22.2.13

Plinio il vecchio. La tassa sull'ombra, la lattuga dell'Imperatore e altre amenità (Luigi Malerba)

Un canestro di fichi dalle piture pompeiane
Qualche volta i posteri sono veramente cattivi. Hanno fatto pesare (ma sarebbe più giusto dire "abbiamo", perchè i posteri siamo anche noi), abbiamo dunque fatto pesare su Plinio Gaio Secondo l'appellativo di Vecchio (Plinio il Vecchio) che ne ha compromesso gravemente l'immagine presso i lettori, spargendo un certo sentore di muffa e di polvere sulla sua opera. Se poi andiamo a controllare le date, ci accorgiamo che Plinio il Vecchio morì a soli cinquantacinque anni durante la tragica eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo mentre era al comando della flotta romana di Capo Miseno, e che il nipote Gaio Plinio Cecilio nominato dai posteri come Plinio il Giovane morì, anno più anno meno, alla stessa età dello zio.
Il lettore ha finalmente la possibilità di spolverare l'immagine di questo autore da quando l'editore Einaudi ha iniziato la pubblicazione, con testo latino a fronte, della sua Storia naturale, opera ponderosa ma anche fonte di stupori e piaceri inconsueti, fino a ieri introvabile se non nelle collane straniere dei classici. E' uscito da poco il terzo volume, sui cinque complessivi (Plinio, Storia naturale, vol. III, "Botanica", pagg. 996, lire 85.000).
I classici talvolta ci spaventano o quanto meno ci incutono troppo rispetto. Quale uso fare dunque di un testo come questo, sempre citato e pochissimo letto e che emerge dalla nostra memoria come uno dei tanti relitti di lontani naufragi scolastici? Confesso che ne ho già fatto un uso poco riverente in altra occasione, notando come la scienza enciclopedica di Plinio il Vecchio (la sua Storia naturale è una specie di Enciclopedia Treccani della antichità) si fosse mutata con il tempo in una deliziosa raccolta di favole. La pioggia di latte, di ferro, di lana e di pignatte, il vento Favonio che feconda le cavalle lusitane, l'elefante che si innamora del giovane Menandro, che altro sono se non belle favole? Questo terzo volume dedicato alla botanica e inscritto nell'ambizioso progetto di inventariare l'universo, ripropone l'annoso dilemma tra Funzione e Ornamento, tra Informazione e Immaginazione. Per quanto le notizie sulle qualità dei legnami e il loro uso, quelli che resistono meglio all' umidità e ai tarli, sulla piantagione, potatura e concimazione dell' ulivo, sulla coltivazione della vite, siano in buona parte raccomandabili ancora oggi, dubito molto che i nostri contadini andranno a consultare il testo di Plinio prima di intraprendere le loro opere. Quello che posso garantire è che questi volumi resistono allegramente ai tarli e alle muffe e potranno risultare anche molto divertenti se li si legge con l'occhio attento alla grande quantità di informazioni curiose e di aneddoti di cui Plinio era un attentissimo collezionista. Ingenuità diffidenza malizia obiettività e curiosità si alternano in quest'opera, uniti sempre allo stupore di fronte al mistero della natura. Tutto questo emerge anche dopo una lettura più frivola, che consiglio senz'altro a chi si avvicina a questo autore per la prima volta.
Credo che la cosa migliore sia sempre quella di riportare qualche esempio. L' elvetico Elicone, che aveva soggiornato a Roma per fare il fabbro, era ritornato nelle Gallie portando con sé fichi secchi, uva passa e vino. Dopo avere assaggiato questi prodotti succulenti i Galli si riversarono in Italia in una guerra che li portò fin sotto le mura del Campidoglio. Che il platano sia un generoso dispensatore di ombra con le sue larghe foglie e le sue chiome gigantesche lo sanno tutti, ma pochi sanno che i romani facevano pagare un tributo speciale ai Morini (gli abitanti della zona intorno alla odierna Calais) che abitavano un'area piantata a platani; in altre parole, facevano pagare una tassa sull'ombra. Gli alberi sui quali venivano tirati i tralci della vite, pioppi e olmi, erano al tempo di Plinio tenuti assai più alti di quanto non si usi nelle piantate moderne. Così alti che durante la vendemmia il contratto prevedeva per i lavoranti ingaggiati per la raccolta dell'uva anche il risarcimento per le spese del funerale.
Plinio il Vecchio è anche un imperterrito moralista e contro coloro che anche ai suoi tempi disdegnavano l'umile lavoro dei campi è pronto a fare carte false raccontando, sulla autorità di Omero, che il re Laerte spargeva di propria mano il letame nei campi (in realtà Omero racconta solo che Laerte sarchiava i suoi campi, e per un re è già qualcosa). Un altro re, il re Augia, pare che abbia avviato per primo in Grecia la pratica della concimazione e che Ercole l'abbia poi divulgata in Italia, dove gli agricoltori elessero protettore delle greggi e dei campi il dio Stercuto o Sterculio. E qui Plinio esibisce fieramente le sue conoscenze sui vari tipi di letame e sulle loro qualità. Quello di cavallo pare sia il più leggero. Fra gli agricoltori c'è chi preferisce il letame di giumenta a quello di bue, quello di pecora a quello di capra; ma fra tutti quello di asino è senz'altro ritenuto il migliore perché questo quadrupede ha la masticazione più lenta. Columella nella sua Arte dell' agricoltura (anche questa nei "Millenni" di Einaudi) condanna il letame di maiale, ma è il solo, dice Plinio, perché tutti gli altri ne fanno alte lodi.
Sui mangiatori di terra c' è una lunga tradizione che arriva fino ai nostri giorni, sempre circondata da un alone di mistero e proibizione. Si intuisce che Plinio avrebbe da fare qualche riserva su questa consuetudine poco ortodossa, ma l'albo dei mangiatori di terra è nobilitato dalla presenza del divino Augusto che si era accaparrata a suon di sesterzi addirittura una collina di terra bianca di cui era ghiottissimo, nei pressi di Cuma. Tiberio invece aveva una passione per i cetrioli e li faceva coltivare su speciali carrelli pieni di terra che venivano spostati al sole nella stagione fredda in modo da avere disponibili questi ortaggi tutto l'anno per la mensa imperiale. Augusto curava i suoi malanni al fegato (causati forse dalle scorpacciate di terra?) con la lattuga. Se la terra e i cetrioli fuori stagione erano riservati a un'èlite, pare che i romani fossero golosissimi dei grossi vermi che si trovano sotto la corteccia del rovere; ma è una notizia che si trova soltanto in Plinio. Il quale non specifica come venissero cucinati o se venivano mangiati crudi come i frutti di mare; ma doveva trattarsi comunque di una consuetudine molto diffusa dal momento che questi vermi venivano prelevati dai tronchi e ingrassati con la farina in speciali allevamenti.
Il moralismo di Plinio si fa molto severo sull'uso e abuso dei profumi. I fabbricanti e i venditori di questi frivoli e costosi prodotti, destinati a svanire subito nell'aria, erano secondo lui pericolosi agenti della corruzione e della decadenza dei costumi. Con scandalo racconta che Caligola si faceva profumare la vasca da bagno e che durante le parate militari certi generali facevano profumare perfino le punte delle lance e le aquile che avevano sottomesso il mondo. E Lucio Plozio, colpito da proscrizione da parte dei triumviri, fu tradito nel suo nascondiglio dal profumo che aveva indosso e quindi catturato. Chi potrebbe ritenere ingiusta, commenta Plinio, la morte di un simile individuo? Un altro episodio che getta una luce sinistra su certi nostri antenati riguarda la proibizione per le donne di bere vino. La moglie di Egnazio Metennio, per aver bevuto vino da una botte venne uccisa dal marito a colpi di bastone. Questa infrazione veniva giudicata così grave che il marito venne assolto dalla imputazione di assassinio. Ma il codice dei comportamenti nella Roma antica presenta qualche smagliatura nell'area della botanica: certi ortaggi, come per esempio la ruta, crescono meglio se le piantine sono state rubate. Da Plinio il Vecchio i cattivi posteri possono imparare molte cose sui loro cattivissimi antenati.

“la Repubblica”, 7 aprile 1985

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