25.3.13

Anche Manganelli s'innamora. Le lettere "familiari" di uno scrittore (Andrea Cortellessa)

«Per assurdo che possa sembrare anche Manganelli si innamora».
Così scrive la figlia Lietta che, dopo lunghe esitazioni, s'e' decisa a raccogliere in un prezioso volumetto (Circolazione a più cuori. Lettere familiari, Aragno, 2008)  le undici lettere ricevute dal padre, le tredici da lui indirizzate al fratello maggiore Renzo, le due alla cognata Angiola, due residue alla madre Amelia e, preponderante blocco iniziale, un'ampia scelta dal più vasto corpus alla fidanzata Fausta, conosciuta nel '44 (lui, partigiano comunista, aveva accompagnato sui monti la sorella, medico, a curare i compagni feriti) e sposata nel '46. La madre, cioè, di Lietta. Figlia e moglie che, dopo infinite paturnie, Manganelli definitivamente lascerà, nel '53, con la famosa fuga a Roma in Lambretta.
Quello di ricucire il rapporto con la figlia sarà un compito faticosamente affrontato, appunto per via epistolare, nei primi Anni Sessanta (nel '64 sarà la volta dell'altro celebre fait divers della mitobiografia manganelliana, il sospirato incontro caduto proprio il giorno del diverbio con Gadda): le lettere a Lietta, adolescente ovviamente inquieta, sono un curioso esperimento di pedagogia a distanza. Per ognuno dei famigliari lo scrittore adotta un registro «specializzato». Se alla madre tirannica (colei che incolpa di avergli «camminato sopra», «storpiandolo per sempre») si rivolge con burocratico sussiego, a Renzo è riservato il coté più goliardico. Ma la vera sorpresa è rappresentata dalle lettere alla fidanzata. Quello su cui la stessa Lietta non cessa di stupirsi, s'è detto, è il bamboleggiare stucchevole di questo Manganelli ventitreenne. Se è vero che nessuno può dirsi del tutto al sicuro da quella forma di mutuo petèl che fa impennare il tasso glicemico di ogni coppia di fidanzatini, certo fa specie leggere dalla penna del futuro autore di Hilarotragoedia passi come «io lavoro tanto, ma penso tanto a una piccolina, bellina come la stellina, e buonina come un angiolino e lontana come la stellina». Difficile non pensare che i furori antisentimentali del Manganelli maturo non si debbano leggere, allora, come autoriferiti all'equivoco d'essersi tanto ciecamente abbandonato, in gioventù, a un rapporto in realtà minato (spiega Lietta) dalle fondamenta. Chi è a rischio diabete assuma la prima parte di questo libro, dunque, con una certa circospezione. Ma non la salti. Perché nell'oceano di melassa, a tratti, si vede come già a quest'altezza siano elaborati certi decisivi nuclei psico-tematici dello scrittore a venire: un complesso di colpa strutturale e inemendabile («qualcosa dello spirito dei puritani gente che viveva in un costante solitario delirio») e, soprattutto, una percezione fisica, corporea (quella che in seguito Manganelli ritroverà in Petrarca e Leopardi) dell'assenza e dell'inesistenza («il non-essere ha un senso definito, preciso; ha una necessità, un valore, una conseguenza»).
Lo stesso che domina nelle due, splendide e già conosciute (Adelphi le pubblicò fuori commercio alla morte dello scrittore), lettere «consolatorie» spedite nel '73 alla cognata Angiola in morte di suo marito, il fratello Renzo appunto. Sono pagine che non sfigurerebbero in un'antologia della prosa epistolare di tutti i tempi: la retorica scintillante dello scrittore nel pieno della sua potenza si piega a un registro a lui incondito, ma padroneggiato con sovrana disinvoltura. Per chi non le conoscesse saranno uno choc.
Vi viene a giorno, infatti, una religiosità non convenzionale ma, non per questo, meno intensamente vissuta: «nessun dolore è malattia se è secondo la volontà di Dio». Dio, già: «La parola mai nominata, che costituiva il suo argomento essenziale», ha commentato una volta Pietro Citati. E aggiunge Manganelli: «Noi non sappiamo che significhi questa parola terribile e antica possiamo forse pensarlo come un luogo, l'unico luogo nell'universo in cui noi tutti siamo da sempre a sempre; noi, i vivi e i morti, insieme». A un «tappeto» sconfinato, paragona Manganelli il divino (l'intarsio di essenze che ritroveremo depositato al suolo, certo, nel capolavoro degli ultimi anni, La palude definitiva): «Una trama infinita di segni, ciascuno dei quali privo di senso, e che tutti insieme formano quel misterioso disegno, completo e perfetto, al cui completamento attende l'eternita'». Superbo, ulcerato ed estatico: il Manganelli che non finiamo mai di conoscere.

"Tuttolibri - La Stampa", 14 giugno 2008

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