13.2.13

Il sacco di Roma da Porta Pia all'era fascista (di Franco Miracco)

L’articolo che segue, da un ritaglio del “manifesto” (l’annata è il 1983, ma non trovo indicazioni sulla data), è recensione di un volume che allora era appena uscito (Aa.Vv., Via dei Fori Imperiali, Marsilio Editore), ma anche lamento per la sorte di una città, del suo passato e del suo presente. (S.L.L.)
1932. Sbancamento della collina Velia. (dal sito Roma sparita)
Si potrebbe iniziare con «un'altra galassia, un'altra era». Perché di questo si tratta, del racconto, ora incredibile, di quando Roma aveva una piazza ocra, verde, grigia, con al centro uno slargo, bianco d'estate ma stabbio fangoso d'inverno. Una specie di prateria interna con qualche antichissima fontana, con basi e capitelli di colonne ammassati per bivacchi notturni o soste al riparo dai pericoli e dalle fatiche, cosi per contadini, pastori, artigiani, piccoli mercanti. Una piazza sotto il Campidoglio, sul lato da cui emergeva, poco più della metà, la scogliera dell'Arco di Settimio Severo, precipitato da chissà dove, e da quel punto si vedeva appena il Colosseo, perché di mezzo c'erano una collina, macchie di sempreverdi, minuscole boscaglie di allori, di querce, monumenti utilizzati come magazzini o stalle o abitazioni poverissime, macerie trasformate in fantastiche fortezze o in precari depositi per vagabondi, e poi case, chiese palazzi.   
Era quella parte di Roma chiamata Campo Vaccino, così come appare nelle vedute di Paolo Monaldi o nella magnificenza del formicolio piranesiano, dove i monumenti del Foro romano stanno nella loro antica grandezza ma anche come minacciosa tempesta della storia per i moderni. C'è un libro dotto, bello, attuale intitolato Via dei Fori Imperiali (la zona archeologica di Roma: urbanistica, beni artistici e politica culturale), il quale ci restituisce la possibilità di «vedere» com'era quella Roma lontana lontana... di quella Roma sparita dopo il 1870, dopo il 1930, dopo che mostruose spallate e impietose voragini sbriciolarono per sempre l'irripetibile impasto di storia e di natura chiamato Roma.
Di chi la colpa? Sicuramente di un'architettura, di un'urbanistica, di una politica, che non seppero andare al di là di un territorio tutto da sfruttare secondo i criteri e gli interessi di una città per una speculazione di rapina, di corto respiro, dall'arraffo immediato, senza orizzonti, che non fossero quelli di un mascheramento da parata di un potere mai metropolitano perché specchio di gerarchie cimiteriali. Sicuramente di un'archeologia dall'eclettismo assai sospetto, a volte misero, se si parla di cultura, di scienza, d'interdisciplinarietà in termini moderni.
Il libro è dotto per i saggi «Storia di una distruzione» di Alessandro Conti, «L'urbanistica nella zona dei Fori Imperiali: piani e attuazioni (1873-1932)» di Alberto M. Racheli, «Le chiese dei Fori Imperiali: demolizioni, dispersione del patrimonio artistico» di Liliana Barroero. Il saggio di Conti, dopo averci fatto ripercorrere con acutezza nostalgica la Roma dei viaggiatori del Settecento e quella post-napoleonica, diventa, da prima, la nota colta dell'archeologia del collezionismo, del rovinismo, del sublime e del pittoresco, del riuso dell'antico in edifici moderni, per essere, quindi, cronaca minuziosa delle imprese di Rodolfo Lanciani, Corrado Ricci, di coloro che operarono per la Terza Roma.
Sparirono allora le mura dell'arce capitolina, antichi muraglioni, resti imperiali, pavimenti a mosaico, la Torre di Paolo III, il palazzo Torlonia, piazze, vie, fu modificato l'aspetto altimetrico e planimetrico di un pezzo enorme di città. Di fatto non ci fu da parte del comune e dello stato alcuna tutela delle zone archeologiche, anche se Lanciani ha coscienza della necessità di rapporti non solo speculativi fra attività edilizia e archeologia. Tutt'al più trionfa l'archeologia del conservare solamente i resti monumentali che conosce allora i suoi fasti e chissà se è morta del tutto. Certamente era attivissima durante gli anni trenta, quando si demolivano interi quartieri, come quello della Bocca della Verità, quando cioè governava Bottai con i suoi archeologi di regime, i nipotini dei quali, se non essi stessi ancora, continuano ad imperversare con le teorie del paesaggio archeologico come strampalato campionario.
L'archeologia dello sterro, dunque. Del caso, del frammento, di quanto concedono i lottizzatori, con gli stessi metodi e guadagni, sul Quirinale, sul Viminale, sull'Esquilino, nell'Africa delle colonie. Chi sono coloro che distruggono o rintracciano miniere di reperti per archeologi impreparati di fronte a tanto sconquasso? Lo dice Conti quando scrive: «compagnie edificatrici, proprietari di immobili, parlamentari e funzionari loro legati, hanno troppi motivi per favorire lo sviluppo della nuova Roma (dei cui proventi, nonostante gli intenti polemici, di kulturkampf locale, finiscono per beneficiare la nobiltà nera e il Vaticano), per tutelare davvero un patrimonio archeologico che torna in luce solamente al momento degli scavi edilizi, il cui volto non è divulgato e impedirebbe il processo di costruzione...».
Racheli con la sua preziosa e intelligente documentazione sull'urbanistica romana, dal piano regolatore del 1873 ai piani particolareggiati del 1932, ci fa intendere una città che subisce espropri, sistemazioni, varianti, sventramenti, interventi edilizi d'ogni tipo, per avere l'estetica urbana dei palazzinari e dei romanisti, la Roma invivibile di oggi, l'archeologia del degrado. C'è la fotografia dello sbancamento della collina della Velia terminato nel settembre 1932, che non solo dà il senso di quelle catastrofi storico-urbanistiche, ma sottolinea con la drammaticità dell'immagine il valore degli studi di Conti e di Racheli.
Il sacco della storia di Roma moderna si fa spettacolo impressionante, dramma stupefacente, quando, nel saggio della Liliana Barroero, si leggono e si vedono le cose sparite per sempre con le demolizioni delle chiese della Santissima Annunziata ai Pantani, di Sant'Urbano, di Santa Maria in Macello Martyrum, di San Lorenzo ai Monti, di Sant'Adriano al Foro Romano.
Il libro è bello perché ti raggela con le fotografie di quanto non esiste più, del saccheggio in corso, della rapidità sbalorditiva dei piccoli demolitori, è bello perché ti esalta con le immaggini del paesaggio e dell'arte di Roma prima che fosse Italia.
Il libro è attuale nell'introduzione di Giorgio Gullini che dimostra pacata sapienza nel difendere il progetto dell'attuale sovrintendenza archeologica di Roma, di un'archeologia militante nella cultura, nella valorizzazione integrale dei valori di una città, compresi quelli del poterci vivere. Questo libro, andrebbero ancora citati i contributi di Mario Serio e Lorenzina Gallo (leggi e documenti d'archivio), è un fondamentale episodio per gli studi contemporanei di storia dell'arte, di architettura medievale e moderna, di archeologia, di urbanistica, di storia di Roma.

Nessun commento:

statistiche