7.2.13

Memoria dell'autunno caldo. 1969: i delegati e i consigli (Loris Campetti)

Nel novembre del 2009 "il manifesto" uscì con un supplemento che rievocava l'"autunno caldo" di 40 anni prima e aveva un titolo emblematico: Il potere doveva essere operaio. Molti dei pezzi che lo componevano sono tuttora assai utili a quanti (sempre meno numerosi) vogliano capire il clima di quei tempi, specialmente nelle fabbriche e nelle officine. Qui riprendo e "posto" solo un frammento di Loris Campetti: la memoria diretta e indiretta di una forma di democrazia operaia, da cui converrà ripartire quando questa lunga notte sarà terminata. (S.L.L.) 
Sulle origini dei consigli di fabbrica il dibattito è ancora aperto, almeno tra quei quattro gatti che ancora ne parlano, ma non è così importante stabilire se nacquero prima del ’69 e quanto prima, all’Alfa o a Mirafiori, alla Pirelli o magari in qualche recondita fabbrichetta meccanica o tessile emiliana, o appollaiata sotto i monti Sibillini. Io ricordo quando, prima ancora dell’esplosione dell’autunno caldo le «avanguardie» (si chiamavano così) del movimento studentesco di Camerino scendevano dai monti verso la piana industriale di Fabriano per partecipare ai picchetti contro gli straordinari e ritornavano all’università occupata insieme ai primi delegati di gruppo omogeneo, invitati all’assemblea in cui allo striscione «Potere studentesco» venne aggiunta una riga, un’apertura di credito all’esterno conquistata tumultuosamente: «Potere studentesco e operaio». Quei delegati ci spiegarono come erano stati eletti, in una squadra, in un reparto, in un’officina, in un gruppo omogeneo, da lavoratori che condividevano una condizione, dei movimenti, delle sofferenze, una catena, il frammento di un ciclo produttivo di cui volevano finalmente sapere tutto. Per modificarlo con la lotta. Non erano più i sindacati di categoria a nominare o far eleggere i loro rappresentanti perché portassero in fabbrica la linea dell’organizzazione d’appartenenza. Al contrario, erano i lavoratori a scegliersi democraticamente i rappresentanti, i delegati incaricati di battersi per conquistare migliori condizioni, ridurre fatica, fumi e nocività. E di trattare con la controparte, il padrone (si chiamava così). Se quei delegati, che potevano avere o non avere una tessera sindacale in tasca, non rispettavano il mandato della base potevano vederselo revocare in qualsiasi momento.
Fatte le lotte, gestita la trattativa, l’eventuale ipotesi di accordo doveva essere validata dal giudizio e dal voto dei diretti interessati.
Come scrive Pino Ferraris in questo speciale, era la «democrazia di mandato». Non si trattava più di democrazia delegata, del sindacato che si irrorava nei posti di lavoro attraverso quelle Commissioni interne a cui tanta parte del Pci era aggrappata, guardando con diffidenza spinte spontanee ed egualitarie. Né si può parlare di democrazia assembleare, tanto cara a quelle nascenti organizzazioni di sinistra che videro nei consigli la lunga mano della burocrazia sindacale («signor padrone/ non c’hai fregati/ con l’invenzione dei delegati/ e questa volta come lottare/ lo decidiamo soltanto noi», era l’inno di Lotta continua). Tanto gli uni – il Pci – quanto gli altri – la galassia micropartitaria dell’estrema sinistra – contribuirono a costruire la fine dell’esperienza consiliare.
Il delegato operaio, recitava l’appello prodotto alle Officine ausiliarie Fiat di Torino nel maggio ‘69, «deve poter trattare con tutta la gerarchia di fabbrica, dal capo reparto fino al capo del personale. Il suo compito non deve essere quello di trasmettere alla c.i. (la commissione interna, ndr) il problema che il collettivo operaio ha. Il collettivo operaio si impegna a difendere il suo delegato dagli spostamenti. È chiaro infatti che la Fiat non ci dà i delegati; bisogna farseli, fare in modo che funzionino e difenderli». Al centro dell’appello c’era la costruzione di «un potente e unitario movimento dei delegati operai, che abbia come obiettivo permanente il controllo operaio sulle condizioni di lavoro e sulla produzione». Da questa struttura informale nasce e si generalizza in tutto il paese, liberato da pochi mesi dalle gabbie salariali, un processo di rifondazione del sindacato che diventerà, per una stagione troppo breve, il sindacato dei consigli, che tra i metalmeccanici troverà uno sbocco nella Flm.

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