21.2.13

Marchio a pelle. Il razzismo nell’Italia fascista (di Michele Nani)

L’articolo, recensione di una mostra bolognese del 2004, è utile ricognizione su un tema ancor oggi poco indagato e silenziato dal doppio mito degli “italiani brava gente” e del “fascismo regime all’acqua di rose” anche sotto il profilo delle politiche razziali.
A nove anni di distanza una chiosa necessaria. La destra berlusconiana e leghista, tornata al governo nel 2008, dopo una breve parentesi, sdoganò il razzismo e volle reintitolare con meno ipocrisia i lager per immigrati non regolarizzati che da Cpt (Centri di permanenza temporanea) divennero  Cie (Centri per l’identificazione e l’espulsione).  Così tuttora si chiamano. (S.L.L.)

«Divulgare» è verbo non amato dagli studiosi e neppure dagli spiriti critici. Si porta appresso spiacevoli etichette, legate ad alcune premesse implicite: fra «intellettuali» e «masse» si divaricherebbe uno spazio polarizzato; i ricercatori sarebbero inevitabilmente «specialisti», presi nella rete del loro stesso gergo; le uniche mediazioni fra studi scientifici e cultura generale sarebbero riassunti semplificati. Anche se non la rispecchiano, le etichette possono condizionare la realtà e certo l'attuale situazione di scuola e università, con il sapere sbriciolato in moduli minimi e sintetizzato in manuali sempre più stringati, non aiuta a pensare una trasmissione culturale dal taglio diverso. Tuttavia esistono esperienze incoraggianti che restituiscono il senso di un'altra divulgazione possibile. È il caso della fortunata mostra La menzogna della razza, promossa nel 1994 dall'Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna: realizzata da giovanissimi ricercatori, godette di uno straordinario successo e circolò per anni da un comune all'altro d'Italia. Fino al prossimo 27 febbraio si può visitare una versione ridotta e aggiornata della mostra, allestita nello stesso luogo dal quale dieci anni orsono partì quell'esperienza: a Bologna, presso lo splendido quadriloggiato superiore della Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, a due passi da piazza Maggiore.

Laboratorio dello storico
Curata da Riccardo Bonavita, Gianluca Gabrielli e Rossella Ropa, la mostra L'offesa della razza. Razzismo e antisemitismo dell'Italia fascista è forte del medesimo assunto metodologico della precedente: coniugare serietà nella ricerca e orizzonte della comunicazione allargata. Come? Aprendo al pubblico quel «laboratorio dello storico» caro a Marc Bloch e quindi presentando direttamente le fonti documentarie sulla cui base gli studiosi costruiscono narrazioni e interpretazioni. Le fonti, anche quelle apparentemente più «realistiche» come le fotografie o le ingiallite carte d'archivio, non parlano da sole, come troppo spesso si ripete: al contrario, necessitano di un delicato lavoro di presentazione che metta l'osservatore odierno nelle condizioni di comprendere il loro senso e la loro funzione, ricostruendo il contesto, le coordinate spaziali e temporali, sociali e culturali che sole permettono di leggere un documento. Adeguatamente presentata, senza forzature o anacronismi, la materialità della fonte può permettere di gettare uno sguardo sulle esperienze del passato, per la sua concreta implicazione in azioni umane.
Nel caso del razzismo fascista si tratta di azioni violente e criminali, che nonostante gli esiti tragici cui hanno condotto subiscono in maniera ricorrente tentativi di rimozione o relativizzazione: articoli giornalistici, sceneggiati o pseudo-documentari ci hanno raccontato in questi anni il mal d'Africa, la vita privata dei gerarchi, i dilemmi dei giovani di Salò, ma non hanno mostrato le vittime del colonialismo fascista, la guerra ai civili nei Balcani o l'attiva collaborazione alla deportazione degli ebrei.
L'offesa della razza rammenta l'ampia base di pregiudizi che circolavano nell'Italia fascista: veicolati da scuola e propaganda, ma anche dalla stampa e dagli stessi discorsi quotidiani di uomini e donne comuni, questi materiali permettevano la costruzione delle «razze». Nel caso dei «negri», i sudditi coloniali erano descritti con tratti caricaturali e spregiativi, spesso nel segno della «bestialità» o, nel caso delle donne, della «sensualità». Gli ebrei venivano invece ricondotti a uno stereotipo visivo, legato sia a connotazioni negative elementari, come l'avidità e la sporcizia, sia all'ostilità nei confronti dei «cristiani» attribuita agli ebrei in quanto sfruttatori, parassiti o dominatori, che prendeva talora le forme del complotto internazionale.

Faccette nere
Sulla base di questa continua riproduzione, il razzismo fascista diede spazio a diverse elaborazioni ideologiche: il biologismo degli scienziati e dei medici, l'antropologia coloniale, la dottrina tradizionalista di Evola, il nazional-razzismo, l'antisemitismo nazionalista e cattolico.
Nell'esperienza coloniale degli anni fra le due guerre il razzismo diffuso si irrigidì in una vera e propria gerarchia sociale, codificata per legge. Alla repressione propria di ogni imperialismo, il fascismo aggiunse veri e propri crimini, come la deportazione in campi di concentramento di oltre 100.000 libici, l'uso di gas asfissiante nel corso della guerra d'Etiopia, le feroci rappresaglie contro la resistenza anticoloniale. Dal 1935 il razzismo antiafricano affiancò alla violenza una nuova legislazione, tesa alla segregazione sistematica, che rovesciava, ad esempio, la considerazione razzista delle donne africane come oggetti sessuali nell'azione contro quelle stesse relazioni, in nome della lotta altrettanto razzista al meticciato. Tre anni dopo, il regime fascista varava i primi provvedimenti discriminatori nei confronti degli ebrei, avviando un processo che li avrebbe infine esclusi dalla vita pubblica, impoveriti ed emarginati socialmente, rendondoli sempre più insicuri e soggetti a provocazioni e violenze.

Contro gli ebrei
Con l'entrata in guerra molti ebrei stranieri e italiani vennero internati, mentre dal 1942 tutta la popolazione ebraica in età da lavoro venne costretta ad attività manuali: poco prima del crollo del regime, Mussolini aveva previsto l'istituzione di campi ove concentrare gli ebrei italiani e costringerli al lavoro coatto (si tratta di un'importante acquisizione dovuta alla precedente mostra). Sfumato il progetto per le vicende del 25 luglio, pochi mesi dopo la nuova Repubblica sociale italiana radicalizzò la persecuzione degli ebrei e contribuì alla Shoah, rastrellando e concentrando gli ebrei. In territorio già italiano, ma controllato dai nazisti, si trovava invece la Risiera triestina di San Sabba, ove operavano anche «furgoni a gas» nei quali trovarono la morte fra i quattro e i cinquemila prigionieri.
Il ricco percorso espositivo ripresenta molti materiali della mostra del 1994 ed è introdotto da una nuova serie di pannelli che, partendo dalla distinzione tutt'altro che ovvia di «razza» e «razzismo» (quanti ancora oggi sono convinti che le differenze fra gli uomini siano riconducibili a tipi in qualche modo ereditari?), cercano di introdurre il razzismo fascista nella lunga durata dell'ostitlià antiebraica e del razzismo coloniale. Come ha mostrato Enzo Traverso, in un libro fondamentale (La violenza nazista. Una genealogia, edito dal Mulino nel 2002), il razzismo e lo sterminio novecenteschi rappresentano gli esiti di una serie di radicalizzazioni (dovute alle guerre e al fascismo), ma vanno inserite anche in più ampie continuità. Auschwitz e il nazismo, ma anche il razzismo fascista più in generale, sono il prodotto - e la rottura - di una storia europea, l'altra faccia di una «civiltà» moderna che nell'Ottocento, il secolo del progresso, aveva visto esplodere la violenza coloniale, l'antisemitismo e il razzismo di classe. Problemi come questi sono presenti anche nel catalogo (Bologna, Pàtron 2005), che presenta un saggio dei curatori sul Razzismo fascista e alcune Note di storiografia sul razzismo stese da Enzo Collotti.

Dalle colonie ai Cpt
Sono molti i meriti di questa bella e istruttiva mostra. Innanzi tutto si ricorda la vicenda peculiare del regime fascista italiano, che varò a distanza di pochi anni due normative razziste, istituendo un vero e proprio apartheid in colonia e contribuendo poi al dilagare delle legislazioni antisemite in Europa. In secondo luogo, i curatori non hanno isolato le due grandi tradizioni razziste europee, ma hanno cercato di mettere a confronto le discriminazioni e le violenze dirette contro gli ebrei e contro gli africani, senza trascurare ulteriori vittime, ricordando ad esempio il destino degli «zingari». Infine, la sensibilità verso la divulgazione e il mondo della scuola ha suggerito ai curatori alcuni percorsi «dalla mostra alla ricerca», per incentivare l'interrogazione della memoria familiare, degli archivi, delle fonti a stampa e delle immagini. Quei suggerimenti si chiudono, su ispirazione di un noto libro di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah (Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori 1997), con una serie di profili di «attori» delle vicende esposte attraverso la mostra.
La carriera di letterati come Giovanni Papini oppure di gerarchi come Giuseppe Bottai è accostata all'azione di anonimi burocrati e delatori, e alle sofferenze o alla morte delle vittime del razzismo fascista. Sarà forse questa galleria, inquietante proprio perché mostra il nesso fra violenza e ordinaria quotidianità, a toccare il «bravo italiano» che sonnecchia in ognuno di noi? Uscendo dalla mostra di Bologna e riflettendo su un presente tuttora carico di razzismo, potrebbe forse sentirsi meno irresponsabile: l'indifferenza non è, oggi come allora, l'anticamera della complicità? La battuta sugli «zingari» al bar o l'insofferenza verso i migranti non hanno qualcosa a che fare con quel che succede a pochi passi da casa, quando il fuoco divampa in un campo nomadi e l'ennesimo individuo solca la soglia di quelle galere etniche che ci ostiniamo a chiamare Cpt?

il manifesto 14 febbraio 2005

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