19.2.13

Puccini moderno e immortale (di Rina Gagliardi)

Per gli 80 anni dalla nascita di Giacomo Puccini, Rina Gagliardi, giornalista di valore e melomane appassionata, tracciò su "Liberazione" un bilancio della sua vicenda artistica cui fece seguire un utile profilo biografico. Riprendo l’articolo e il box. (S.L.L.)

Quando morì, il 29 novembre 1924, Giacomo Puccini era il più celebre e acclamato compositore italiano. Era l'ultimo grande interprete di un genere - il melodramma musicale - che più di ogni altro era stato italiano, che anzi aveva contribuito all'identità italiana al punto da diventare (con Rossini, Bellini, Donizetti e soprattutto Giuseppe Verdi) una autentica cultura nazionale. Un "collante romantico" che univa la pur debole borghesia italica al popolo e alle classi subalterne. Ma Puccini non era soltanto l'erede "autentico" dell'epopea verdiana: era stato anche e soprattutto un innovatore, uno che aveva saputo coniugare la tradizione peculiare dell'Italia con le sensibilità del nuovo secolo: con l'Europa e, sia pure parzialmente, dell'avanguardia. A cavallo tra due secoli, insomma, Puccini aveva saputo riflettere nella sua musica la complessa transizione alla modernità. E il Novecento è leggibile proprio nella nevrosi melodica (secondo la definizione di Mosco Carner, il suo maggior biografo) che è la cifra vera di tutti i capolavori pucciniani. Ma anche nel "tormento creativo" (a cominciare dai libretti), che li caratterizza, nei loro esiti quasi sempre tragici, nella loro dichiarata centralità femmi-nile. Il nuovo secolo è avvertibile perfino nel contradditorio stile di vita del musicista: un uomo introverso e malinconico, che odiava la mondanità e le ribalte, ma al tempo stesso aveva gusti quasi da viveur (e certo da tombeur de femmes) e adorava collezionare un oggetto di lusso per antonomasia come l'automobile.
Sarà per questo insieme di suggestioni che le opere di Puccini sono (a tutt'oggi) tra le più popolari e rappresentate del mondo? Certo Bohème, Tosca e Madame Butterfly quasi non temono confronti, quando si tratti di garantire un boneghino. Certo, alcune arie, anzi alcune romanze pucciniane sono riuscite ad attraversare le barriere del tempo e della memoria, pur nello smemoratissimo presente che stiamo vicendo: chi non conosce almeno l'attacco di Un bel dì vedremo, di Nessun dorma, di Vissi d'arte, di Che gelida manina? Invenzioni melodiche fulminanti, che magari fluttuano nell'aria come tante piccole disiecta membra o spuntano come temi d'accompagnamento a spot pubblicitari (è capitato a O mio babbino caro, tratta da una pucciniana opera "minore"), decontestualizzate e strumentalizzate quanto si vuole, ma pur vive e viventi. In questo senso, Giacomo Puccini ha saputo conquistarsi uno statuto di "immortalità", a dispetto dei suoi molti critici di ieri e perfino di oggi. Come quel tal Carlo Bersezio che, dopo la prima di Bohème al Teatro Regio di Torino, il 1° febbraio 1896, ebbe a scrivere: «Quest'opera non lascerà tracce nella storia del nostro teatro lirico». O come il grande Gustav Mahler che, al primo ascolto di Tosca, la stroncò - in quanto opera rumorosa dove tutto quello che succede è «che suonano le campane e poi fucilano uno».
Uno dei tratti caratteristici delle opere di Puccini è che esse - con tre parziali eccezioni - hanno tutte un esito tragico. Storie che finiscono male, come si usa dire: proprio come se la morte - una morte precoce, spesso volontaria - fosse l'unico destino possibile, concepibile, auspicabile dell'esistenza umana. Ma, a differenza del melodramma verdiano (quasi sempre eroico, nel senso, con la notevolissima eccezione di Traviata, della sua abissale lontananza dalla vita borghese e quotidiana), i protagonisti - e le protagoniste - dei melodrammi pucciniani di eroico non hanno più nulla: sono creature "piccolo-borghesi", "normali", "normalmente" sfortunate. E quello che Puccini rappresenta sulla scena, come scrisse egli stesso, sono storie di «grandi dolori in piccole donne» - che tali rimangono a dispetto di un'origine letteraria o di un'ambientazione favolistica. Una ricamatrice (Mimì) consumata dalla tisi nella Parigi di fine Ottocento, una piccola geisha giapponese (Cio-Cio-san) sedotta e abbandonata da un marine americano, una fille de joie (Manon) che nonsa scegliere tra il lusso e l’amore, una cantante (Tosca) appassionata e gelosa, una suora peccatrice (Angelica), un'adultera colta in flagrante (Giorgetta): ecco la galleria dei ritratti fernminili prediletti dal grande lucchese. Donne belle, sensibili e sensuali, forti e vitali, ma inesorabilmente vocate al sacrificio di sè: la loro giovinezza è un'illusione che subito si spezza, la loro aspirazione alla felicità è un sogno che non si può realizzare. Quando Puccini cerca strade nuove, ovvero storie a lieto fine, rimane comunque impacciato: la sua unica vera donna vincente, l'eroina della Fanciulla del West, resta una figura solo abbozzata. E soprattutto non riesce a finire l'opera che è forse il suo massimo capolavoro, Turandot non a causa della malattia che lo fa soffrire, ma perché non riesce ad esprimere, con la musica adeguata, la trasfigurazione della protagonista da "fredda Luna" irraggiungibile a donna innamorata e, appunto, destinata a un amore felice con il suo principe azzurro. E Liù, la piccola schiava che si trafigge pur di non rivelare il nome dello stesso principe (che lei ama da sempre di un amore tanto segreto quanto impossibile) è in fondo la protagonista vera dell'opera solo formalmente incompiuta.
Sono qui, in questo spirito "organico" di tragedia e infelicità (che tuttavia non ha mai nulla di cupo o, peggio, di tetro), le radici del melodismo pucciniano. Improvvisa e avvolgente, trafiggente e trasfigurante, sensuale e "intima", la melodia pucciniana è sempre catartica e liberatoria - è il dover-essere, l'illusione dell'essere, che per un attimo riesce a sostituirsi alla banalità dell'esistere. E' fuga, ma anche affermazione di sé, di una coscienza che riesce "prodigiosamente" a ricomporsi con la sua parte profonda e inconscia. E' ricongiunzione conreta - emotiva e spirituale - con la Donna irraggiungibile (la Luna) che Puccini perseguì per tutta la sua vita. Anche per questo, è una melodia che non irrompe soltanto nei "grandi momenti", o nei momenti topici del dramma, ma penetra anche (quasi soprattutto) in quel "canto di conversazione" che ritma tutte le opere del maestro lucchese. Quello che ne costituisce la dimensione di routine, di realismo, appunto di normalità quotidiana e che ha fatto inscrivere Puccini, a torto, tra gli autori della "giovane scuola".
Puccini, in realtà (a differenza dei suoi contemporanei Mascagni e Leoncavallo), fu capace di andare ben oltre la poetica neorealista. Così come seppe innestare, sull'eredità verdiana (melodica e mediterranea) e wagneriana, le lezioni di Debussy, Ravel, Stravinski e, in parte, Schoenberg: perciò l'orchestra (che egli per altro sapeva magistralmente trattare) ha nelle sue opere un ruolo così significativo, nient'affatto esornativo ma protagonistico.
Tra i grandi musicisti del '900, egli è quasi il solo che possa fregiarsi del titolo di «poeta della modernità» e dei suoi irrisolti tormenti: l'amore e la morte, alla fin fine, come i momenti cardinali del senso della vita. Una vita, però, ormai priva di salde certezze, che viene vissuta all'insegna dell'inquietudine, e di una ricerca di nuovi valori destinata, sempre, ad essere sconfitta. Solo la politica, da cui Puccini era lontanissimo, avrebbe potuto costituire una (laica) soluzione della crisi. Lui poteva solo cantarla.
Puccini. Cenni biografici
Giacomo Puccini nacque a Lucca, dai una famiglia di musicisti, il 22 dicembre 1858 e morì a Bruxelles, per un cancro alla gola, il 29 novembre 1924. Grazie all’aiuto di un prozio, dal 1880 poté frequentare con profitto il Conservatorio di Milano: qui scrisse nel 1883 la sua prima composizione, un “Capriccio Sinfonico” molto apprezzato. L'anno successivo, 1884, è quello della rappresentazione (a Milano) della sua prima opera, "Le Villi", alla quale seguì, nel 1889, l'"Edgar". Con "Manon Lescaut", andata in scena per la prima volta a Torino nel 1893, Puccini ottenne quasi un trionfo. Tre anni dopo, sempre nel capoluogo piemontese, si tenne la prima de "La Bohème", diretta da Arturo Toscanini. Con "Tosca" (Roma, 1900), pur da molti contestata, Puccini consolida successo, fama e gloria. I maggiori teatri del mondo, da questo momento in poi, si contendono le sue opere. Il 17 febbraio 1904 va in scena alla Scala di Milano "Madama Butterfly": un fiasco colossale, con fischi, boati e sghignazzi di tutto il pubblico. (L'opera sarà parzialmente rifatta e, da allora, sarà un hit del teatro pucciniano). Sulla via di un'innovazione a cui non verrà mai meno, Puccini crea "La Fanciulla del West", rappresentata al Metropolitan di New York nel 1910. Del 1918 (preceduto dall'operetta "La Rondine") è il "Trittico". Infine, l'ultima incompiuta opera, "Turandot": essa andò in scena alla Scala nel 1926, due anni dopo la morte di Puccini. All'ottava battuta dopo la morte di Liù, Arturo Toscanini, che dirigeva la prima, si rivolse al pubblico e disse. «Qui l'opera si interrompe perché il maestro è morto».

“Liberazione”, 28 novembre 2004

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