ma sappiate che io non voglio ritrovarmi dove è finito mio padre» (cioè, in esilio). Cavour in realtà non si giocava solo la carriera, ma la pelle, perché senza dubbio era sincero nelle parecchie occasioni in cui, davanti al rischio che tutta la sua politica andasse in rovina, minacciò di spararsi un colpo in testa. Garibaldi, poi, la pelle se la giocava ogni giorno: condannato a morte a 27 anni dal governo sabaudo, sarebbe stato impiccato da quasi tutti i suoi nemici, se l'avessero catturato vivo, e in vita sua fu ferito sei volte in battaglia.
Ebbene, questi tre uomini che non si capivano e si detestavano, che giocavano una partita così maledettamente difficile e con una posta in gioco così alta anche a livello personale, riuscirono nei momenti cruciali ad azzeccare le decisioni giuste, a sostenersi a vicenda quando altrimenti tutto sarebbe crollato, a ingoiare principi e risentimenti in nome del bene comune, a intravedere a fatica nella nebbia la strada giusta e imboccarla magari controvoglia, anzi facendosi violenza, perché avevano intuito che l'altra strada, cui magari l'istinto li avrebbe fatti volgere, portava all'abisso. E' da questo, dal carattere con cui reagiscono alle difficoltà e dalla capacità di prendere le decisioni giuste sotto pressione, che si giudicano i politici, non dall'abilità nella competizione elettorale o negli intrighi di corridoio. Ciascuno dei tre, a modo suo, è stato un grande politico, e ci perdoni il conte che sarebbe inorridito all'idea che questo complimento potesse essere fatto agli altri due: anche l'ingenuo e impolitico Garibaldi, anche il re cialtrone e sleale.

Tuttolibri La Stampa 4 settembre 2010

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