13.3.13

Democrazia proletaria nella città antica (di Luciano Canfora)

Il testo che segue è la recensione sul “manifesto” del volume La politica nel mondo antico di Moses Finley, che era appena uscito per Laterza. L’anno, pertanto, benché nel ritaglio non trovi indicazioni dovrebbe essere il 1985. 
L’articolo – come peraltro il libro di cui tratta – prescinde dalla schiavitù e dalla condizione politica delle donne, mettendo fuori campo due importanti gruppi di umanità. Entro questi limiti, che Canfora dava per scontati, esso è più di una recensione, ma una ricognizione, sulla scorta di antichisti prestigiosi come Finley e, prima, Rosenberg, ma soprattutto del “maestro di color che sanno”, Aristotele, sul contenuto sociale e classista del termine greco “democrazia”, che non è il potere dei più, ma dei nullatenenti, dei proletari. 
Sul tema della democrazia negli antichi e nei moderni, come ideologia e come pratica, Luciano Canfora ha continuato la sua riflessione fino ai giorni nostri, fino a farne un pilastro del suo peculiare leninismo. (S.L.L.)


«Che siano i pochi o i molti a governare è accidentale per l'oligarchia e la democrazia — i ricchi sono pochi dappertutto, i poveri molti (...) La reale differenza tra democrazia e oligarchia consiste nella povertà e nella ricchezza». Con questa formulazione tratta dal terzo libro della Politica di Aristotele si apre il recente saggio di Moses Finley sulla Politica nel mondo antico (1983, appena mal tradotto in italiano presso Laterza). ,
È un esordio appropriato per un libro che, nato da un ciclo di conferenze all'Università di Belfast (1980), finisce con l'essere una ripresa ed una sintesi di riflessioni che Finley aveva già svolto nei suoi libri dell'ultimo decennio sull'Economia degli Antichi e dei Moderni, sulla Democrazia degli Antichi e dei Moderni, sulla Schiavitù antica e ideologia moderna. Esordio appropriato, non solo perché in generale non si capisce nulla del mondo greco di età classica se si prescinde dalla riflessione di Aristotele, ma in particolare perché in quella formulazione si condensa il più maturo pensiero aristotelico intorno al cruciale problema della natura dei regimi politici. Lì finalmente Aristotele giunge — nei libri III e IV della Politica, che sono tra i più recenti da lui composti — a cogliere la differenza profonda tra le due forme antitetiche e sempre in conflitto: la democrazia è il predominio politico dei nullatenenti, dei non possidenti, indipendentemente dal loro numero, indipendentemente dal fatto del tutto accidentale che siano (o meno) maggioranza numerica.
Finley si compiace, un po' ironicamente — com'è suo solito — del fatto che un probo commentatore inglese di fine Ottocento, Newman, nell'annotare passo passo il trattato di Aristotele, avesse osservato che quella era proprio una «importante verità». In realtà, prosegue Finley, «gli studi oggi ritenuti fondamentali sulla Politica di Aristotele non considerano le implicazioni di quel passo basilare, dal quale ho preso le mosse, e che è ripetuto come un Leitmotiv per tutto il corso dell'opera» (p. 6).
Rimprovero ingiusto, se si considera che uno dei più bei saggi di Arthur Rosenberg — lo storico della Repubblica di Weimar ma antichista di professione — apparso proprio nell'anno (1933) in cui il nazismo lo scacciava dal suo paese è Aristotele sulla dittatura e sulla democrazia ed è tutto incentrato sulle notevoli implicazioni di quella «importante verità». Aristotele — scrisse Rosenberg — aveva colto che democrazia è anche il predominio politico di una minoranza di non possidenti, oligarchia è anche il predominio politico di una maggioranza di possidenti e classi medie: che la Terza Repubblica francese è una oligarchia, mentre l'Urss del 1918 è una democrazia. Non ho dubbio sul fatto che lo stesso Finley su queste — legittime — implicazioni del celebre ragionamento aristotelico rimarrebbe perplesso.
Le implicazioni che gli interessano sono altre, anch'esse peraltro chiaramente formulate da Rosenberg: innanzi tutto la scoperta, da parte di Aristotele, della natura di classe delle fondamentali forme politiche. Anzi, in barba alle molte e talmudistiche dispute degli ultimi decenni curate da molti dottor sottili, Finley con un certo piacere della provocazione parla insistentemente di «classe» e di «coscienza di classe» : «Ho adoperato il termine classe in modo piuttosto generico, come abitualmente lo adoperiamo nell'ordinaria conversazione. I ricchi e i poveri di Aristotele costituivano delle classi, non definite, ma tuttavia ben individuabili da parte dei contemporanei» (p. 16) ; «Quanto ho detto esemplifica a sufficienza, per i miei fini, ciò che era classe, coscienza di classe e conflitto di classe» (p. 18).
Naturalmente l'aspirazione a fornire un quadro complessivo valido per l'intero «mondo antico» resta alquanto insoddisfatta. È difficile dare una visione unitaria del mondo antico: per molte ragioni, una delle quali è che esso ci è noto in modo vario e discontinuo, per certe epoche in modo veramente 'ecumenico', ma per altre in modo assolutamente 'insulare'. Ciò è fin troppo noto, e infatti Finley limita spesso i suoi giudizi a tre città-guida: Atene, Sparta, Roma; ma Sparta rimane quasi sempre in ombra. Il cuore di Finley, per così dire, batte per Atene, ed è della società ateniese che egli fornisce le caratterizzazioni più felici.
Un punto cruciale è perciò, nella sua analisi, il concreto esplicarsi del potere popolare nella città democratica per eccellenza: la questione del salario assicurato a tutti dallo Stato e delle spese di utilità sociale imposte ai ricchi (che con parola greca, poi passata a significare altro, si chiamano liturgie). Finley combatte con efficace e brillante ricorso a documentazione recente e decisiva la agnostica tesi di Paul Veyne secondo cui il sistema delle liturgie non aveva implicazioni politiche. Le spese di utilità sociale — dimostra Finley — sono imposte dal demo per la soddisfazione di suoi precisi bisogni, ma sono anche di buon grado praticate dai possidenti, che proprio per questa via, accettando il sistema, di fatto se ne pongono alla testa.
Arthur Rosenberg — in uno splendido saggio scritto nel 1920 per le scuole operaie di Berlino (Democrazia e lotta di classe nell'Antichità: ora leggibile in traduzione italiana presso «La Memoria» di Sellerio, nel volume Il comunista senza partito) — aveva coniato una efficace immagine per descrivere questo fenomeno: il popolo mungeva i ricchi «come si fa con una mucca»; in questo modo, utilizzandoli e non espropriandoli, esercitava una «dittatura proletaria», il cui contrassegno moderno era il salario garantito dallo Stato (che — soggiungeva Rosenberg — trovò concreta applicazione nei mesi della Comune parigina del 1871). La prospettiva di Finley è però diversa. Mentre Rosenberg accentua l'originale forma di dittatura proletaria che venne a determinarsi, Finley vede il fenomeno soprattutto dal punto di vista di quella che chiama «la classe liturgica» e riconduce per certi versi il fenomeno sotto la categoria generale del «patronato» e della clientela (capitolo II).
Insensibile alle suggestioni della Cité antique di Fustel de Coulanges, Finley tende a ridimensionare fortemente il peso della religione nella formazione e nel consolidamento del potere politico nella polis classica (p. 41; più attenuato appare il suo giudizio a p. 195). Io non credo che tale atteggiamento fortemente limitativo sia giusto; e, ancora una volta, distinguerei nettamene i caso di Roma da quello di Atene e delle poche altre città-Stato che conosciamo. La persecuzione anti - epicurea in Italia, di cui parla Cicerone nel De finibus, originata dall'allarme che suscitava una predicazione come quella epicurea, volta a liberare gli uomini dalla «paura degli dei», dimostra che la base religiosa del potere e della prassi politica a Roma era consistente.
Molto più sensibile invece appare Finley, in questo libro suo recente, al formulario della moderna sociologia, e ciò non è sempre piacevole né, forse, utile. Tradurre la realtà dell'antica politica nel linguaggio della sociologia anglosassone sembra piuttosto una operazione morfologica («assicurazione contro le crisi di sussistenza», p. 49; «comunità face-to-face», p. 44; «affermazione ritualizzata dell'ineguaglianza», p. 53; «consenso utilitaristico», p. 197 etc). Tutto ciò comunque non basta a lasciare in ombra il tratto più genuinamente finleyano e simpaticamente classicistico, malgré tout, del grande storico di Cambridge: l'appassionata sua idealizzazione della «diffusa responsabilità civica del popolo di Atene».

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